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La partenza di Blair: un’operazione di marketing (Berlusconi, Sarkozy, domani Veltroni)

di Sergio Romano - 02/07/2007



Gordon Brown si è insediato
finalmente sulla poltrona di Tony Blair come nuovo primo ministro inglese.
Finalmente, da una parte, perché Tony Blair aveva annunciato da un anno il suo ritiro, e il Labour party aveva nominato ufficialmente da 40 giorni Gordon Brown come suo successore. Quello che mi ha fatto sorridere, invece, è che sul sito in cui ho letto la notizia era riportato minuto per minuto quello che era successo nella giornata; fatto sta che, cronometrando la crisi, a partire dalla salita di Blair a Buckingham palace fino all'ingresso di Brown al 10 di Downing street, sono passati all'incirca 55 minuti...
Si potrebbe dire che tutto era già predisposto. Ma mi permetto di fare ricorso alla storia rammentando che quando Tony Blair vinse le elezioni nel 1997, a mezzogiorno del giorno successivo era già seduto e in carica a Downing Street.
Non si dice di arrivare a questi record, ma, nella marcia verso l'Europa non sarebbe il caso di accettare finalmente anche questo genere di lezioni?

Alessandro Franceschini, alessandro.franceschini@inwind.it

Caro Franceschini,
lei osserva che il cambiamento del premier è durato 55 minuti e che l’Italia dovrebbe, per quanto possibile, imitare questa lezione. È giusto. Ma io preferisco ricordare soprattutto che il passaggio dei poteri è durato più di un anno e che è stato gestito da Blair con una minuziosa regia.
Credo che il premier, all’inizio, non avesse alcuna intenzione di passare la guida del governo al suo vecchio amico e rivale Gordon Brown. Dovette adattarsi a questa prospettiva, probabilmente, quando i maggiori esponenti laburisti gli dissero che la guerra irachena e il suo rapporto con Bush avrebbero pregiudicato l’esito delle prossime elezioni politiche e condannato il partito laburista alla sconfitta. È vero che anche i conservatori erano stati favorevoli al conflitto, ma Blair, per una parte considerevole dell’opinione pubblica britannica, era diventato il «barboncino» del presidente americano, l’uomo che si era troppo frequentemente piegato alla volontà di Washington.
Costretto ad accettare la volontà del partito, Blair ha trasformato la partenza in un lungo spettacolo. Ha fissato genericamente l’epoca, ma non la data, e ha tenuto la platea in sospeso con una serie di annunci, sapientemente centellinati nel tempo. Grazie a questa tecnica la sua uscita dal n. 10 di Downing street è diventata l’evento dell’anno, qualcosa di simile al lancio di un nuovo prodotto.
Poi, quando la data della partenza è stata finalmente annunciata, l’epilogo della sua carriera di premier è diventato un grande conto alla rovescia, costellato da un crescendo di impegni solenni (la visita a Washington, gli incontri con i maggiori leader europei, il vertice dell’Ue a Heiligendamm e, finalmente, l’udienza graziosamente concessa al governatore della California) che dovevano apparire come altrettanti omaggi del mondo al leader uscente.
Questa non è politica, caro Franceschini. È marketing.
Tony Blair appartiene a una categoria di leader (Berlusconi, Sarkozy, domani Veltroni) per i quali il cittadino elettore è anzitutto un consumatore.
Bisogna suscitare la sua curiosità, aguzzare il suo appetito, creare attese e dargli la sensazione di essere la sola persona in grado di soddisfarle. Quando tutto questo viene fatto per conquistare il potere, posso accettarlo come una delle inevitabili caratteristiche del mondo totalmente mediatico in cui ormai viviamo. Quando viene fatto per costruire un monumento a se stesso mi sembra occupazione privata di spazio pubblico.