Il suicidio dell'Europa. Dalla coscienza infelice all'edonismo cognitivo
di Pietro Barcellona* - 02/07/2007
Fonte: i-lex.it
i-lex Scienze Giuridiche, Scienze Cognitive e Intelligenza Artificiale
Rivista quadrimestrale on-line: www.i-lex.it
Gennaio 2005, numero 2
La tecnicizzazione dell’anima: post-umanesimo e alienazione
1. La percezione del tempo e la forma della comunicazione
Ogni epoca ha una diversa percezione del tempo e ad ogni percezione
del tempo corrisponde una diversa percezione dell'identità. Ciò significa
“entrare” in una dimensione riflessiva, perché solo in una tale
dimensione la suddetta domanda si può porre. Ma appena essa si pone,
si ha la consapevolezza che la percezione iscritta nella trama del tempo
subisce le variazioni della percezione sociale del tempo.
Ciò inaugura il rapporto tra la coscienza e la percezione.
La percezione, contrariamente a quello che si pensa, non istituisce un
rapporto immediato e istintivo con ciò che sta di fronte, ma un
addensarsi di esperienze già strutturate secondo un senso. La
percezione è qualcosa che va ben al di là della sensazione (il caldo o il
freddo, il piacere o il dolore); la percezione è un'istituzione sociale.
In realtà, la percezione, per il suo carattere relazionale, è presente in
tutta la storia della socializzazione, cioè entro l’ambito umano nel quale
si sta ponendo la domanda “chi sono io”?
La percezione, pur appartenendo a due dimensioni, il tempo e lo
spazio, è soprattutto percezione della temporalità.
La percezione della temporalità, ossia il rapporto tra la domanda “chi
sono io?” e il mondo che mi sta di fronte, è ciò che chiamiamo
vissuto.L’insieme delle sensazioni percepite, elaborate e strutturate, possiede
dunque una trama temporale. La domanda “chi sono io?” devo poterla
declinare non soltanto nel momento in cui la sto formulando, ma quando
torno stasera a casa o domani mattina nel momento in cui mi sveglio. Il
rapporto tra la trama temporale e la domanda “chi sono io?” è intriso di
una questione identitaria decisiva. L'identità è legata alla percezione
temporale, alla continuità del soggetto interrogante. Per esempio: non
posso dire “sono Pietro Barcellona” e quindi declinare in un'identità la
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Istituto di Filosofia del Diritto, Università di Catania, Italia.Il suicidio dell’Europa
i-lex, 220 Settembre 2005, numero 2
mia esistenza, se non colgo una continuità delle mie percezioni, cioè se
in qualche modo non le raccolgo in un'unità.
Il libro di Merlini è interamente dedicato al tema del mutamento
epocale nella percezione del tempo. In passato, la percezione del tempo
era la storia. La storia era la dimensione nella quale, come ha
sottolineato Merlini, gli uomini e le donne europee hanno “abitato”; noi
siamo collocati all’interno della tradizione culturale dell'Ottocento e del
Novecento, basato sull’immagine degli uomini che abitano la storia,
giacchè la storia rappresenta il contenitore del rapporto tra
l'immediatezza finita (il fatto di essere contingenti e mortali) e la
proiezione del tempo verso una meta: la salvezza, la rivoluzione o il
cambiamento. Ogni idea di proiezione nel futuro ha avuto la possibilità
di essere progettata dagli attori sociali e individuali perché è stata
contenuta nella storia. In altre parole, la storia è stata la direzione di
marcia dentro la quale i nostri cammini hanno acquisito un senso.
Oggi, però, come sostiene Merlini, si ha l’impressione che la storia sia
finita, non nel senso “volgare” di Fukuyama, ma perché nessuno oggi
può seriamente sostenere che in ogni accadere quotidiano siano inscritti
un orientamento e una meta, come accadeva nel caso della rivoluzione
comunista, del ritorno del Messia o della salvezza umana. Oggi, infatti,
risulta difficile sostenere che la storia abbia un senso.
Non abitiamo più la storia ma il mercato. Abitare il mercato vuol dire
abitare un tipo di comunicazione diverso dalla comunicazione storica
legata al
continuum delle esperienze e del racconto. Oggi domina iltempo dell'istante, una sorta di presente puntiforme rappresentato da
un succedersi di frammenti senza alcuna connessione. Questa, ad
esempio, è l'immagine di Internet: un luogo privo di un centro e di una
periferia, privo di un inizio e di una fine, somigliante, da questo punto di
vista, a una totalità i cui punti sono sempre tutti equidistanti. Il tempo
puntiforme, da noi percepito attraverso l’uso del cellulare, è il tempo
della comunicazione permanete e ci dà la sensazione di essere sempre
in connessione. Abbiamo tutti l'angoscia di non riuscire a parlare con un
Altro quando “non c’è campo”. L’esser-fuori dalla connessione equivale
ad uscire dal mondo. Ad esempio, nel campo del lavoro non essere
continuamente reperibili significa non essere disponibili al lavoro.
L’illusione di essere sempre in connessione in realtà interrompe la
comunicazione e l’ascolto, la connessione in rete in realtà disconnette la
comunicazione e tutto ciò che l’ha tradizionalmente caratterizzata. La
dimensione diacronica viene distrutta, si perdono le coordinate spaziotemporali,
con conseguenze anche sull’autodistanziamento che è alla
base del rafforzamento dell’io. Io mi rafforzo se continuamente mi
autodistanzio, un Io che si risolve nella presentificazione è destinato
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soltanto alla performance: o riesce a dare il massimo possibile
nell’istante della sua presenza o non è. L’Io in connessione è in
apparenza più libero e dilatato, mentre in realtà risulta più debole e più
esposto. Per lui la presenza diventa una performance e perde le
caratteristiche della durata.
Lo spazio della rete, che integra la nostra esistenza nel mondo,
rischia in tal modo di diventare l’unico spazio possibile della nostra
esistenza nel mondo. Un’enfatizzazione narrativa del mondo virtuale
come nuova dimensione della liberazione è una mistificazione. La
connessione, d’altra parte, è una continua sconnessione: chiamiamo,
interrompiamo e riprendiamo. Esistono diversi punti di comunicazione:
internet, cellulare, telefono fisso. Abbiamo, persino fisicamente, l'idea
della frantumazione della comunicazione, nonostante avvertiamo
un'istanza di connessione. Essere connessi per essere frantumati. In
questa dimensione, la percezione del tempo, e quindi, del presente, per
esempio dal punto di vista dei vissuti, comporta il venir meno delle
biografie e il dominio dei
curricula.La biografia è il racconto della propria esperienza istituita a partire da
una identità; il
curriculum, invece, è un insieme di funzioni e ruoli,connessi o sconnessi secondo logiche che non hanno alcun rapporto con
i vissuti.
La trama delle relazioni si è completamente modificata e le stesse
coppie oppositive, che attengono alla comunicazione tradizionale,
vengono modificate. L'immagine del mondo viene, in un certo senso,
ridotta a una continua accelerazione del presente che si ripete, si
reitera, si ripropone senza
continuum, ma producendo ininterrottamenteuna sorta di volatilità. Il tempo sembra volatilizzarsi e ciò comporta la
distruzione delle relazioni costruite sulla base della temporalità e della
durata.
Nella riflessione di Papi, per l’appunto, il mutamento della percezione
del tempo produce mutamenti nel modo in cui vengono declinati
l'identità e l'Io rispetto agli altri. Al riguardo, Papi ricorre a tre esempi: il
modo di percezione della famiglia, della scuola e del lavoro. Mettiamo da
parte il discorso sulla famiglia, che è divenuto alquanto complesso con
l’incremento esponenziale di famiglie plurigenitoriali, pluriparentali, di
fronte alle quali risulta difficile costruire un'analisi simile a quella
freudiana, basata sul complesso di Edipo. Pensiamo ai processi di
apprendimento nella scuola, ridotti per lo più a processi di
apprendimento dell'inglese e dell'uso del computer; oppure alle infinite
tipologie di lavoro. Ciò non vuol dire soltanto la fine della forma della
fabbrica o del fordismo, ma la fine dell'idea stessa di lavoro. La
prestazione istantanea, la continua necessità della
performance, èIl suicidio dell’Europa
i-lex, 222 Settembre 2005, numero 2
l’esatto contrario del lavoro tradizionale, dove si realizzava e si
proiettava l'esistenza dell'Io.
2. Comunicazione e informazione: la connessione informatica
La domanda che si pone, strettamente collegata a queste
considerazioni, è la seguente: chi siamo noi nell’epoca della
comunicazione discontinua? Ma il fatto stesso del domandare implica un
ulteriore domanda: “da dove parli?”
Per rispondere a tale domanda riporto una passaggio del libro di
Merlini:
“Se è vero che essere in una pratica del mondo, potremmo dire in
una sua abitudine, significa dare al mondo la direzione che quella
determinata pratica seleziona come legittima, ragionevole e persuasiva,
è anche vero che una selezione non è mai estranea ai racconti, ai
discorsi, alle qualità degli attori sociali, in riferimento ai quali si
producono porzioni di mondo.”
Le pratiche rappresentano l'insieme delle azioni, dei comportamenti
quotidiani, mai riducibili a pura fatticità, ma sempre densi di
significazione. La pratica da cui parliamo noi è l'esperienza di questa
nuova forma di comunicazione. Parliamo da questo luogo, parliamo
dall'esperienza, riuscita o non riuscita, di questa forma di
comunicazione. In questa pratica sperimentiamo che le selezioni di
senso con cui abbiamo orientato la nostra esistenza, per esempio
l'appartenenza ad un partito politico, ad un’organizzazione religiosa,
hanno perso di significato, perché la pratica della comunicazione, così
come viene strutturata oggi, determina una rottura continua dei
segmenti e quindi ci costringe ad un'unica esperienza, quella della
discontinuità, o meglio di una continuità puntiforme e priva di direzione.
Allora la domanda successiva, relativa al luogo in cui è possibile fare
una riflessione sulle pratiche connesse alla società della comunicazione,
concerne lo spazio in cui avviene questa comunicazione: lo spazio
virtuale. Esso si differenzia dallo spazio mentale, che si istituisce non
appena si formula la domanda iniziale “chi sono io?”, e che – come
abbiamo visto – implica una percezione che è già istituzione sociale,
sviluppatasi nel corso della nostra esperienza all'interno della storia.
Oggi invece è mutata l’accezione stessa della percezione: abbiamo una
percezione puntiforme legata ad una dimensione del tempo frantumato,
che non si realizza all'interno di uno spazio mentale, ma di uno spazio
virtuale.
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Cos'è lo spazio virtuale? Si tratta dello spazio percorso da flussi
informatici organizzati, di volta in volta, mettendo all'opera l'insieme
delle informazioni e dei luoghi di provenienza. In realtà, lo spazio
virtuale è poco studiato dai giuristi, poiché lo si considera uno spazio
immaginario. Ma, come scrive molto efficacemente Merlini, lo spazio
virtuale è uno spazio reale, benché sia diverso dal reale che conosciamo.
Un'impresa virtuale, dove si realizzano le connessioni di lavori che si
svolgono in diverse parti del mondo, non è affatto un'impresa
fantasticata, ma un'altra forma d'impresa. Allo stesso modo, la moneta
virtuale non è affatto una non-moneta, ma una moneta diversa.
Bisogna provare a decifrare lo spazio virtuale perché una
comunicazione del tipo che Merlini descrive può allocarsi unicamente in
questo tipo di spazio. Lo spazio della “connessione sconnessa” è lo
spazio del virtuale, dove i flussi informatici si incrociano, si intrecciano, e
tutto sembra trasformarsi in un processo di organizzazione e
disorganizzazione dell'informazione. È fatto d'informazione anche il
luogo in cui avviene una forma inedita di cooperazione, perché le
informazioni, in qualche modo, interagiscono tra loro a prescindere
dall'intenzione di chi le mette in rete, dando vita, come viene descritto in
molti libri, ad una forma di intelligenza collettiva; è come se nello spazio
virtuale non ci fosse lo spazio mentale dell'Io, a cui siamo abituati a
pensare, ma ci fosse invece all'opera un'altra forma di intelligenza –
l'intelligenza collettiva o
general intellect, per usare il termine di Marx –,che collega le informazioni e la mette in opera.
Oggi il tempo dominate è il tempo del mercato, basato
esclusivamente sull’assenza di relazioni interpersonali. In definitiva, lo
spazio virtuale dovrebbe essere interamente esplorato e ciò richiede la
destrutturazione delle vecchie categorie. Per esempio, in passato, siamo
stati abituati a parlare di
nomos del mare e nomos della terra; oggi,come si definisce il
nomos nello spazio virtuale?Mi sembra che la diagnosi appena fatta comporti il superamento di
tutte le coppie oppositive o dei dualismi con cui noi abbiamo costruito il
nostro modo di organizzare il mondo. Mircea Eliade, per esempio,
sostiene che la prima operazione che fanno gli uomini è distinguere tra il
sacro e il profano, e che poi entro il profano distinguono il reale e il
fantastico. Questa distinzione, ripete anche Castoriadis, è
un’affermazione con cui abbiamo fatto sempre i conti. La distinzione tra
reale e fantastico – in cui, si badi bene, il reale è storico-sociale, ossia
ciò che di volta in volta viene rideterminato da una società – è una
distinzione essenziale, perché chi vive solo in una dimensione fantastica
viene considerato un delirante, e viene in genere curato; anche le
patologie sono definite sulla base di queste coppie oppositive. Invece
Il suicidio dell’Europa
i-lex, 224 Settembre 2005, numero 2
adesso sembrerebbe che il reale e l'immaginario non siano più
districabili.
Razionale e irrazionale, mente e corpo, tutte le coppie tradizionali
sono abolite. In particolare, è abolita la percezione di trovarsi sempre
altrove rispetto al luogo in cui si è: la percezione dello scarto. Lo scarto,
per ricorrere ad un esempio, dell’«io» che parla e non è riuscito a dire
ciò che voleva. Insomma, l’impossibilità di essere ridotti alla sola
dimensione del parlare, dell'apparire ma di essere, allo stesso tempo, di
fronte a qualcosa che abita dentro di noi. Scarto è anche il rapporto tra
la mente e il corpo, tra la coscienza e l'inconscio, se volessimo usare le
categorie freudiane. Lo stesso modo di autorappresentarci, fondato su
questa irriducibilità, come se noi fossimo al tempo stesso una cosa e il
suo contrario – il mio mondo onirico e il mio mondo diurno –, adesso
sembra impossibile.
Nella parte finale del suo libro, Merlini usa l'espressione "tutto si è
appiattito in un'utopia incarnata", con la quale intende sostenere che
oltre la realtà esistente non c'è più nient’altro da pensare. Abbiamo fatto
i conti con tutto quello che poteva essere detto? Siamo nell'epoca che
non lascia spazio ad un'altra epoca? Si tratta di domande alla quali
soprattutto i giovani devono cercare di rispondere, in particolare i
giovani costretti a confrontarsi con un’università antiquata,
continuamente tesa a riproporre modelli analitici e categorie esplicative
legate all'abitare i vecchi luoghi della storia e delle coppie distintive. Pur
senza aderire acriticamente alle mode distruttive, non possiamo non dire
che gli statuti dei saperi attuali debbono essere tutti rivisti.
Oggi viviamo nell’epoca del digitale, ed io vivo sempre nel registro
dell’associazione, dell’analogia. Le analisi di Merlini si riferiscono alle
pratiche, cioè al vissuto quotidiano. Viviamo in una realtà sociale in cui
si assiste ad un vero e proprio blocco del pensiero (il pensare inteso nel
senso della produzione di rappresentazioni significative che permettano
di comprendere, afferrare progetti, eventi, oggetti ecc.). In altre parole,
un blocco del pensiero determinato dal fatto che non si riesce a fare
l’esperienza del vuoto.
Penso ad un’affermazione sul rapporto tra vuoto e pensiero dello
psicoanalista Davide Lopez: senza il vuoto non si pensa. Le persone
ossessionate, come un depresso che pensa solo a cose terribili, può
uscire da questa gabbia solamente se riesce ad attraversare il vuoto. La
paura del vuoto impedisce di pensare, perché non permette di
modificare il registro dei pensieri. Detto altrimenti, non si possono
pensare cose diverse se prima non c’è il vuoto. Si tratta di una pratica
diffusa anche tra gli orientali, per esempio con l’esercizio della
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meditazione trascendentale dello Zen, mediante cui si cerca di pensare il
vuoto, perché solo nel vuoto accadono i pensieri.
Il tempo della presenza piena è il tempo che non conosce l'assenza.
In realtà, il senso esclusivo della presenza contrasta con il ragionamento
svolto. Infatti, rispondere alla domanda “chi siamo?”, implica dire da
dove veniamo, inventarsi un passato. Il tempo della presenza, se fosse
davvero una presenza piena, impedirebbe la stessa formulazione della
domanda fatta all'inizio. Una presenza piena non ci consentirebbe di
domandare chi siamo, perché rispondere a tale domanda significa
rispondere implicitamente alla domanda “da dove vengo?”.
In realtà, per fortuna, le cose non sono così semplici. Come dice Carlo
Sini: "una volta inventata la storia non si esce più dalla storia". Questo
presente così pieno e quest'epoca della comunicazione che ha
soppiantato con lo spazio virtuale tutti gli spazi in cui siamo collocati,
non è forse una nuova grande narrazione? In qualche misura lo
accenna, all'inizio della sua ultima riflessione, il sociologo Ulrich Beck,
che considera la globalizzazione come l'epoca del cosmopolitismo
dispiegato: appunto un'altra narrazione.
La riflessione sulle problematiche appena accennate ha avuto come
effetto l'istituzione di una pratica discorsiva che sta smentendo le
pratiche irriflesse in cui siamo immersi. I cambiamenti sono, spesso,
legati a mutamenti di sguardo.
La questione ci riporta al tema della “memoria” e dell’inevitabile
venire da un passato
: la configurazione della memoria può essereconsiderata disponibile a una pura successione di eventi distinti o
implica uno spazio e un tempo continui? Al riguardo, c’è una discussione
interessante sul terreno psicoanalitico tra la “vecchia” teoria di Freud
sulla memoria come ricapitolazione, cioè intesa come un continuo
riassumere, e la “nuova” visione, che considera la memoria come un
bricolage
costruttivo. Tale ricostruzione risulta arbitraria o possiede unproprio substrato? Si tratta di un punto decisivo, poiché ripropone la
questione del rapporto tra l'artificialità, il soggettivismo, il
costruttivismo, il realismo e l'oggettività.
Si torna a parlare con insistenza di rapporto tra natura e artificio di
biologia e culture per definire lo statuto antropologico dell’individuo.
Esiste una natura? Non so se possiamo dare una risposta. Esiste sempre
un fatto che ci ha preceduto, esiste un momento della nascita, un
momento in cui sono venuto fuori dall'utero di mia madre. Questo
“fatto” non può essere definito, ma è sempre implicato. In ogni
invenzione del passato è implicato un accadimento reale e quindi
l'invenzione del passato non è solamente arbitrio. Anche la riflessione
riguardante la nostra epoca e le pratiche in cui siamo immersi lascia
Il suicidio dell’Europa
i-lex, 226 Settembre 2005, numero 2
sempre una traccia, che verrà domani interpretata in un altro contesto e
con un altro senso, ma rimarrà sempre un passato remoto.
3. La razionalità computazionale
Lo studio della società della comunicazione diventa indispensabile
qualora s’intenda costituire uno spazio europeo, perseguendo l’obiettivo
di produrre una società capace di utilizzare la ricerca, l’elaborazione e la
trasmissione delle informazioni. La conoscenza alla quale si allude, va
subito aggiunto, non è la consapevolezza e la riflessione su se stessi e
sul senso dell’agire umano, ma la cosidetta
conoscenza utile e idonea arealizzare un aumento della potenza produttiva di beni-merci. Questa
conoscenza, che tendenzialmente confina con la tecnica e la logica
computazionale, cioè della produzione di modalità
operative/organizzative dell’attività lavorativa, è oggettivamente
depositata in ogni esperienza produttiva ed è naturalmente sociale in
quanto connessa funzionalmente alla cooperazione dei diversi lavori
particolari e parcellizzati.
La potenza sociale di questo tipo di conoscenza legata organicamente
al processo produttivo e lavorativo, come molti anni or sono ha scritto
Bravermann in un libro che fece storia, è di fatto o di diritto appropriata
dal capitale. Tutto ciò era visibile già nell’epoca della rivoluzione
industriale, ma è reso sempre più evidente nell’epoca della rivoluzione
informatica.
Ciò comporta innanzitutto un cambio di paradigma rispetto alla
società tradizionale, intesa come società di uomini riflessivi. Il tratto
distintivo dell’uomo riflessivo risiede nella propensione guidata dalla
coscienza a riflettere sul proprio agire. In tal modo, l’individuo riflessivo
è caratterizzato da un insuperabile sdoppiamento, che invece sembra
completamente assente dal paradigma stesso della società della
conoscenza. In essa, l’informazione viene utilizzata, scambiata e
immessa in un circuito puramente funzionale. All’interno di tale quadro,
che apparentemente delinea la società della conoscenza, ma esclude
ogni spazio riflessivo, sembra che l’Europa stia finalmente cercando la
propria tradizione e la propria identità culturale. Si tratta però soltanto
di un’illusione.
In questo quadro restano irrisolti alcuni nodi problematici, tra cui la
riduzione del mondo a mera informazione e la riflessione del vivente
nello scambio di informazioni. Il compito dell’informazione consiste,
infatti, nel costituire l’unità a partire dalle diverse rappresentazioni di cui
oggi disponiamo: l’atomo, la molecola, la particella.
Pietro Barcellona
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La vita stessa è scambio di informazioni. Persino il codice immunitario
funziona sulla base di una selezione di informazioni derivanti dall’esterno
e controllate attraverso un meccanismo selettivo, che poi le rende
utilizzabili. L’informazione, in altri termini, è una sorta di meccanismo
che attiva processi automatici di conoscenza. Essa non può essere
ridotta ad interpretazione: è utilizzabile o meno, è positiva o negativa.
Il modello di razionalità implicata nella società della conoscenza si
configura come razionalità fornita prevalentemente di una funzione
preditiva, secondo procedure e sistemi di calcolo: una razionalità
computazionale, per dirla con Bruno Romano. Così l’informazione
diventa risorsa di potere, risorsa economica. Si pensi a che cosa
rappresenta oggi l’informazione nel mercato borsistico.
In questo senso, lo spazio europeo perde la sua fisicità e sulla scorta
di Internet - grande mito dell’epoca contemporanea - diventa spazio
virtuale, ossia una sorta di rete, dalla quale si diramano informazioni,
successivamente selezionate, utilizzate, ritrasmesse.
Al di là degli aspetti critici appena evidenziati, secondo me, un primo
problema consiste nella ridefinizione delle categorie con cui è stato
interpretato il mondo globalizzato (proprietà, sovranità, nazionalità). La
stessa categoria di soggettività ha subìto una trasformazione radicale
poiché il punto d’intersezione dell’informazione non è più il soggetto
moderno. Un ulteriore problema può essere individuato nell’incipiente
omogeneizzazione dei linguaggi nella rete, dove l’inglese si afferma
come unica lingua.
Le implicazioni derivanti dalla società della conoscenza sono
innanzitutto la formulazione di una teoria generale: la teoria sistemica
luhmanniana, svolta epistemologica nel sistema tradizionale di
conoscenza, in quanto sostituisce alla dicotomia Io-mondo, la coppia
sistema-ambiente. In tale teoria i poteri, ridotti a sottosistemi, risultano
privi di autonomia dal punto di vista morfologico e sono sottoposti alla
medesima logica.
In secondo luogo, vi è un’implicazione antropologica comunemente
sintetizzata dal termine biopolitica, che sottende l’idea secondo cui il
corpo si trova di fronte al sistema privo dei mediatori classici, ovvero lo
spazio sociale e quello simbolico.
Un ulteriore implicazione riguarda l’unificazione tra processi vitali e
processi sociali: il processo sociale perde progressivamente la sua
connotazione specifica, finendo per identificarsi con il processo vivente.
In passato, secondo l’interpretazione canonica di Darwin, la selezione
della specie avveniva sulla base della maggiore forza fisica dimostrata
attraverso la lotta. Viceversa, oggi il neodarwinismo evoluzionista -
sposato dalla maggior parte dei neuroscienziati – si basa su una capacità
Il suicidio dell’Europa
i-lex, 228 Settembre 2005, numero 2
intellettiva molto simile a quella del computer, cioè una razionalità
predittiva in grado di aumentare la propria capacità di calcolo attraverso
l’accumulazione di informazioni. Tale neodarwinismo costituisce,
secondo me, la grande seduzione passiva dell’ipermodernità.
Una valutazione critica del processo di rappresentazione del vivente e
dell’umano appena descritto, da quale punto di vista, da quale luogo può
essere effettuata? E, soprattutto, in quale rapporto si colloca tale
trasformazione della rappresentazione del mondo con la tradizione
europea, nient’affatto fondata sullo schematismo neonaturalista, ma
attraversata da una continua lacerazione tra Io e mondo? In effetti, la
tradizione europea trova le sue origini nella cultura giudeo-ellenistica
basata sull’idea di discontinuità tra Io e mondo. Ciò nonostante, gli
innumerevoli tentativi di conciliazione esperiti nel passato sono stati
smentiti dalle guerre, foriere di distruzioni di massa.
Alla luce di quanto esposto, le suddette domande diventano decisive
soprattutto dal punto di vista pratico, giacché l’uomo contemporaneo
inizia a considerare normale la manipolazione tecnica della vita.
4. La posta in gioco: il controllo del vivente
Il problema della vita, o meglio del potere sulla vita, ovvero del
rapporto tra vita e potere, che per un lungo periodo della storia umana è
stato relegato alla dimensione privata e domestica della riproduzione,
nonché agli aspetti biologico-naturali dell’evoluzione, è diventato la
posta in gioco del nostro tempo. Mentre l’epoca precedente è stata
caratterizzata dal dominio della natura, oggi quest’ultimo si presenta
come dominio della vita. Il dominio della natura significa mettere a
profitto un terreno, costruire una città; il dominio della vita consiste
invece nel sostituire la natura nei meccanismi del vivente. Ci si riferisce
qui non tanto alle questioni dell’eutanasia e dell’aborto, quanto al tema
della produzione della vita a mezzo della tecnica, ovvero attraverso
tecniche di manipolazione e di appropriazione del vivente.
Si tratta di una novità assoluta, non solo perché si infrange il tabù
della sacralità della vita umana, come sono stati infranti altri tabù nella
storia, ma perché si afferma un processo di frantumazione dell’individuo.
A questo proposito, Sara Ongaro, nel volume
Le donne e laglobalizzazione
, esprime una serie di opinioni contro-corrente. Ilcontrollo della maternità non rappresenta a suo avviso un’evoluzione
della libertà delle donne, ma è un fatto che aumenta invece l’uso del
corpo delle donne in termini economici, e perciò risulta ascrivibile alla
categoria della mercificazione della vita, con due implicazioni. La prima
Pietro Barcellona
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consiste nella considerazione dell’individuo non più come un tutto
organico, in cui gli aspetti psicologici ed intellettuali sono tutt’uno con il
corpo, ma come soggetto divisibile in più parti, per cui oggi diventa
possibile vendere i propri prodotti organici, dallo sperma agli ovuli. Ciò
trasforma – nella visione moderna di proprietà – il concetto di bene
giuridico, che non riflette più una visione naturalistica dell’utilità, ma al
contrario è una creazione del potere giuridico, presupponendo che un
segmento del processo riproduttivo, prima non concepibile isolatamente,
divenga oggi separato e quindi appropriabile.
La seconda implicazione è rappresentata dal processo di inserimento
del ciclo vitale nella logica della mercificazione capitalista. Si rovescia
così il rapporto tra le due sfere della produzione e riproduzione
enunciato nella tradizionale visione marxiana, secondo cui la
riproduzione, quale fenomeno di crescita dell’umanità, sarebbe
sottoposta alle leggi della produzione. Oggi, al contrario, la sfera
realmente “produttiva” di ricchezza e profitto appare quella riproduttiva,
il cui controllo sta diventando il campo di battaglia strategico delle
grandi imprese. Sempre secondo l’autrice, quando si fa penetrare il
diritto, la moneta, la logica economicista dentro un certo ambito delle
relazioni umane, questo ambito cambia natura, entra nel campo del
mercato e della mercificazione. Infatti, a differenza di ciò che
trasmettono i messaggi dominanti, non sono la generosità o il desiderio
di genitorialità che governano la sfera riproduttiva, ma gli interessi dei
grandi gruppi economici, in base ai quali è persino immaginabile che si
possano produrre figli senza che ci siano due persone fisiche
concretamente in rapporto. Perciò, la sfera riproduttiva può essere
considerata il “petrolio del futuro”. Di pari passo, si sta sviluppando il
controllo del processo vivente della natura, attraverso il sistema dei
brevetti sui prodotti, in particolare sulle sementi, da parte delle
multinazionali. Viene introdotta una logica mercificatoria, e quindi
capitalistica, in tutto ciò che prima era considerato natura e vita. Siamo
di fronte a una trasformazione antropologico-genetica dell’uomo, che è
in grado di manipolare i processi vitali: la posta in gioco è la vita.
È possibile sostenere, con la Ongaro, che tale processo trasformativo
riguarda particolarmente la condizione della donna, che si trova ad
essere oggetto di una nuova soggezione storica, poiché tutti gli
esperimenti che riguardano la riproduzione della vita (utero in affitto,
donazione di ovuli) passano attraverso il corpo femminile. Così la donna,
mentre pensa di emanciparsi nella propria condizione avanzando il
diritto ad avere un figlio, diritto aberrante poiché si configura come
pretesa di appropriazione verso qualcuno che non ha diritto di parola,
Il suicidio dell’Europa
i-lex, 230 Settembre 2005, numero 2
sta in realtà diventando ella stessa un oggetto nelle mani degli attori
dominanti il processo di manipolazione del vivente.
Inoltre, l’attuale condizione di nuova soggezione femminile assume
ulteriori caratteri:
la diffusione su larghissima scala del lavoro delle donne, che
rappresenta ormai nel terzo e quarto mondo l’80% del totale; la forma
di sfruttamento di massa del lavoro nella globalizzazione è quindi più
femminile che maschile;
il fenomeno della prostituzione di massa, quale vero e proprio
processo di oggettivazione mercificata delle donne; i dati sulla tratta e
sullo sfruttamento sessuale femminile sono impressionanti;
l’introiezione avvenuta nella cultura occidentale di un modello di
disprezzo del lavoro domestico: la donna casalinga ha perso identità e
dignità, con un incremento dei casi di depressione, alcolismo e suicidi. Vi
sono casalinghe che muoiono di tristezza, perché la società nella quale
un tempo il lavoro familiare femminile godeva di prestigio e di autorità,
oggi considera tale attività limitante e degradante;
la fuga delle donne verso attività di tipo maschile, nelle fabbriche
come nei ruoli manageriali, che implica la sottomissione alle logiche
della competenza e della competizione, caratteristiche del mercato del
lavoro maschile;
la diffusione nelle società occidentali del lavoro femminile di cura, non
finalizzato alla produzione: una forma di servitù nuova, che supplisce
alle assenze delle responsabilità familiari nelle situazioni di bisogno e
solitudine; un prendersi cura di condizioni terminali da parte di donne
che sostituiscono altre donne in fuga dalle proprie funzioni tradizionali di
collante affettivo nella famiglia e nella comunità.
Un processo realmente rivoluzionario investe quindi il corpo
femminile, che diviene una sorta di laboratorio vivente della
trasformazione del capitalismo, orientata a sostituire la produzione di
beni inanimati con la produzione di processi viventi. I processi di
mercificazione della vita riguardano anche il sistema dei brevetti, la
commercializzazione delle intelligenze, rendendoci tutti apparentemente
più liberi, in realtà molto più sottomessi.
In tutti i campi siamo di fronte a un processo di trasformazione di così
ampia portata che pone una serie notevole di problemi dal punto di vista
filosofico: come si fa a costruire quale soggetto della conoscenza un
individuo che va in frantumi? Più si prosegue in questo campo, più ci si
accorge dei rischi connessi alla decomposizione dell’idea “tradizionale”
dell’uomo. Essa mette in discussione in modo crescente questo famoso
soggetto, titolare della rappresentazione e del metodo, perché esso è
andato in pezzi, e non sappiamo fino a che punto le cose che pensa e
Pietro Barcellona
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dice sono frutto della sua elaborazione personale e non invece il risultato
di una sua trasformazione in mero prodotto di manipolazioni
informatiche. Il vero problema è ormai la conoscenza della realtà, il suo
metodo. Nelle epoche precedenti, gli avvenimenti erano trasmessi dalle
testimonianze dirette. L’attuale battaglia per il controllo del processo
vivente sta ponendo problemi enormi alla filosofia, al diritto e alla
politica. Tutto è rimesso in discussione, a partire dalla definizione delle
grandi categorie di soggetto, verità, morale, natura, cultura.
In realtà la biotecnologia ha modificato in radice il concetto di vita,
mettendo nelle mani dell’uomo non solo un potere manipolativo, ma la
possibilità di creare
ex novo un progetto vivente.Riporto un brano di Roberto Marchesini, che fornisce un’ottima analisi
del progetto del post o trans-umanesimo.
“
L’aspetto più innovativo del transumanesimo consiste nell’ammettereche animali, alieni, esseri artificiali, ibridi cyborg o teriomorfi,
intelligenze disperse possano costituire accanto all’uomo un’unica
comunità edonistico-cognitiva, avendo a disposizione un vasto repertorio
di possibilità in cui metamorfizzare. Queste potenzialità vengono viste
inoltre in modo dinamico e temporaneo, ossia come passaggi transitgori
e transitivi a disposizione dell’individuo: servono cioè ad accontentare la
fame di piacere e di conseguenza propria del post-uomo. Ricorre nella
proposizione transumanista l’idea di una soggettività a tutto tondo, in
grado cioè di acquisire a pieno titolo i fili del proprio destino.
Molte delle domande retoriche che ricorrono nei proclami
transumanisti dimostrano questa tensione. Perché morire quando è
proprio nella maturità che si liberano le migliori disposizioni dell’uomo?
Perché soffrire o rimanere vincolati nelle strettoie attitudinali – quali la
paura, l’ansia, l’irritabilità – adeguate nel contesto filogenetico ma oggi
divenute solo fonti di in utile sofferenza? Il teorico del transumanesimo
si ribella all’appiattimento dell’uomo sulla sua condizione originale,
considerando questo atteggiamento un conservatorismo superfluo e
dannoso. …. Il nuovo strumento di salvezza non è più la fede, il rifugio in
una realtà metafisica immune e al di fuori del dominio normativo della
natura naturans, bensì la tecnologia, nuova fucina di soteriologie
individuali e, come abbiamo visto, egoteistiche. È interessante valutare il
rapporto del tutto peculiare che i transumanisti instaurano con la natura,
letta come una dimensione tracimante di difetti e renitente a farsi
emendare dalla tecnologia. Non più madre né matrigna, la natura a
disposizione del postumano, dell’essere cioè che avrà completato la sua
fase transizionale, ha assunto un ruolo ancillare, è diventata una sorta di
sacedotessa – pacificata, addomesticata, resa fedele e complice – al
servizio del post-uomo.”
Il suicidio dell’Europa
i-lex, 232 Settembre 2005, numero 2
Come è facile constatare, l’“edonismo cognitivo” è il contrario della
“coscienza infelice” che segna la storia dell’Europa dalle sue origini,
dall’affermazione greca “meglio non essere mai nati” al lamento
leopardiano “funesto a chi nasce è il dì natale”. Il concetto di “coscienza
infelice” comprende il dolore individuale che accompagna la crisi della
soggettività moderna. Questo dolore è la realtà più elementare che
descrive la letteratura moderna come risposta critica all’insufficienza o
alla contraddizione del mondo e della vita, che il razionalismo filosofico
del XVII e del XVIII secolo avevano cercato di “rinnovare”. Ma proprio
nella misura in cui assume questa esperienza del dolore, la filosofia che
analizza l’insufficienza storica del soggetto razionale moderno non può
essere trattenuta nella sua stabilità ermeneutica. Il dolore oppone
sempre restistenza all’oggettivazione che lo determina, e non c’è
infelicità senza ribellione. Le figure della coscienza infelice anticipano, in
qaualche modo, le figure della coscienza ribelle, poiché la critica della
soggettività razionale che presentano, contiene già gli elementi di una
nuova soggettività.
La sofferenza umana non è una realtà isolata nella sua solitudine o
nell’imprigionamento sociale. Possiede una dimensione istituzionale,
spirituale, sociale. Ciò vale anche per Hegel quando, per esempio, si
riferisce all’anima cristiana come figura specifica della coscienza infelice,
giacchè la sua realtà strutturale e interiore è, al tempo stesso,
determinante come caratteristica di un’epoca data. Ugualmente storica
è, in questo senso, l’analisi del dolore nella figura del servo hegeliano,
che forma e trasforma il mondo, che dissolve la realtà naturale per
convertirla in umana, ma compie tutto ciò come atto che deriva da una
volontà estranea, e soffre questa umiliazione e questa alienazione.
Bruno Romano, riflettendo sulla manipolazione della vita, mette a
fuoco il legame tra la spiegazione dell’uomo in termini scientifici e il
compimento del nichilismo nel post-uomo. Nella sua visione, il postuomo
sarebbe l’essere estraneo che risulta dall’insieme di natura e
protesi tecnologiche, la figura che segna la trasmutazione dei diritti
dell’uomo nei diritti della sensazione funzionanti come leggi della
globalizzazione. In questo quadro, viene richiamato il contributo di
Heidegger sulla struttura del fenomeno della noia. Secondo Heidegger, il
mondo raggiunge uno stato di sazietà che provoca una condizione di
noia metafisica, ossia la perdita della passione del conoscere e del
vivere; una sorta di ozio cieco e paralizzante, che non è solo mancanza
di fantasia e perdita di visione futura, né corrisponde al “male di vivere”
del giovane letterario. Questa noia è un appagamento ottuso. La
spiegazione scientifica dell’uomo nel post-umanesimo priva il diritto - e
soprattutto il giudizio giuridico - di qualsiasi senso sufficientemente
Pietro Barcellona
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argomentabile. Nelle cose e nei viventi post-umani, oggetto del
conoscere scientifico, non si osserva alcuna modalità su cui il diritto
abbia davvero presa. Ciò viene in qualche modo collegato da Romano al
nichilismo. Io dissento completamente da questa posizione, perché in
questo modo si fa coincidere il nichilismo con la tradizione della filosofia
della crisi, con la perdita di ogni valore oggettivo e assoluto.
La critica al nichilismo emerge anche nel dibattito politico corrente: le
polemiche di Baget Bozzo contro la sinistra contestano ad essa una
presunta assenza di limiti, un relativismo etico che rifiuterebbe qualsiasi
criterio morale, concedendo una libertà assoluta nelle scelte individuali.
Baget Bozzo riconduce naturalmente questo nichilismo a Nietzsche,
eppure tale collegamento appare arbitrario. Infatti, contrariamente alla
filosofia precedente, che si sentiva garantita dalla capacità della
rappresentazione umana, Nietzsche era convinto insieme a tutta la
filosofia critica che noi non abbiamo accesso alla verità. Che cosa può
conoscere l’uomo e come può conoscere? Questo è il problema del
metodo e dell’accesso alla verità che si è posto assai prima di Nietzsche.
Tuttavia, il nichilismo non necessariamente implica una posizione
eticamente nichilista. Nonostante la convinzione della impossibilità di
accesso alla verità, si può ritenere di essere nel regime della
doxa,ovvero dell’opinione, senza che questo significhi irresponsabilità ed
illimitata liceità. Il regime della
doxa è anzi il regime dellaresponsabilità. Se non sono sicuro che esista Dio, non considero ciò
come un’autorizzazione a uccidere. Al contrario, si accresce la
motivazione personale per assumere decisioni favorevoli alla vita. In
altri termini, in assenza di riferimenti a principi ultraterreni da seguire,
le responsabilità di cui si fa carico l’uomo sono maggiori. Mentre chi
crede nella rivelazione può decidere confortato dalla Parola, vivendo la
grazia di un rapporto intuitivo, di tipo mistico-religioso, con la verità, chi
non ha questa prospettiva non per questo deve esprimere disprezzo
verso la vita; può diventare anche un uomo che tragicamente si assume
la responsabilità di prendere delle decisioni che sono favorevoli alla vita.
Si offre qui lo spunto per una riflessione più generale. Mentre nella
tradizione dell’Occidente il concetto di nulla acquisisce un significato
negativo a partire dal suo stretto rapporto con l’idea di fine e quindi di
morte, nella visione orientale è invece un concetto positivo.
L’aspirazione di un vero buddista è quella dell’annichilimento di se stesso
nel cosmo per entrare nell’armonia generale dell’universo. Nella nostra
cultura, al contrario, il senso di nulla come morte ha senso solo se noi
assumiamo come premessa che c’è un Io che muore. Infatti, se si parte
dalla “fantasia onnipotente” secondo cui noi siamo l’Io al centro
dell’universo, in questa visione per certi versi distorta quando questo Io
Il suicidio dell’Europa
i-lex, 234 Settembre 2005, numero 2
muore si scatena l’angoscia. La nostra è una filosofia che nasce
dall’angoscia della morte.
Nelle civiltà orientali, che non hanno una visione della soggettività
uguale alla nostra, le teorie della reincarnazione rinviano alla percezione
di un
continuum vitale animistico tra il mondo degli umani e il mondo deinon umani. Al contrario, la civiltà occidentale – che discende dalle due
grandi tradizioni ebraica e greca, dove l’Io è protagonista di un percorso
di salvezza – senza il soggetto non esisterebbe. Pertanto, il fenomeno
della morte dell’Io ha una valenza drammatica: al dileguarsi dell’Io, si
dilegua l’intero mondo ideale occidentale. Peraltro, non è realizzabile un
percorso di accesso a civiltà diverse semplicemente sul piano
intellettuale o mediante la pratica meditativa, come sembra emergere
dal successo delle filosofie orientali nel nostro tempo. Entrare in una
cultura diversa richiede un processo iniziatico, che prevede
un’esperienza di incontro e implica un processo di contaminazione anche
affettiva mediante la quale si trasmette un sapere diverso.
Le trasformazioni di civiltà a cui si è accennato coinvolgono anche il
campo delle scienze giuridiche. Si può richiamare la tesi di Natalino Irti,
il quale, in uno scritto su
Nichilismo e metodo giuridico, avanza unacritica alla visione tradizionale che considera il metodo giuridico uno
strumento per la conoscenza del diritto, utilizzabile come un utensile con
il quale il soggetto tratta l’oggetto. La teoria generale, infatti, ritiene che
qualsiasi norma sottoposta al trattamento del metodo si purifica ed
entra nella dignità logica del diritto. Irti sostiene che tale impiego del
metodo tradizionale tradisce l’intenzione di salvare un mondo ormai
tramontato, e che, all’aurora di un mondo nuovo, le norme giuridiche al
pari di qualsiasi bene sono prodotte, vengono dal nulla e possono essere
ricacciate nel nulla. In questa nuova visione, le norme non avrebbero
alcuna ragion d’essere se non quella dell’adeguamento funzionale alla
contingenza. Ciò è confermato dalla teoria dei sistemi, che attribuisce
valore ad un elemento non sulla scorta della sua natura sostanziale,
quanto in base alla funzione da esso svolta all’interno del sistema. Tale
visione funzionalista, naturalmente, dipende dalla contingenza, poiché
se una cosa non ha valore per sé, non ha neanche sostanza, e ciò che
non ha sostanza non è necessario; quello che non accade secondo
necessità accade secondo il caso e quindi risponde alla contingenza.
In conclusione, nel percorso della nostra riflessione si è partiti dal
problema delle biotecnologie come vera posta in gioco della nostra
epoca; il tutto è stato messo in relazione con l’attuale nuova fase del
capitalismo, che ha finito di produrre merci tradizionali per puntare al
controllo del processo vivente; infine, questo tema ha fornito lo spunto
per arrivare ai confini del discorso sul metodo, poiché ciò che consente
Pietro Barcellona
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la manipolazione della vita è la convinzione che la vita stessa non ha
valore, all’interno di una visione nichilista che travolge ogni idea di
diritto e quindi anche ogni idea di metodo, dato che il concetto di
metodo presupporrebbe che il diritto abbia una sua essenza, una sua
durata ed una sua persistenza oltre la contingenza dell’accadere.
5. La riproducibilità tecnica della vita e il nuovo capitale
Massimo De Carolis, in un recente libro intitolato
La vita nell’epocadella riproducibilità tecnica
– sorta di parallelo con l’opera di Benjaminsulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte –, evidenzia come la tecnica
non solo stia entrando nel ciclo del vivente, ma tenda ad
impossessarsene, a dominarlo, usarlo. In questo campo, al di là delle
intenzioni apparentemente filantropiche, si assiste a forme abnormi di
finanziamento rispetto ad altri settori della ricerca come, per esempio,
quelli riguardanti la povertà nel mondo.
Per questi motivi, acquista importanza la riflessione sull’avvento del
post-umano, che tende a svalorizzare la vita umana fino al punto da
considerarla nulla. Il post-umano, secondo Romano, poggia su due
presupposti: la manipolazione e la costruzione di mondi artificiali o
virtuali (
cyberspazio).Che cosa accade in una società in cui la conoscenza della vita, del
ciclo biologico, e non l’erogazione della forza lavoro, rappresenta la
risorsa che produce direttamente profitti? L’invenzione del mondo
virtuale si muove in direzione della manipolazione della mente, cioè
della ricostruzione dei processi elettro-chimici, il cui scopo è la
riproduzione delle funzioni del cervello. Allo stesso modo in cui la
manipolazione della vita sta mettendo in dubbio uno dei presupposti
della tradizione occidentale, cioè la sacralità del processo procreativo,
l’intelligenza artificiale sta mettendo in dubbio la rilevanza del cervello.
Ciò comporta, naturalmente, una serie di ricadute sul diritto. Come
immaginiamo il soggetto di diritto, o le stesse norme, in un contesto
regolato da interventi tecnologici sulla vita e da processi sostitutivi delle
funzioni celebrali degli uomini con artifici svolgenti le stesse funzioni? Il
matrimonio tra intelligenza artificiale e neuroscienze sta
progressivamente evidenziando che il processo appena descritto si
configura come naturale ed evolutivo. Si tratta di una trasposizione del
darwinismo sul terreno dell’intelligenza risultante dalla riproducibilità
tecnica dei processi mentali.
A tal riguardo, un recente volume di un filosofo della mente, Dennett,
intitolato
L’evoluzione della libertà, evidenzia come il processo di cuiIl suicidio dell’Europa
i-lex, 236 Settembre 2005, numero 2
sopra costituisca in realtà il risultato dell’evoluzione naturale che sta per
produrre il super-uomo, pr