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Estetica della sparizione: un'etica per la società dello spettacolo

di Bruno Bonansea - 02/07/2007


I nostri eroi si sono uccisi, o s'uccidono
(Henry Miller)
Il mio capolavoro è il silenzio
(Marcel Duchamp)



Esiste una segreta convergenza tra alcune grandi anime del Novecento quali Fuocault, Deleuze, Debord e Mishima, che può essere illuminata a partire dalla nozione di 'estetica della sparizione'. Intesa, quest'ultima, non nell'accezione originaria attribuitale da Virilio[1], bensì nel duplice significato di un "lavoro di sé su sé " che consiste nel "dare senso e bellezza alla morte, estetizzare la cancellazione di sé"[2]e, anche, nel senso di una 'fuga' dalla società dello spettacolo integrato[3]che risulti essere l'esatto contrario della resa:"Fuggire, ma fuggendo, cercare un'arma"[4], sapendo che "gli artefici dei naufragi scrivono il loro nome soltanto sull'acqua"[5]. Una vera e propria "estetica dell'esistenza"[6], dunque, che è anche un'estetica della sparizione, già tratteggiata, nelle sue linee essenziali, negli ultimi due libri pubblicati da Michel Foucault , nel 1984, poco prima della morte prematura. Questa estetica dell'esistenza, come spiega Paul Veyne, va concepita dal punto di vista dei Greci, "per i quali l'artista era in primo luogo un artigiano e l'opera d'arte - un'opera"[7]; solo in questo modo , "l'io, assumendo sé stesso come opera da compiere, potrà sopportare una morale che né la ragione né la natura né la tradizione sopportano più"[8], fino a diventare "artista di sé stesso"[9]secondo lo schema dannunziano de "Il piacere", in cui il padre di Andrea Sperelli enuncia così il suo credo:"Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte.La superiorità vera è tutta qui""[10]. Detto con le parole di Foucault:"L'individuo si realizza come soggetto morale nella plastica di un comportamento perfettamente misurato, ben visibile a tutti e degno di duratura memoria"[11]. Questo atteggiamento estetico non esclude ma, anzi, implica "una visione da guerriero, per il quale non esistono che dei partiti presi, il proprio e quello dell'avversario, e che non pensa a darsene ragione: gli basta aver fatto la sua scelta"[12]. Lo stile, si può dire, diventa principio di individuazione, al punto che:"Un vero guerriero non conosce l'indignazione, ma conosce la collera, il thymos; non si cura di fondare la sua verità, gli basta volerla e farla trionfare; ma non si abbassa a cavillare.Tra l'indignazione e la collera non c'è una semplice sfumatura, ma un vero abisso metafisico"[13]. Da buon nietzscheano, Foucault sapeva che "la profonda sofferenza rende nobili; essa divide"[14]; ma come fare di questa esperienza un'arma? Come trasformarla in un punto di forza? Come dice Deleuze, "si tratta di concepire la morte, e sono pochi gli uomini che come Foucault sono morti nel modo in cui la concepivano"[15]. Ma lasciamo ancora la parola a Veyne:"Da diversi anni, Foucault aveva riflettuto molto sul sicidio.Diceva di non aver paura della morte e non se ne vantava. Solo la malattia e un'improvvisa perdita di coscienza gliene hanno tolto l'occasione.Il lavoro di sé su sé è consistito per lui nel mettere le proprie teorie alla prova su sé stesso, nel vivere la sua filosofia e nel compenetrarsene, come voleva la saggezza antica"[16]. Anche Mishima è stato un guerriero; "penso che alla fine penna e spada non possano essere divise"[17], ebbe a dichiarare in una intervista rilasciata poco tempo prima del tragico gesto con cui si sarebbe tolto la vita seguendo il rituale giapponese del seppuku. E un guerriero, vale la pena ricordarlo, è l'esatto contrario del soldato: non riceve ordini da alcuna autorità costituita, sia essa di carattere immanente o trascendente, lo spazio entro cui si muove è quello dello scontro puro; da ciò deriva "il fascino del samurai, guerriero in un mondo di soldati.Il guerriero non prova odio né amore per il suo avversario, ma ferendolo si trasforma in lui, e l'arma, prolungamento della sua persona, è il tramite della metamorfosi"[18]. Il duello e la spada diventano il tramite per il superamento di un'individualità che sentiamo come costrizione durante tutta l'esistenza e che neghiamo simbolicamente attraverso l'erotismo, la droga, l'ebbrezza o l'estasi[19], rimandando indefinitamente l'atto di violenza assoluto"che ci sottrae definitivamente alla discontinuità del singolo consegnandoci alla continuità senza limiti, per la nostra coscienza, della morte"[20]. Qualsiasi cosa sia stata scritta a proposito del suicidio di Mishima, appare infondata[21], così come si rivela infondato il tentativo di bollare la sua opera con il marchio, superficiale e non meglio precisato, di 'cultura di destra'. La prospettiva cambia se solo si richiamano alcune riflessioni di Baudrillard sul lavoro, il potere e la morte[22], che possono restituire al gesto ed alle parole di Mishima il loro significato autentico. Secondo Baudrillard, "il lavoro si oppone come una morte lenta alla morte violenta.La sola alternativa al lavoro non è il tempo libero o il non - lavoro: è il sacrificio"[23]; commentando acutamente la dialettica hegeliana del padrone e dello schiavo, Baudrillard mostra come il potere non sia altro che il potere di lasciare in vita, una vita da consumarsi nel lavoro: "Il padrone confisca la morte dell'altro, e conserva il diritto di rischiare la propria"[24]. Se il potere è una struttura di morte, "morte differita, non sarà eliminato finchè non sarà eliminata la sospensione di questa morte"[25]. Ecco che allora il gesto di Mishima acquista una nuova luce e rivela tutta la sua portata rivoluzionaria[26]: se conservando la vita non si abolirà mai il potere, "solo la resa di questa vita.costituisce una risposta radicale, e l'unica possibilità di abolire il potere"[27]. Tradotto in termini hegeliani, cesserò di essere uno schiavo se avrò il coraggio di rischiare la vita e, al limite, di perderla. Come fa ancora osservare Baudrillard con parole che rappresentano il miglior commento possibile della scelta di Mishima, di fronte ad un potere che "dona sempre di più , per meglio asservire", "gli individui possono giungere fino alla propria distruzione per mettervi fine. E' la sola arma assoluta.Ed è perché viviamo della morte lenta che sogniamo la morte violenta. Questo stesso sogno è insopportabile al potere"[28].Letto nell'ottica di Baudrillard, l'atto estremo di Mishima appare come l'incarnazione più pura dell'estetica della sparizione: si sottrae al potere il monopolio della morte violenta per affermare la propria volontà auto - etero - distruttrice; ma non solo: tale atto rivela profonde venature stoiche[29]. Mishima stesso, leggendo e commentando lo Hagakure, il libro dei samurai che sostenne la sua solitudine ed il suo atteggiamento anacronistico[30], riconosce i legami con la filosofia stoica: "In questa filosofia di morte si cela senz'altro lo stoicismo epicureo"[31]. Ed è difficile non vedere qui un'affinità elettiva tra Mishima sprofondato nella meditazione dello Hagakure e Foucault estasiato di fronte alla 'superbia' delle Lettere di Seneca[32]. Ma bisogna anche dire che Mishima è stoico nel senso così bene illustrato da Deleuze: quello della contro - effettuazione, in cui si diventa il " commediante dei proprï eventi"[33]. E' a questo livello che si condensa il paradosso stoico " di affermare il destino, ma di negare la necessità"[34]e si chiarisce che cosa significhi , stoicamente, volere l'evento: "liberarne l'eterna verità, come il fuoco che lo alimenta, tale volere raggiunge il punto in cui la guerra è condotta contro la guerra, la ferita tracciata vivente , come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti"[35]. Come dice ancora, in modo impareggiabile, Deleuze: "Che vi sia in ogni evento la mia infelicità, ma anche uno splendore e un bagliore che asciuga l'infelicità e fa sì che l'evento, voluto, si effettui sulla sua punta più stretta, sulla lama di un'operazione.Diventare degni di ciò che ci accade"[36]. Se ogni evento è sempre doppio e se in esso c'è sempre una parte incompiuta che eccede la sua realizzazione, allora c'è anche sempre lo spazio per la contro - effettuazione, ed è per questo che "dobbiamo doppiare questa effettuazione dolorosa con una contro - effettuazione che la limita. Bisogna accompagnarsi da sé, innanzitutto per sopravvivere, ma anche quando si muore"[37]. Anche nel suicidio di Mishima, dunque, si deve cogliere la doppia valenza dell'evento: da una parte, l'effettuazione tremenda con la ferita mortale inferta in modo irreparabile al proprio corpo, dall'altra la contro - effettuazione per cui questa stessa ferita diventa, come si è detto citando Deleuze, "la cicatrice di tutte le ferite" e la morte voluta libera la parte pura dell'evento , conservandone "soltanto il contorno o lo splendore"[38]. E' così che si tocca " il punto in cui la morte si rivolge contro la morte"[39] e si può, con Joe Bousquet, "attribuire alle pesti, alle tirannidi, alle guerre più spaventose la fortuna comica di aver regnato per nulla"[40]. Si deve a Gilles Deleuze la formulazione di una nuova immagine del pensiero[41]che rappresenta una vera e propria estetica della sparizione, "diventare impercettibile, fare rizoma e non mettere radici"[42], profondamente ispirata dalla filosofia stoica: "Un amore per la vita che può dire di sì alla morte. Tale è il passo propriamente stoico"[43]. Si può dire che tutta l'opera di Deleuze fosse mossa dalla preoccupazione o, meglio, dall''ossessione' di non scrivere nulla che non apparisse profondamente vitalista: " Nell'atto di scrivere c'è il tentativo di fare della vita qualcosa di più che un fatto personale, di liberare la vita da ciò che la imprigiona. L'artista o il filosofo hanno spesso una salute fragile, un organismo debole, un equilibrio malfermo.Ma non è la morte che li spezza, è bensì l'eccesso di vita che hanno vissuto, provato, pensato"[44]. La scrittura svolge, rispetto alla vita, lo stesso ruolo che svolge la contro - effettuazione nei confronti dell'evento: si tratta sempre, nell'uno e nell'altro caso, di liberarne la parte immacolata. E anche nel suicidio di Deleuze non è la morte che ha spezzato il filosofo, ma un eccesso di vita: " Solo gli organismi muoiono, mai la vita"[45]. Se ne dovrebbero ricordare quelle creature del risentimento che alla morte di Deleuze gioirono meschinamente per la misera fine del filosofo che aveva esaltato la vita. La bassezza d'animo non è degna di memoria, e costoro non faranno eccezione: " La bassezza è sempre legata al proprio tempo, all'impeto del presente, all'attualità in cui si incarna e agisce; questo.spiega perché il filosofo vada sempre contro il proprio tempo"[46]. Il grande filosofo è inseparabile, secondo Deleuze, dal grande stile: " C'è stile quando le parole producono un lampo che va dalle une alle altre, anche lontanissime"[47]. Grande filosofia e grande stile sono le condizioni trascendentali affinché si possa cogliere la natura dell'evento, " il solo concetto filosofico capace di destituire il verbo essere e l'attributo"[48]; per questo Deleuze può dire che " l'individuazione non è necessariamente personale"[49]e parlare di 'ecceità' riprendendo la terminologia medioevale di Duns Scoto"[50]. Cogliere l'evento significa anche prendere le distanze dalla società dello spettacolo e dai media che " cercano qualcosa di spettacolare, mentre l'evento è inseparabile dai tempi morti.il più comune degli eventi fa di noi un veggente, mentre i media ci trasformano in semplici spettatori passivi, al massimo in voyeur"[51]. E' un tema, questo, che avvicina sensibilmente Deleuze a Debord, così come la questione del 'divenire impercettibile': " Sento che si avvicina il tempo di una clandestinità per metà volontaria e per metà coatta, che sarà il desiderio più nuovo - anche politico"[52]; siamo vicinissimi a quella forma paradossale di estetica della sparizione che in Debord assume i contorni dell'iconoclastia[53], " con la precisa intenzione di nuocere alla società spettacolare"[54]. Ma c'è ancora un altro motivo,tipicamente deleuziano, che consuona con la filosofia di Debord; quello del nomadismo, inteso come 'controfilosofia' e 'macchina da guerra':" Il nomade, tuttavia, non per forza è qualcuno che si muove: esistono anche viaggi sul posto, viaggi in intensità, e persino sotto il profilo storico i nomadi non sono tanto coloro che emigrano di continuo, quanto coloro che non si muovono, che fanno opera di nomadismo restando sul posto, senza farsi inghiottire dai codici"[55].Queste parole rappresentano già una risposta ai problemi che pone, secondo Debord, un mondo globalizzato, " falsificato e garantito spettacolarmente"[56]; se, infatti, " in un mondo unificato , non ci si può più esiliare"[57], si possono sempre compiere dei viaggi in intensità, come dice Deleuze, dei viaggi sul posto che sono la contro - effettuazione del 'movimento' voluto dal sistema, finalizzato a ridurre i suoi lacchè a " salariati poveri che si credono proprietari, ignoranti mistificati che si credono istruiti e morti che credono di votare"[58]. Si è potuto parlare, a proposito di Debord, di "un'estetica della sconfitta, quasi che ogni successo contenga un elemento di insopprimibile volgarità"[59]. E' giusto, a patto che si consideri questa estetica della sconfitta come parte integrante di una più vasta strategia finalizzata a combattere la società spettacolare, che ha costretto Debord a condurre " un'esistenza oscura e inafferrabile"[60]. Le dichiarazioni di Debord a questo proposito sono perentorie: " Si sa che questa società firma una sorta di pace con i suoi nemici più dichiarati, quando attribuisce loro un posto nel suo spettacolo. Ma giustamente io sono il solo, di questi tempi, ad avere una certa fama clandestina e cattiva, che non si sia riusciti a fare apparire su quella scena della rinuncia"[61]; " sono stato naturalmente io a rifiutare, in tutti i modi possibili, di acconsentire a riconoscere l'esistenza di questa gente che cominciava, pera così dire, a riconoscere qualcosa della mia.Quanto alla società, i miei gusti e le mie idee non sono cambiati, restando perfettamente opposti a quello che era come a tutto ciò che annunciava di voler diventare"[62], e non possono, certamente, essere ridotte ad una qualche forma compiaciuta di rinuncia. E' piuttosto il nietzscheano 'pathos della distanza' ad animare il discorso di Debord ed a fare di lui " la personificazione del 'grande stile'"[63]: "La mia cerchia è stata composta solo da quelli che sono venuti da sé, e hanno saputo farsi accettare. Non so se esista un altro che abbia osato comportarsi come me, in questa epoca. . Bisogna anche riconoscere che la degradazione di tutte le condizioni esistenti è appunto apparsa allo stesso momento, come per dare ragione alla mia follia singolare"[64]. Ma a fianco di questo Debord, sobriamente impegnato nel sabotaggio della società spettacolare, ne esiste un altro, un suo 'doppio', che come a confermare le parole di Deleuze: "Tutto ciò che fu buono e grande nell'umanità entra ed esce da essa in gente pronta a distruggersi da sé"[65], si dedica al proprio annientamento attraverso l'abuso di bevande alcooliche: " Fra il piccolo numero di cose che mi sono piaciute, e che ho saputo ben fare, bere è senza dubbio quella che ho saputo fare meglio. Sebbene abbia molto letto, ho bevuto di più. Ho scritto molto meno della maggior parte di quelli che scrivono; ma ho bevuto molto più della maggior parte di quelli che bevono"[66]. E ancora, con stupita incredulità sorretta da una punta di orgoglio: " Trent'anni,e più, sono trascorsi senza che mai un malcontento citasse il mio amore per la bottiglia come un argomento, almeno implicito, contro le mie idee scandalose.Non ho mai pensato un istante di celare questo lato forse contestabile della mia personalità, ed esso è stato chiaro per tutti coloro che mi hanno incontrato più di una volta o due"[67]. Le vie del vino sono infinite e ci si può anche perdere; Debord lo sapeva: " Ho amato dapprima, come tutti, l'effetto della leggera ebbrezza, poi molto presto ho amato quel che è al di là della violenta ebbrezza, quando si è oltrepassato questo stadio: una pace magnifica e terribile, il vero gusto del passaggio del tempo"[68]. E' ancora Deleuze che chiarisce il fenomeno della percezione del tempo nell'alcoolismo: " L'alcoolismo non appare come la ricerca di un piacere, bensì di un effetto. Tale effetto consiste principalmente in ciò: uno straordinario indurimento del presente"[69], una dilatazione del presente che costituisce una presa di distanza dal passato e dal futuro, un vero e proprio " effetto di fuga"[70]non privo di conseguenze imbarazzanti: " Avrei avuto ben poche malattie, se l'alcool non me ne avesse alla lunga procurata qualcuna: dall'insonnia alle vertigini, passando per la gotta.Vi sono mattini commoventi ma difficili"[71]Comunque, anche in Debord, alla fine " prevale l'atteggiamento stoico di accettazione del presente e del passato"[72], una sorta di autosufficienza nei confronti del mondo: "Il leopardo muore con le sue macchie, e io non mi sono mai proposto, né mi sono creduto capace, di migliorarmi"[73]. Nella società dello spettacolo, come Debord ben sapeva, qualsiasi azione che non sia improntata ad un'estetica della sparizione, è vana: " Bisogna dunque ammettere che non c'erano né successo né fallimento per Guy Debord e per le sue pretese smisurate.Per me non ci sarà né ritorno né riconciliazione. La saggezza non arriverà mai"[74]. Come si è cercato di mettere in luce nelle pagine precedenti, l'estetica della sparizione è fondata sia sulla ripresa di alcuni motivi di derivazione stoica sia su una visione tragica dell'esistenza sostanzialmente riconducibile alla filosofia di Nietzsche. Proprio Mishima, l'unico tra gli autori presi in considerazione il cui rapporto con Nietzsche non sia esplicito, ha confermato tale legame: " A proposito però del mio rapporto con Nietzsche, dei suoi scritti quello che preferisco è La nascita della tragedia. Non ho trovato altra opera più piacevole e vibrante. Penso di averne subito inconsapevolmente una grandissima influenza."[75]. Il tragico, non a caso, è il vero nodo irrisolto del pensiero di Nietzsche, e getta una luce sinistra su tutta l'opera del filosofo tedesco: " La danza infinitamente gioiosa di Dioniso è, anche e soprattutto, una danza di morte: lo è negli scritti giovanili pubblicati postumi, e lo è negli ultimi frammenti e nelle ultime lettere"[76], ed è anche l'aspetto meno presente nella versione edulcorata che di esso viene diffusa attraverso il 'pensiero debole'[77], non per niente impegnato a rimuovere il lato più inquietante della filosofia di Nietzsche, quello che liquida in un sol colpo scienza e democrazia, ritenute responsabili della fine della tragedia e dell'inizio della decadenza europea[78]. L'estetica della sparizione, contrariamente al 'pensiero debole', implica un'etica che come tale è fornita di un suo imperativo categorico: agisci in modo da non alimentare mai l'"immensa accumulazione di spettacoli"[79]che informa la vita delle società dominate dalle moderne condizioni di produzione. L'estetica della sparizione, del resto, con tutta la densità semantica attribuita sin qui al verbo sparire, rappresenta l'unico imperativo categorico proponibile in una società dominata dal feticismo dell'immagine nonché la possibilità, forse, di sfuggire a quella 'metafisica della presenza' che,secondo Heidegger,[80]ha segnato il destino dell'Occidente a partire da Platone fino alla Tecnica planetaria dei giorni nostri.
Bruno Bonansea Luglio 2003

[1] cfr. P. Virilio, Estetica della sparizione, Liguori Editore, Napoli, 1992; per Virilio l'estetica della sparizione descrive l'attuale derealizzazione dell'esperienza derivante dall'alienazione tecnologica.
[2] P. Veyne, E' possibile una morale per Foucault?, aut aut, n° 208, 1985, pag. 54
[3] cfr. G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Baldini & Castoldi,Milano, 1997, pag. 194
[4] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, Feltrinelli, Milano, 1980, pag. 159
[5] G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, Oscar Mondadori, Milano, 1998, pag. 48
[6] M. Foucault, L'uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 93
[7] P. Veyne, cit., pag. 51
[8] P. Veyne, cit., pag. 52
[9] P. Veyne, cit., pag. 52
[10] G. D'Annunzio, Il piacere, Libro primo, cap. II, in AA.VV. La scrittura e l'interpretazione, Palumbo Editori, Palermo, 2001, vol. III, pag. 523. L'accostamento a D'Annunzio può suscitare perplessità solo presso quanti non considerino gli esiti apertamente nichilistici dell'opera del poeta pescarese; a questo proposito, basti richiamare i versi conclusivi della poesia "Qui giacciono i miei cani": Ogni uomo nella culla / succia e sbava il suo dito / ogni uomo seppellito / è il cane del suo nulla ; in G. D'Annunzio, Versi d'amore e di gloria, vol. I, in AA.VV. cit., pag. 515
[11] M. Foucault, cit., pag. 95
[12] P. Veyne, cit., pag. 48
[13] P. Veyne, cit., pag. 50
[14] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Arnoldo Mondatori Editore, 1981, pag. 174
[15] G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano, 1987, pag. 97
[16] P. Veyne, cit., pag. 54
[17] Furubayashi T., Kobayashi H., Le ultime parole di Mishima, Feltrinelli, Milano, 2001, pag. 33
[18] F. Saba Sardi, introduzione a Mishima Y., La via del samurai, Bompiani, Milano, 1987, pag., 16
[19] cfr. F. Saba Sardi, cit., pag. 14
[20] F. Saba Sardi, cit., pag. 14. Una simile concezione del duello come momento euristico assoluto che, attraverso l'istante della lacerazione ci consegna all''Altro' nello stesso tempo in cui lo possediamo, è rinvenibile nel combattimento fra Tancredi e Clorinda ne "La Gerusalemme liberata" del Tasso. Cfr. T. Tasso, La Gerusalemme liberata, XII, 52 - 70, in AA.VV. cit., vol. I, pagg. 127 - 132. Sulla pienezza originaria (perduta) dell'essere, sull'eros e sull'istinto di morte, è doveroso richiamare le osservazioni magistrali di Colli riguardo al mito dell'androgino: "La natura arcaica degli uomini primordiali era piena, forte e tracotante, secondo Aristofane: la loro unità viene spezzata, il loro corpo rotondo è diviso in due metà da Zeus, che difende la sua potenza. L'eros è nostalgia di quella pienezza perduta, è il desiderio.del fondo metafisico che sta dietro la nostra vita, da cui questa zampilla. L'eros esprime l'inadeguatezza, l'impotenza dell'uomo spezzato, l'impulso a spegnere l'individuazione. Istinto di morte, però, se quella che possediamo oggi è vita, ma piuttosto di vita, se quello che siamo è scadimento, frammentazione, insufficienza, insomma morte, secondo l'insegnamento dionisiaco ed eleusino"; G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1981, pagg. 73 - 74
[21] cfr. F. Saba Sardi, cit., pag. 10
[22] cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Felrinelli, Milano, 1990, pagg. 54 - 60
[23] J. Baudrillard, cit., pag. 55
[24] J. Baudrillard, cit., pag. 56
[25] J. Baudrillard, cit., pag. 56
[26] Del resto, è lo stesso Mishima a dichiarare la sua affinità con il comitato di lotta universitaria zenkyoto: "Capivo che la loro idea di democrazia diretta e la mia idea di rivoluzione sotto il vessillo imperiale erano estremamente vicine"; Furubayashi T., Kobayashi H., cit., pag.46
[27] J. Baudrillard, cit., pag. 56
[28] J. Baudrillard, cit., pag. 60
[29] cfr. M. Vegetti, Filosofia antica, in AA.VV., Filosofie e società, Zanichelli, Bologna, 1992, pag. 310: "C'è una formula stoica che esprime in tutta la sua nettezza la disposizione interna cui si tratta di pervenire: si tratta di 'volere ciò che accade' (compresi eventi come la nostra morte)"
[30] cfr. Mishima Y., cit., pag. 38. Come spiega Mishima, la parola Hagakure vuol dire letteralmente 'nascosto tra le foglie', ma nel corso degli anni si è innescata una querelle filologica circa il significato autentico da attribuire ad essa, senza peraltro raggiungere delle conclusioni soddisfacenti. Tra le tante ipotesi possibili, c'è anche quella secondo cui tale vocabolo evocherebbe l'atmosfera di una poesia (che vale la pena menzionare) di Saigyo, monaco - poeta vissuto nel XII secolo: Nei pochi fiori che ancora indugiano, / nascosti tra le foglie, / mi par di sentire / la presenza di colei / per la quale in segreto languisco. Cfr. Mishima Y., cit., pagg. 63 - 64
[31] Mishima Y., cit., pag. 110
[32] cfr. P. Veyne, cit., pag. 47
[33] G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 134
[34] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 151
[35] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 134
[36] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 134
[37] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 144
[38] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 135.
[39] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 137
[40] La frase di Bousquet è riportata da Deleuze in Logica del senso, cit., pag. 135
[41] cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002, pagg. 154 - 165 e G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino, 1986, pagg. 87 - 94
[42] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 295
[43] G. Deleuze, C. Carnet, cit., pag. 76
[44] G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata, 2000, pag. 190
[45] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 190
[46] G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pag. 160
[47] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 187
[48] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 188
[49] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 188
[50] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 188. « Per Duns Scoto.ogni cosa di cui si possa dire hic, haec, hoc è tale in virtù della sua haecceitas, ove l'haecceitas dei singoli elementi che concorrono a formare un tutto.non sacrifica l'unità sostanziale del tutto", L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. I, Garzanti, Milano, 1977, pag. 465
[51] G. Deleuze, Pourparler, cit., pagg. 211 - 212
[52] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 19
[53] cfr. M. Perniola, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna, 1983, pagg. 169 - 170
[54] G. Debord, Avvertenza,in La società dello spettacolo, cit., pag. 33
[55] G. Deleuze, Pensiero nomade, in Nietzsche e la filosofia, cit., pag. 322
[56] G. Debord, Avvertenza, cit., pag. 32
[57] G. Debord, Panegirico, Castelvecchi, Roma, 1996, pag. 38
[58] G. Debord, In girum imus nocte..., cit., pag. 9
[59] M. Perniola, Disgusti, Costa &Nolan, Milano, 1998, pag. 166
[60] G.Debord, In girum imus nocte., cit., pag. 64
[61] G. Debord. In girum imus nocte..., cit., pag. 62
[62] G. Debord. Panegirico, cit., pag. 20
[63] M. Perniola, Disgusti, cit., pag. 156
[64] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 19
[65] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 144
[66] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 29
[67] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 30
[68] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 30
[69] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 141
[70] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 142
[71] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 32
[72] M. Perniola, Disgusti, cit., pag. 167
[73] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 20
[74] G. Debord, In girum imus nocte., cit., pag. 72
[75] Furubayashi T., Kobayashi H., cit., pag. 17
[76] S. Givone, Introduzione a Nietzsche, Verità e menzogna e altri scritti giovanili, Newton, Roma, 1995, pag. 26
[77] cfr. G. Vattimo, Metafisica, violenza, secolarizzazione, in Filosofia '86, a cura dello stesso Vattimo, Laterza, 1987, pagg. 71 -75
[78] cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1981
[79] G. Debord, La società dello spettacolo, cit., pag. 53
[80] cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 1979, pagg. 185 - 210. Secondo Heidegger, la metafisica occidentale è caratterizzata dall'oblio dell''oblio dell'essere', da cui deriva la confusione dell'essere stesso con la 'semplice presenza', lungo un itinerario filosofico che si snoda da Platone a Nietzsche