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Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno Yeti agli antipodi

di Francesco Lamendola - 02/07/2007

 

 

 

 

 

 

Francesco Lamendola

 

 

Il grande pubblico occidentale è relativamente informato circa l'enigma antropologico posto dallo Yeti, molto impropriamente noto come «l'abominevole uomo delle nevi», in quanto è stato segnalato, sin dalla fine dell'Ottocento (ma gli indigeni lo conoscono da sempre) alle alte quote della regione posta a cavallo fra Nepal e Tibet - in realtà, se esiste, deve certamente vivere al di sotto del limite  delle nevi perenni, se no  altro perché, diversamente, non troverebbe il cibo con cui sostentarsi.

Qualcuno è anche informato circa l'esistenza di un «cugino» americano dello Yeti, noto fra gli Indiani della fascia costiera tra la California settentrionale e la Columbia Britannica meridionale (passando per gi Stati di Oregon e Washington, localmente noto come «Sasquatich» e della cui esistenza esistono non solo testimonianze verbali, ma anche una ripresa cinematografica - peraltro controversa - che lo riprende piuttosto da vicino.

Quasi nessun, però, a quanto ci risulta - almeno in Italia - è a conoscenza del fatto che un altro «parente» di questa strana famiglia di ominidi o di gigantopitechi vivrebbe, o quantomeno avrebbe vissuto, in una remota e selvaggia regione dell'Isola del Sud, in Nuova Zelanda. Terra già nota per altri misteri mai del tutto svelati, come la scomparsa improvvisa della «Tribù Perduta» dei Maori (della quale ci siamo già occupati in un altro articolo), la riscoperta di un curioso uccello creduto ormai estinto -il takahe - e, forse, per la sopravvivenza di qualche esemplare minore del Moa (Dinornis maximus), il gigantesco struzzo che poteva raggiungere l'altezza di tre metri e mezzo e che un tempo popolava tutto l'arcipelago neozelandese.

Si tratterebbe del Maeroero, una sorta di «uomo selvaggio» che, per i Maori della regione dei Catlins, era molto più di una semplice leggenda, per quanto inquietante…

 

 

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Anche «l'uomo della strada» più distratto e meno informato sa che, da ormai più di un secolo, corrono voci abbastanza insistenti intorno alla presenza di uno strano essere alle pendici della grande catena himalaiana, in parte scimmiesco e in pare umano, cui è stato affibbiato il nome assai poco lusinghiero di «abominevole uomo delle nevi», ma che è conosciuto dalle popolazioni locali semplicemente come lo Yeti. Si tratterebbe di una grande creatura umanoide dal corpo estremamente villoso, alto almeno due metri e dotato di una forza straordinaria, tanto da poter uccidere uno yak con le mani nude, per poi cibarsi delle sue carni crude. Numerosi nepalesi avrebbero fatto l'incontro con lo Yeti, specialmente pastori e contadini dei villaggi più alti e isolati: incontro non sempre pacifico, specialmente per quel che riguarda le greggi di yak, capre e altri animali domestici, mai comunque mortale per gli esseri umani, dai quali la misteriosa creatira preferirebbe tenersi il più possibile lontana. (1)

Allo stesso modo, una parte almeno del pubblico occidentale sa, più o meno, che nella zona costiera del Nord America centro-settentrionale, fra la California settentrionale, l'Oregon, lo Stato di Washington e la parte meridionale della Columbia Britannica, in Canada, da tempo si parla di un essere che corrisponde in qualche modo alla descrizione dello Yeti, ma che è localmente noto col nome indigeno di Sasquatch. Si tratta di un vocabolo degli Indiani Tlingit che vivono fra la catena Costiera e le rive dell'Oceano Pacifico; la parola inglese corrispondente è, semplicemente, bigfoot, che potremmo tradurre come «piedone», in quanto la creatura è nota soprattutto per le gigantesche impronte lasciate sul terreno al suo passaggio. Di esso è stata ripresa anche una sequenza cinematografica di alcuni metri di pellicola, che mostra una specie di enorme scimmia antropomorfa, muoventesi su due zampe in stazione eretta, correre veloce attraverso la boscaglia mentre guarda con aria sospettosa in direzione del teleobiettivo. Il filmato è assai controverso: filmato da un certo Roger Pattersoin il 20 ottobre 1967, in località Bluff Creek, verso le ore 13 (e quindi in ottime condizioni di luminosità), per alcuni non è che un falso clamoroso, mentre per altri potrebbe testimoniare una delle più grandi scoperte antropologiche del XX secolo. Sia come sia, il Sasquatch è ormai entrato nell'immaginario collettivo americano (e, in minor misura, europeo), anche per merito di film, serie televisive a puntate e perfino giornalini a fumetti, mentre esiste una sparuta ma combattiva minoranza di scienziati  disposti a scommettere sulla sua reale esistenza. (2)

Infine c'è una parte del pubblico occidentale, in genere di estrazione più colta, che è al corrente della secolare tradizione europea secondo la quale la regione alpina sarebbe la dimora di un «uomo selvatico» di cui si parla già in certi testi della letteratura medioevale:ad esempio, nel romanzo di Chrétien de Troyes, Ivano o il cavaliere del leone, dove, nella misteriosa e incantata foresta di Brocelandia, "in soccorso di Ivano, interviene un vero abitante di questo mondo selvaggio, una creatura al limite dell'umano, nera, deforme e gigantesca quanto il cavaliere è bello, chiaro e ben conformato". (3) Ne esistono anche pitture ed affreschi, sparsi in vari luoghi d'Europa, tra i quali Castel Rodengo (XIII secolo) e Sacco in Valgerola (1464),  Una sintesi efficace dell'intera questione dell'uomo selvatico, dalla 'creatura silvestre' dei miti alpini fino allo Yeti himalaiano, è contenuta in un libro di Massimo Centini, apparso una quindicina d'anni fa, e arricchito da una significativa bibliografia. (4)

Quello che pochissimi o forse quasi nessuno sa, nel pur informatissimo pubblico occidentale, è che all'estremità meridionale della Nuova Zelanda - come dire, agli estremi confini di una terra di confine - vivrebbe, o forse è vissuto fino a tempi assai recenti, un altro parente di quella stessa stranissima famiglia di ominidi o di gigantopitechi cui apparterebbero tanto lo Yeti quanto il Sasquatch. Si tratterebbe  di una creatura umanoide e selvaggia localmente nota con il nome di Maeroero, che i Maori conoscono - o meglio conoscevano molto bene, e verso la quale nutrivano un grande timore. La presenza di questa tradizione agli antipodi del mondo euro-asiatico, addirittura nell'estrema zona meridionale di diffusione della cultura polinesiana, starebbe a dimostrare che quella nell'«uomo selvaggio» è una credenza a diffusione praticamente mondiale, dalle Alpi all'Himalaya, dal Nord America all'Oceania. Non un fatto locale, dunque, confinato a qualche regione particolarmente 'arretrata' (secondo la mentalità occidentale) o a qualche aspetto marginale di antiche culture religiose (la credenza nello Yeti diffusa nei monasteri buddhisti nella vasta regione compresa fra Nepal e Mongolia), bensì una realtà diffusa in ogni angolo della Terra, attraverso popolazioni, culture e religioni diversissime le une dalle altre: qualche cosa, dunque. che dovrebbe farci doppiamente riflettere e abbandonare quell'ironico sorrisetto di superiorità con cui, di solito, ci accostiamo alle realtà diverse dalla nostra.

 

Del Maeroero si parlava molto, fra i Maori dell'Isola del Sud, nel corso del secolo XIX. Era stato visto nell'estrema regione costiera sud-orientale, nell'arco compreso tra le cittadine, fondate più tardi dai bianchi, di Invercargill e Dunedin; una regione collinosa nota col nome di Catlins. La vetta più elevata, il Monte Pye, non raggiunge che i 720 metri, ma tutte le colline sono ammantate da una densa foresta ove non predomina il faggio antartico (Notofagus), come sulla opposta costa sud-occidentale, bensì il podocarpo, con un ricco sottobosco di felci, e che è popolata da un numero immenso di uccelli e parrocchetti ( i pappagalli più australi del mondo). Se la foresta è ancora in gran parte intatta (anche per merito dell'istituzione di un vasto Parco nazionale), prima dell'arrivo dei coloni di origine europea essa doveva essere veramente grandiosa, per quanto già qua e là intaccata dai disboscamenti irrazionali attuati dagli indigeni per mezzo di incendi, sia a scopo di caccia (al Moa, per esempio, fino alla sua totale estinzione), sia per tentare la coltura ella patata dolce, che, però, a queste latitudini meridionali difficilmente attecchiva. Queste antiche e buie foreste, dove a stento penetrava la luce del sole, poste ai piedi del grande sistema orografico delle Alpi Neozelandesi, pare siano state la dimora e il rifugio di una creatura spaventevole e semi-umana, chiamata dagli indigeni col nome di Maeroero, la cui sola pronunzia era sinonimo di sbigottimento se non di autentico terrore.

Noi sappiamo che, fra XVII e XIX secolo, la regione dei Catlins, come del resto quasi tutta l'Isola del Sud della Nuova Zelanda, fu teatro di una progressiva ritirata degli insediamenti umani, provocata da un esaurimento delle risorse e, ancor più, da una grave alterazione dell'equilibrio ecologico operata dagli indigeni (dai cosiddetti "cacciatori di moa" dapprima, indi dai sopraggiunti Maori, la cui prima tappa d'insediamento era stata la più favorevole Isola del Nord). Scrivono D. Lewis e W. Forman:

 

"I moa subirono una decimazione e verso il XVII secolo erano estinti; parallelamente, anche la popolazione di cacciatori declinò. Privati della principale risorsa di cibo, i Maori evacuarono le aree interne dell'isola del Sud e si riportarono  le coste. La mano dell'uomo., infine, che aveva alterato il fragile equilibrio ecologico della foresta tropicale e dei suoi abitanti incapaci di volare, gradualmente esaurì le risorse del mare e della costa. La popolazione dell'isola del Sud declinò." All'inizio del XIX secolo, secondo i due studiosi, "sebbene (…) i Maori meridionali coltivassero la patata europea, che [a differenza della patata dolce polinesiana, nota nostra] resisteva al gelo, non avevano per nulla abbandonato le loro risorse tradizionali di cibo e le loro abitudini alle migrazioni stagionali. Gli uccelli della boscaglia, le anguille, i molluschi, gli uccelli di mare e le foche, a portata di mano lungo le coste o nelle zone interne in determinati periodi dell'anno, erano ancora molto importanti nell'alimentazione di questo popolo.

"Questo che segue, ad esempio, era il ciclo stagionale degli abitanti dell'isola di Ruapuke che giace nell'inospitale Stretto di Foveaux, tra l'isola Stewart e l'Isola del Sud [e, dunque, vicinissima alla regione dei Catlins]. Gennaio e febbraio (l'estate del sud) venivano trascorsi a casa, raccogliendo patate e facendo sacche ove porre le berte conservate (titi); in inglese, tali uccelli sono detti muttonbird. In marzo salpavano per le isole Muttonbird, al largo dell'Isola Stewart, e vi rimanevano fino a maggio, epoca in cui ritornavano a Ruapuke con un buon bottino. In giugno percorrevano l'Isola del Sud a caccia di volatili di bosco (weka). In agosto si spostavano verso le foreste alla ricerca di uccelli. In settembre risalivano il fiume Mataura fino a Tuturau per raccogliere lamprede. Novembre  li vedeva lungo le coste impegnati con le anguille. In dicembre, infine, riattraversavano lo Stretto di Foveaux e ritornavano a Ruapuke.

"Questa parte meridionale della Nuova Zelanda e le isole Chatham, che mantennero caratteri arcaici, possono fornire ulteriori indicazioni relative alla vita in ambiente tropicale degli abitanti della Polinesia orientale, i quali mostrarono la propria tempra di fronte alla neve e alle tempeste [le nevicate sono abbondanti, nella stagione invernale dalla fine di marzo alla fine di settembre, sulle montagne dell'isola del Sud, ma non è infrequente nemmeno sulla costa, almeno nella sezione più meridionale posta tra la Fiordland, l'Isola Stewart ed i Cartlins].All'inizio del XIX secolo lungo quelle coste inospitali  venivano ancora costruiti e impiegati modelli d'imbarcazioni polinesiane. Vi erano semplici canoe ricavate da tronchi,  canoe a cinque parti, piroghe a due bilancieri, canoe doppie raupo e zattere di tronchi legati con giunchi, dette mokihi. Ogni tipo d'imbarcazione aveva un proprio impiego specifico, in un luogo determinato: le zattere, ad esempio, venivano costruite e usate lungo i fiumi e i laghi interni." (5)

 

Si trattava, evidentemente, di un sistema di vita abbastanza complesso e delicato, basato su continui spostamenti alla ricerca di cibo da parte di un popolo cacciatore e raccoglitore. Solo dopo l'introduzione della patata europea, capace di resistere al freddo degli inverni australi, la situazione era destinata a divenire un po' meno precaria; ma poco dopo giunsero i bianchi con i loro allevamenti di pecore, che sulle pianure ricche e piovose dell'Isola del Sud trovavano il terreno da pascolo ideale, ed ebbe inizio l'epoca dello scontro con i nuovi invasori.

Fu in questo contesto di precarietà che i Maori stanziati dei Catlins ebbero a che fare, nei due secoli e mezzo che vanno dalla fine del 1600 (data presumibile della estinzione dei Moa giganti) alla metà del 1800 (arrivo in forze dell'uomo bianco e perdita delle terre; l'Isola Stewart o Rakiura, ad es., fu venduta nel 1864 al Governo britannico per 6.000 lire sterline), con il terrore suscitato dalla presenza del mostruoso Maeroero. Ecco in quali termini ne parlano i quattro autori del libro Nuova Zelanda, edizione in lingua italiana delle Guide Lonely Planet di Victoria, Australia, che è, probabilmente, il più completo e informato esistente oggi in Italia su quel paese:

 

"La regione [dei Catlins] era un tempo abitata dai cacciatori di moa, e tracce dei loro accampamenti sono state rinvenute nei pressi di Papatowai. Tra il 1600 e il 1800, la popolazione maori si assottigliò a causa della progressiva estinzione dei moa, della mancanza di coltivazioni di kumara (patata dolce) e del timore suscitato dal Maeroero, la creatura selvaggia simile allo yeti che viveva nel bush [foresta fitta, selva] di Tautuku e si credeva rapisse i bambini e le giovani donne." (6)

 

In realtà, storie analoghe erano raccontate dai Maori anche di altre zone, ma sempre nell'Isola del Sud. Per essere precisi, la creatura selvaggia veniva chiamata con tre nomi differenti: Moehau; Maerorero (nelle zone collinose e montuose); Maero (nelle regioni più interne). La credenza era così viva e reale che , nelle storie orali tramandate dagli anziani, si parlava di tre grandi piroghe che avrebbero popolato la Nuova Zelanda, al tempo della grande migrazione dalla Polinesia: Waka-Orurea, Waka-Atua e Waka Huruhuru-Man; quest'ultima avrebbe trasportato sulle isole, appunto, il Maeroero.

I racconti dei Maori che lo avevano visto parlavano di un «uomo dei boschi» estremamente peloso, d'indole solitaria, con delle lunghe dita ossute simili ad artigli che erano in grado di pugnalare la preda come dei coltelli. Allorché se ne presentava l'occasione, egli non esitava a rapire le persone, in genere donne e bambini; e tanta era la paura diffusa da tale credenza, da spingere gli indigeni ad abbandonare tutta una serie di villaggi ed insediamenti, specialmente - come si è visto - nelle colline boscose dei Catlins.

Gli scettici potrebbero pensare a delle storie puramente leggendarie, tanto più, per i Maori, il confine tra storia e mito è estremamente labile o, per dir meglio, non possiedono le categorie occidentali basate su una netta separazione tra verità scientifica e verità simbolica. I Maori, infatti, mescolano naturalismo e simbolismo all'interno dei loro racconti, che si fa fatica a definire "storici" nel senso che diamo noi a questo termine, figli della tradizione di Erodoto, Tucidide, Senofonte, Tito Livio e Tacito.

 Senonché, le cose si complicano alquanto per il fatto che anche degli uomini bianchi, e a più riprese, hanno visto o hanno riferito di aver visto l'«uomo selvaggio» nei boschi misteriosi dell'isola del Sud e, molto più raramente, anche in quella del Nord. Un ulteriore problema è dato poi dal fatto che i racconti dei testimoni europei non collimano con quanto riferito dalle antiche (ma neanche tanto) storie dei Maori. Per esempio, secondo questi ultimi il Maeroero è aggressivo e minaccioso e non esita a rapire degli esseri umani; per i bianchi, si tratta di una creatura che si tiene a debita distanza dall'uomo, facendosi vedere il meno possibile. Si ha notizia di un solo caso di incontro violento con il Maeroero ed esso risalirebbe agli anni intorno al 1850; ebbe luogo nella regione sud-occidentale della Fiordland, che i Maori (forse a causa delle alte montagne e delle fittissime foreste) chiamano Terra dell'Ombra. (7) In quel caso, un uomo bianco sarebbe stato attaccato da una delle misteriose creature; ma questa è un po' l'eccezione che conferma la regola. Inoltre circolavano racconti circa una creatura "dai capelli rossi" che viveva in una caverna del Monte Moehau, che venne chiamata l'uomo di Coromandel.

Si sono avanzate molte spiegazioni per tentar di chiarire il fenomeno. Ad esempio, si è parlato di un gorilla che sarebbe fuggito da una nave e che si sarebbe internato nei boschi presso la costa di Wai Aro, intorno al 1920. Certo, la cosa è possibile; ma potrebbe spiegare solo una piccola parte degli avvistamenti e in una zona abbastanza ristretta; mentre, come si è visto, essi provengono un po' da tutta l'Isola del Sud e, qualche volta, anche da quella del Nord. Inoltre, lo ripetiamo, le descrizioni dei testimoni di origine europea non collimano con quelle tramandate dai Maori; e, se possiamo ammettere che i primi siano stati influenzati dal folklore dei secondi, questi ultimi da chi avrebbero sentito parlare del Maeroero, se non da uomini della loro stessa razza che, in un modo o nell'altro, lo avrebbero incontrato o almeno avrebbero creduto di vederlo?

Una cosa è certa: l'estremità meridionale della Nuova Zelanda, con le sue foreste impenetrabili e le sue montagne dirupate, donde precipitano alcune delle cascate più alte del mondo (come le Sutherland Falls) è uno dei pochi luoghi al mondo che potrebbero celare un animale, anche di grandi dimensioni, ancora del tutto sconosciuti alla scienza. Non per nulla proprio qui, nel 1948, è stato ritrovato il grosso e meraviglioso uccello chiamato takahe (nome scientifico: Notornis mantelli), che si credeva estinto da tempo; e non per nulla proprio qui, fra il 1780 e il 1840, si è consumato il mistero della «Tribù Perduta» dei Ngatimamoa, che l'inospitale Fiordland sembra avere inghiottito senza lasciarne alcuna traccia. (10)

Misteri, ancora misteri. Li abbiamo lasciati alle pendici dell'Himalaya, li ritroviamo a ovest delle Montagne Rocciose e nell'estremità più australe della Nuova Zelanda, là dove non è impossibile vedere il fenomeno delle aurore polari antartiche.(8) Parafrasando una celebre affermazione dello scrittore francese René Théveénin, potremmo dire che essi vivranno tanto quanto l'uomo, poiché è nel cuore umano che vivono. (9) Oppure potremmo dire che essi vivono nella memoria storica e che ancora l'uomo li incontra sul proprio cammino per il semplice fatto che essi non sono una realtà simbolica, ma concreta. Sia pure con diverse sfumature, sono questi i due atteggiamenti fondamentali che possiamo avere di fronte al mistero, un po' come di fronte al mito: quello idealista, platonico, secondo il quale il mistero ci rimanda a una realtà di ordine superiore tutt'altro che immaginaria, anzi al vero fondamento della realtà basata sul "senso comune"; e quello materialista, evemerista (da Evemero, l'erudito greco che affermò essere gli dei frutto della rielaborazione leggendaria delle gesta dei grandi uomini del passato), per la quale il mistero non è che volo dell'umana fantasia.

A ciascuno prendere la sua decisione, fare una scelta.

 

 

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NOTE

 

 

1)         L'esposizione più completa, in lingua italiana, della «questione» relativa allo Yeti è l'ornai classico libro di Carlo Graffigna Yeti, un mito intramontabile, Torino, Centro Documentazione Alpina, 1999. In lingua inglese la bibliografia è assai vasta, citiamo fra tutti TAYLOR-IDE, Daniel, Sulle orme dello Yeti, Casale Monferrato, Piemme, 2000.

2)         Il testo-base per approfondire l'enigma dell'uomo-scimmia nordamericano è CANTAGALLI, Renzo, Sasquatch, enigma antropologico, Milano, Sugarco, 1975. Si veda anche l'ottimo libro, di carattere generale, di BARLOY, Jean-Jacques, Roma, Lucarini Editore, 1987, che dedica un capitolo anche allo studio del Sasquatch.

3)         AGRATI, Gabriella-MAGINI, Maria Letizia, Introduzione a CHRÉTIEN DE TROYES, Ivano, Milano, Mondadori,  1988, p. XI.

4)         CENTINI, Massimo, L'uomo selvatico, Milano, Mondadori, 1992.

5)         LEWIS, David- FORMAN, Werner, I Maori, un popolo di guerrieri, Novara, istituto Geografico De Agostini,  1983, pp.26-28.

6)         TURNER, Peter-WILLIAMS, Jeff- KELLER, Nancy- WHEELER, Tony, Nuova Zelanda, Torino, E. D. T., 1999, pp. 730-731.

7)         TRIFONI, Jasmina, La Terra dell'Ombra, in Meridiani: Nuova Zelanda, n. 153, nov. 2006, pp. 108-119.

8)         Infatti il nome maori dell'isola Stewart, Rakiura, significa letteralmente: «la terra dai cieli ardenti».

9)         Cfr. THÉVÉNIN, René, I paesi leggendari, Milano, Grazanti, 1950, p. 111.

10)     FORBIS, John, La terra che resiste alla sfida dell'uomo, in Selezione dal Reader's Digest, sett. 1972, pp. 147-152; STINGL, Miloslav, L'ultimo paradiso. Misteri e incanti della Polinesia,          Milano, Mursia, 1986, pp. 225-228.