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Ferita a morte la foresta del Congo

di Vincenzo Maddaloni - 02/07/2007

Fonte: canisciolti

 

La foresta pluviale del Congo, la seconda per estensione dopo quella Amazzonica, una delle principali difese del pianeta contro i cambiamenti climatici, è assediata dall´industria del legno. Le multinazionali fanno a gara a chi taglia di più. Greenpeace avverte: "Così si rischia la catastrofe ambientale". I dati sono agghiaccianti: in Africa centrale è andato perduto l'85 delle foreste originarie. Oltre 80 mila chilometri quadrati di foresta sono andati distrutti per sempre. Con essi sono scomparse alcune preziose specie animali e vegetali. Accade sebbene da vent’anni si denunci questo scempio.

Dall’alto, andando verso Bolila, è un mare smeraldo senza un’increspatura, compatto e ininterrotto, inesorabilmente fitto, meravigliosamente opprimente, non una strada o un cortile d’altre tinte, soltanto le barocche serpentine di corsi d’acqua color della prugna. E’ il primo marzo 1986. Voliamo da due orette incontro alla foresta equatoriale per i corridoi di un cielo illuminato da un sole smorto, e la sola cosa viva sull’immensa immobile distesa di giada è la piccola ombra di questo aquilotto meccanico che sfila, quattromila piedi in basso, sul fondo della selva, in punta ad alberi calcinati di secoli. La rotta è Nord, definita dalla possente curva del Congo (il fiume di Cuore di tenebra, il romanzo africano di Joseph Conrad), e adesso appena lo si intravede in fondo al verde il quale continua a non offrire segni di presenza umana.

Ma poi Nino, il pilota, punta il dito sul vetro della cabina e l’aeroplanino bianco e rosso scivola d’ala e si abbassa. Eccola allora la vera foresta: un groviglio, una inestricabile ragnatela di fogliame profonda centinaia di metri e lunga fin dove arriva lo sguardo. S’abbassa ancora l’aeroplanino, e la sua ombra si posa sulla paglia di una tettoia a lato di una radura cavata di forza alla selva. Qualcuno agitando in alto le braccia segna la direzione del vento: allora un’altra virata e poi s’appoggia con un lieve balzo. Nino spegne il motore. C’è Hubert che ci aspetta con i fuoristrada. Saliamo. Pochi chilometri lungo un sentiero che termina su un rettangolo di terra battuta, incassato tra un braccio di fiume e il muro degli arbusti. Al centro un gruppetto di case prefabbricate: nella più grande, che ha il tetto conico delle capanne indigene, la tavola è imbandita con la tovaglia a quadratini bianchi e rossi e un ciuffo di giacinti nel mezzo. Intorno siedono due uomini in silenzio. La vista dà sul fiume; il sole scende e l’acqua è viola e rosa e fa da specchio; la sala è in una luce d’arcobaleno. Hubert fa il giro con una pentola di zuppa di cipolle. Fuori una i piroga avanza, i rematori affondano le pertiche con fatica, la corrente - si intuisce - è forte e contraria, ma lo sciabordio non filtra di tra i vetri.

«Viaggiare sul fiume», scrisse Conrad in Cuore di tenebra, « era come tornare ai primordi del mondo, quando la vegetazione esplodeva sul pianeta e i grandi alberi erano sovrani. Un vuoto corso, un gran silenzio, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, spessa, pesante, torpida. Non c’era gioia nel brillar del sole. I lunghi tratti di via fluviale passavano, solitari, nella tenebrosità delle distanze di fittissima ombra. Su argentei banchi di sabbia ippopotami e alligatori sonnecchiavano al sole gli unì accanto agli altri. Allargandosi le acque fluivano creando gruppi di isolotti alberati, si poteva perdere l’orientamento come se si fosse in un deserto».Hubert, tedesco di Baviera, non conosce Conrad, non l’ha mai letto; in compenso conosce molto bene la spiaggia di Jesolo dove, ogni estate, passa i quaranta giorni di vacanza, che — confida — è l’unica cosa che conta nella sua vita di scapolo cinquantenne.

Eppure il fiume non l’ha deluso quando da Kinshasa, capitale dello Zaire ( che ora si chiama di nuovo Congo) ha dovuto risalirne il corso in motobarca, fin qua, per novecento chilometri, impiegando appena una decina di giorni, come mi dice con una puntina d’orgoglio ricordandomi che Stanley compì lo stesso tratto in quattro settimane.

Hubert, come Stanley, il viaggio l’ha fatto tutto da solo, o meglio era l’unico bianco tra quindici neri. Sulla motobarca aveva caricato la cucina economica, il frigorifero, la piccola turbina, il bulldozer, le accette e l’attrezzatura di falegnameria, le scatole con i viveri, il watercloset, una tenda, e i suoi due cani, pastori tedeschi, perché, mi spiega, qua non c’erano che alberi con i loro rami penduli a specchio del fiume.Non esisteva villaggio, neanche una capanna c’era fino al 1984 quando ci ha messo piede lui, geometra e factotum di una compagnia made in Gerrnany, ma con seguito in ogni continente, specializzata nel disboscamento e nel commercio dei legnami nobili. In stremanti mesi di improbo lavoro Hubert ha abbattutto gli alberi, livellato il terreno, tirato su i prefabbricati e sistemato il watercloset. Soltanto a “base” ultimata sono arrivati gli altri: Roger, belga, Gerard, francese (adesso stanno fumando seduti sul divano), con i caterpillar e gli autocarri, le scavatrici e gli spalaterra, i neri boscaioli e le loro famiglie, insomma tutto l’armamentario per sferrare un decisivo e redditizio attacco alla foresta.

La storia della base di Bolila, una delle tante nella foresta equatoriale zairese, è un capitolo esemplare dei rapporti Occidente-Africa, è una pagina accorata che potrebbe ben figurare nel dossier denuncia dell’ecologo francese René Dumont il quale, per primo, ha parlato di sudamericanizzazione dell’Africa per spiegare come le pressioni distruttive sono in atto a ogni latitudine. Perché siamo venuti a Bolila? Per avere un’idea di quel che succede nel più selvaggio dei giardini del mondo.

La Fao sostiene che undici milioni e mezzo di ettari di foresta tropicale (su un totale di un miliardo e 950 milioni di ettari) vengono spianati ogni anno nel globo. Questo vuoi dire che ogni dodici mesi sparisce una fetta di giungla grande come la Svizzera. Avverte sempre la Fao che le conseguenze negative del colossale saccheggio, non si esauriscono nell’area direttamente interessata, ma hanno conseguenze sull’assetto dei fiumi: l’acqua non trattenuta e filtrata dalle piante scorre sul terreno limandolo, trascinandolo a valle, causando inondazioni di dimensioni bibliche, e lasciando dietro di sé il deserto.

Va anche detto che all’origine della distruzione c’è un infernale intrico di povertà e sfruttamento esterno. Almeno centocinquanta milioni di contadini praticano una agricoltura itinerante, basata sul taglio e sull’incendio della foresta seguiti dall’abbandono del suolo, non più fertile dopo appena due anni. Già questo provoca un quarto dei danni globali. Il vero e micidiale distruttore rimane comunque l’uomo moderno. Il quale con il suo armamentario di seghe a motore, di bulldozer e di erbicidi non segue pratiche razionali e conservative, ma spreca mediamente un terzo del legno ricercato e, per accedere ai pochi alberi di maggior valore, arriva a danneggiare e a degradare fino ai tre quarti del tessuto forestale. Cosicché gli esperti della Fao hanno concluso che le foreste ormai sono erose al ritmo di ventidue ettari al minuto e secondo altri la cifra andrebbe raddoppiata. Comunque sia — è opinione diffusa tra i naturalisti — se la distruzione continuasse in maniera costante e uniforme, in mezzo secolo sarebbero tutte eliminate. La foresta equatoriale della Repubblica democratica del Congo, cento milioni di ettari, trova riscontro, per ampiezza e foltezza, soltanto al di là dell’Atlantico, nella analoga foresta amazzonica. I due terzi, cioè sessanta milioni di ettari, sono già destinati all’esportazione; ciò dovrebbe avvenire nel giro di pochi lustri.

Eppure in questo momento, nel buio percorso da caldi vapori, è difficile rendersi conto di come l’attacco si possa svolgere a ritmi così vertiginosi. E una notte splendida, carica di stelle, di tutte le stelle, anche la Croce del Sud, tanto basse da sembrare luci di case lontane appena un paio di campi più in là; i grilli cantano da matti, insieme alle scimmie. Ma il silenzio è più forte, il silenzio della selva che è là dietro l’acqua, da ogni parte, tremendo infinito inferno verde. Hubert ha sciolto i cani i quali, assicura, sono addestrati ad addentare soltanto i neri qualora si azzardassero a penetrare nel recinto del campo.

Solo ai primi chiarori dell’alba, che qua compaiono assai prima delle sei, riprende la vita con i ritmi propri della civiltà grossolana ed efficientista. Hubert dà i tre colpi di campana, apre i cancelli del recinto, e mentre i neri salgono sui camion e i guidatori scaldano i motori, prepara la colazione. Alle sei e trenta, puntualità di Germania, parto con Roger per il cantiere. La jeep passa per il centro imbancarellato del villaggio dei boscaioli, prosegue per qualche chilometro lungo il fiume, e poi prende uno stradone nella selva, calvo e dritto, lastricato di tronchi di modo che l’acqua possa filtrare e non si formi pantano.

A furia di piccoli sobbalzi, tra nuvole di polvere, si arriva a un largo spiazzo: il cuore del cantiere, già in fermento. Colossali bulldozer afferrano i tronchi e di corsa li accatastano nel deposito accanto allo stradone. Intanto, in bilico su esili armature di legno, i boscaioli a coppie di sei vibrano colpi d’ascia sui tronchi secolari. Più in là altri con le motoseghe tranciano i rami e le radici di quelli abbattuti, che poi i bulldozer porteranno via, ultima fase di una catena di montaggio di terribile efficienza. Il rumore è intenso, il mio accompagnatore deve gridare per spiegarmi che la difficoltà maggiore sta nel pilotare la caduta in modo da non intralciare il programma dei lavori. L’incolumità del personale, qua mi sembra che sia un problema secondario. Così si svolge l’assalto a un giardino prezioso dove prosperano l’albero della gomma, il mogano e il wenga, l’ebano e il cedro rosso.

Ogni albero ha un tronco di una decina di metri di circonferenza e svetta sino a sessanta metri; sotto le sue fronde si apre uno spazio vasto come una cattedrale. Non so spiegare. Provate a immaginarla una mattinata così, in un caldo appiccicoso, nella foresta tropicale, in mezzo a questi uomini organizzati con tecniche moderne: non c’è confronto con i contadini e i cacciatori i quali erano, in passato, i soli abitatori della foresta. Si può stare a guardare e sentirsi lontani, imbarazzati?L’albero viene giù con l’imponenza di un palazzo, trascinandosi nella rovina il frastagliato fogliame, il carico di liane, e l’impatto con la terra è un rumore cupo, attutito dal sottobosco di muschi e di felci le quali crescono all’altezza del petto di un uomo. E un’immagine di grande tristezza: il silenzio degli uccelli, gli automezzi con i motori al minimo, gli uomini con lo sguardo fisso e l’ascia in mano, i giochi di luci e di ombra, i vaghi filamenti di caligine, le macchie di colore: il viticcio azzurro della dicindra che teme i raggi del sole, i fiori rossi dell’onoto, i petali gialli delle orchidee.

Un mondo che muore e non rinasce. Mi viene fatto di ricordare il noto studio del biologo Paul Richards, là dove dice che gli alberi della foresta primaria hanno una durata di vita di centinaia d’anni, mentre quelli della foresta secondaria, la quale dovrebbe sostituire la foresta primaria distrutta, hanno un legno poco compatto, crescono rapidamente e di rado raggiungono i vent’anni, sicché le ferite inferte non saranno più rimarginate. Il professor Richards ipotizza pure una sequenza di trasformazioni progressive che riporti tutto alla situazione originaria, ma avverte, con dichiarato ottimismo, che il tempo trascorso dal disboscamento alla restaurazione della foresta primaria dovrà misurarsi probabilmente in secoli, purché sia indisturbato. Chiedo a Roger quanti alberi abbattono al giorno. «Cinque, sei, dipende», risponde segnando i numeri con le dita delle mani. I guidatori, per aria nelle loro cabine, hanno ridato gas ai motori.

Vincenzo Maddaloni

P.S.

Tra il 1990 e il 2000, l ' Africa tropicale ha perduto oltre 55 milioni di ettari di foresta naturale – con un incremento del 25 per cento del tasso di distruzione rispetto all'epoca del Summit di Rio. I paesi della regione della Foresta Africana dei grandi primati hanno aumentato la loro produzione industriale di legno del 58 per cento dalla metà degli anni '90. Nello stesso periodo non c'è stata alcuna significativa crescita delle aree di foresta destinate alla conservazione. Al contrario,in questo periodo diversi milioni di ettari diforesta incontaminata sono stati ceduti alle compagnie del legno per le operazioni di estrazione industriale di tronchi. In Africa Occidentale e Centrale grandi parti delle residue aree di foresta tropicale originaria sono minacciate dal taglio illegale di alberi, la più grave minaccia alla loro sopravvivenza. Le foreste millenarie di Africa Occidentale, Nigeria, Ghana e Costa d'Avorio sono state quasi interamente distrutte. Fino a poco fa la Liberia era l'unico paese della regione le cui foreste rimanevano intatte. Ma dalla fine della guerra nel 1997, compagnie del legno europee hanno cominciato a distruggere anche queste foreste con operazioni di vasta scala.

La maggioranza delle operazioni di taglio industriale in Africa Centrale sono condotte con metodi efficientissimi. Operano un taglio selettivo diretto ad alcuni specifici alberi: Moabi, Afrormosia, Bubinga, Ayous e Wengé vengono ricercati ed eliminati con tanta intensità, da correre il rischio di estinzione. Inoltre la Banca Mondiale sostiene in Congo l'espansione dell'industria estrattiva – tra cui quella del legno- come motore dello sviluppo, rischiando così di compromettere il futuro del paese. E del clima globale. Infatti,il cambiamento climatico causato dal rilascio in atmosfera di gas serra rappresenta oggi la più grande minaccia planetaria.

Le emissioni causate dalla distruzione delle foreste tropicali rappresentano oltre il 25 per cento delle emissioni in atmosfera di CO2 causate dall'uomo. Le previsioni sull'espansione dell'industria del legno nel Congo lasciano intendere che questo paese rilascerà oltre 34,4 miliardi di tonnellate di CO2, una quantità equivalente a quella rilasciata dalla Gran Bretagna negli ultimi sessant’anni.


Nonostante dall'ottobre del 2003 i governi africani e la comunità internazionale si siano impegnati a lavorare insieme per affrontare il problema del disboscamento, in gran parte illegale, del Bacino del Congo, non si sono registrati miglioramenti. I sette Paesi dell'area producono ogni anno 13 milioni di metri cubi di legname, 870mila metri cubi di truciolato, segatura e legno per costruzioni e 71 milioni di combustibile ligneo.

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