Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L'uomo e la malvagità

L'uomo e la malvagità

di Francesco Lamendola - 03/07/2007

 

  

 

Ci siamo occupati, in altra sede, di un argomento assai più gradevole: L'uomo e la bontà. Non eravamo però arrivati a stabilire un vero e proprio principio, a decidere la millenaria questione dell'ottimismo e del pessimismo antropologico. L'uomo è incline a fare il bene, come voleva Socrate? E, se invece compie il male, ciò avviene perché non ha saputo comprendere quale fosse il vero bene? Oppure è vero il contrario e, per dirla con Machiavelli, l'uomo è tristo per natura, e solo il timore delle sanzioni lo trattiene dall'abbandonarsi ai suoi peggiori istinti? L'uomo è un lupo per gli altri uomini (Hobbes) oppure la benevolenza, la misericordia, l'altruismo verso i suoi simili (e verso gli altri viventi) gli sono connaturati,  solo le storture dell'educazione e della società lo allontanano dalla via del bene?

Nel "secolo dei Lumi", il XVIII, in Europa prevaleva quest'ultima interpretazione. Rousseau insegnava che è la società a corrompere gli esseri umani e che un'educazione semplice e naturale, a contatto con la natura e lontano dai cattivi influssi (come nel suo capolavoro pedagogico, l'Émile) può ritrovare l'innocenza originaria. Nasceva così, sulla scorta di questo inguaribile ottimismo antropologico, il mito del "buon selvaggio", proprio in coincidenza con i grandi viaggi di esplorazione nelle terre lontane e mai prima toccate dalle navi europee, come ad esempio le isole dell'Oceania. Il resoconto del viaggio intorno al mondo di Bougainville faceva impazzire i salotti parigini con i racconti della felice umanità immersa in una natura primigenia ed amichevole, laggiù fra cielo e mare, negli arcipelaghi della Polinesia, che parlavano di uomini e giovani donne straordinariamente belli e sani, immersi in una vita dolce e spensierata, che dispensa spontaneamente ogni sorta di frutti: quasi una resurrezione dell'antico mito della perduta Età dell'oro, se non addirittura del Paradiso Terrestre. Il quadro piaceva ai philosophes alla moda con le loro parrucche incipriate e piaceva, ancor più, alle eleganti damine che costituivano la presenza mondana e indispensabile delle loro riunioni nei palazzi dell'aristocrazia "progressista", le stesse che andavano pazze per le Lettere persiane di Montesquieu o per il Candide di Voltaire, ma che sospiravano soprattutto leggendo Paul et Virginie di Bernardin de Saint Pierre e, più tardi, Atala e René di Chateaubriand. Ed era un quadro che piaceva così tantoda sospingere re Luigi XVI, alla vigilia ormai della Rivoluzione, ad approntare la costosissima spedizione scientifica di La Pérouse nei mari del Sud, non per conquistare nuove terre con la violenza e l'ingiustizia, ma per studiare l'uomo e la natura di quei paradisi tropicali e, forse, per ricoprire qualcosa delle nostre stesse origini di figli ormai corrotti della civiltà. Ma la spedizione di la Pérouse, dopo una brillante circumnavigazione del Pacifico, andò incontro a un oscuro destino: le sue due navi, la Boussole e l'Astrolabe, fecero naufragio in qualche oscura circostanza e non se ne seppe più nulla. Si dice, e pare proprio che non sia una leggenda, che mentre veniva condotto al patibolo Luigi XVI, che aveva sempre cercato di ricevere qualche indizio della sua sorte, domandasse semplicemente: «Non si è saputa alcuna novità di La Pérouse?»: tale era la presa di quei miti dolcissimi dei mari del Sud e del cosiddetto "buon selvaggio", uniti a quell'altro mito formidabile che durava da tre secoli e che proprio allora il capitano James Cook stava impietosamente demolendo: il mito della favolosa Terra Australis Incognita, il leggendario continente, abitato da indigeni civili e popoloso di città ben costruite, che avrebbe occupato una vastissima porzione dell'emisfero meridionale, dalle medie latitudini fino al Polo Antartico.

In tale idilliaco contesto si colloca uno dei più foschi episodio della storia delle esplorazioni nell'Oceano Pacifico: il massacro della spedizione del francese Marion Dufresne (o Du Fresne), che nel 1771-72 si era portata con due navi, la Mascarin e la Marquis-de-Castries,, via Capo di Buona Speranza, nella Nuova Zelanda, per prenderne possesso in nome del suo re e fondarvi una nuova promettente colonia, la cosiddetta Francia Australe. Scrive il de La Roncière nel suo bellissimo volume La scoperta della Terra:

 

 

"I rapporti di Marion con gli indigeni della Nuova Zelanda sembravano dei più cordiali. Talvolta essi venivano a dormire a bordo dove il loro gran capo, Tacury [ma la trascrizione esatta dal polinesiano è piuttosto Te Kuri, nota nostra], aveva perfino lasciato per un certo periodo suo figlio; in un'isoletta della baia [oggi nota come baia delle Isole, sul versante settentrionale dell'Isola del Nord] era stato installato un ospedale e, in una foresta di cedri, era stato creato un cantiere per rifare gli alberi delle navi.  Improvvisamente, il 12 giugno 1772, avvenne una catastrofe. Illuso da un'ingannevole sicurezza, Marion era sbarcato con sedici uomini che si erano sparpagliati per l'isola per raccogliere legna [in realtà, come vedremo, per partecipare a una grande battuta di pesca organizzata dai loro ospiti]. I Maori aspettavano quest'occasione per assalirli isolatamente. Uno solo sfuggì alla carneficina, nascondendosi fra la sterpaglia, e diede l'allarme a bordo. Egli aveva visto aprire il ventre dei suoi disgraziati compagni e frantumare il loro cranio con la pesante mazza tagliente chiamata patù-patù. I selvaggi estraevano dal cranio il cervello, considerato cibo delizioso, e bevevano  il sangue delle vittime per propiziarsi il loro idolo."(1)

 

Ma per comprendere meglio con quale diabolica perfidia e con quanta incredibile dissimulazione il capo Maori e i suoi uomini avessero preparato l'agguato ai danni dei loro fiduciosi ospiti, agguato che Dante avrebbe punito nel più profondo dell'Inferno e, precisamente, nella Tolomea (la penultima bolgia del IX Cerchio, ove sono eternamente puniti i traditori degli ospiti che si fidano), è bene apprendere qualche ulteriore particolare su questo episodio. Per fare ciò, ricorriamo alla dettagliata e drammatica ricostruzione fatta dallo scrittore Angelo Solmi nel suo volume Gli esploratori del Pacifico, secondo di una trilogia comprendente anche I conquistatori degli oceani e Tragedie e vittorie tra i ghiacci.

 

"In apparenza i Maori fecero ai Francesi un'accoglienza molto amichevole: Te Kuri, il capo più importante della zona, accolse subito l'invito a venire a bordo  e, anzi, pranzò e dormì sulla Mascarin. Viste le buone disposizioni degli indigeni, Marion decise di sistemare l'alberatura della Mascarin, e di cambiare addirittura quella della Castries, molto malandata L'11 maggio le due navi ormeggiarono più vicine a riva tra l'isola di Moturua, che chiude la baia, e una penisola stretta e sporgente dalla terraferma, su cui sorgevano numerosi villaggi maori, tutti sotto l'autorità di Te Kuri.

"Per compiere i lavori previsti vennero posti a terra tre campi: uno sull'isola di Moturua, non lontano da un folto gruppo di capanne indigene; un secondo sulla spiaggia di una penisola nel fondo della baia, che fronteggiava l'altra penisola abitata dai Maori di Te Kuri, e un terzo nell'intero, nel mezzo di una foresta ove sorgevano altissimi cedri, che dovevano servire per l'alberatura della Castries. Quest'ultimo accampamento era a una decina di chilometri  a sud del punto in cui le navi erano all'ancora e intorno ad esso fu organizzato da Crozet  un cantiere con sessanta uomini per abbattere i tronchi e prepararli per la Castries.  Il campo costiero serviva come base di raccordo  tra le navi e il campo della foresta, situato com'era a mezza strada, mentre il campo sull'isola (il più a nord di tutti), comandato dal luogotenente Roux, era adibito a luogo di riposo per gli ammalati, ma soprattutto doveva assicurare il rifornimento d'acqua, che sorgeva freschissima da numerose sorgenti.

 

"IL RACCONTO DELL'UNICO SUPERSTITE

"Tutto pareva procedere benissimo e la familiarizzazione con gli indigeni era tanto stretta che i Maori, oltre a inviare spesso nei loro villaggi gli ufficiali, accolti da grandi manifestazioni di gioia, aiutavano i marinai francesi al lavoro nella foresta, mostrando un'ammirevole buona volontà. All'inizio Marion aveva disposto che tutte le scialuppe andassero a erra solo con una scorta armata: ma, crescendo ogni giorno di più l'amicizia con i Maori, questa misura gli parve una prova di sfiducia e stabilì di disarmare le scialuppe, nonostante le vive proteste di Crozet [il comandante in seconda della nave ammiraglia, la Mascarin: nota nostra]per natura assai più diffidente. Te Kuri, da parte sua, era diventato infaticabile: aveva portato suo figlio a bordo, lasciandovelo per alcuni giorni: aveva organizzato una festa in onore di Marion, riconoscendolo come 'grande capo' di tutto il paese, col diritto di portare quattro piume bianche sui capelli.

"Qualche piccola frizione si produceva ogni tanto tra Francesi e Maori; e come non tutti i Maori erano così cordiali come Te Kuri, così non tutti i Francesi erano fiduciosi come Marion. In particolare, oltre a Crozet, anche Roux [un giovane ufficiale della Mascarin che tenne un preciso resoconto della spedizione e che è la nostra terza fonte, dopo i diari di bordo di Crozet e di Duclesmeur, il comandante della Marquis de Castries: nota nostra] aveva espresso al comandante la sua preoccupazione per certi episodi accaduti sull'isola di Moturua, dove gli indigeni spiavano di continuo l'accampamento e dove erano state raccolte voci poco rassicuranti che correvano intorno al futuro dei bianchi.  Marion, però, l'aveva messo a tacere, ricordandogli, tra l'altro,  come pochi giorni prima Vaudricourt, un giovane ufficiale che, disarmato, si era smarrito nella foresta, era stato premurosamente aiutato a ritrovare  la via da alcuni Maori: se costoro avessero avuto davvero cattive intenzioni, avrebbero assalito i Francesi isolati, invece di render loro dei servigi. E così, senza il minimo sospetto, Marion continuò a scendere a terra per far visita all'amico Te Kuri.

"Quest'ultimo per il 12 giugno aveva organizzato una grande partita di pesca nelle acque vicine ai suoi villaggi; per l'occasione, disse, avrebbe invitato altri sei capi e quindi sarebbe stato lieto se Marion avesse portato parecchi dei suoi uomini. La mattina di quel giorno Marion s'imbarcò sul canotto che batteva la sua insegna di comando: lo seguivano due giovani ufficiali - Vaudricourt e Lehoux -, un 'volontario' e tredici marinai, compreso il capo- fuciliere che però era disarmato come tutti gli altri. Dalle navi fu visto il canotto sparire verso la costa: la sera Marion non tornò, ma nessuno si preoccupò. Si pensò che il comandante e i suoi sedici uomini fossero stati trattenuti a dormire in casa di Te Kuri, oppure che Marion si fosse recato a visitare Crozet al cantiere nella foresta, poiché qualche tempo prima ne aveva espresso l'intenzione.

"Alle nove del giorno dopo la vedetta del Mascarin vide un uomo che nuotava disperatamente verso le navi lanciando ogni tanto altissime grida. In fretta e furia fu calata la scialuppa, che lo raccolse esausto e sanguinante: era uno dei marinai che avevano accompagnato Marion, l'unico superstite dei Francesi scesi a terra. Appena si fu riavuto raccontò la tragica avventura a Duclesmeur e ai compagni stretti ansiosamente intorno a lui.

"Disse che, prima di sbarcare, una folla di Maori si era fatta avanti caricandosi gli ospiti sulle spalle perché non si bagnassero: una volta a terra erano stati divisi in tante capanne dove erano stati imbanditi sontuosi banchetti. A un tratto i Maori si erano lanciati su di loro trafiggendoli a colpi di lancia: mentre da ogni parte si udivano grida di moribondi e il sangue colava a fiotti, il marinaio (ferito e ritenuto morto) riuscì a trascinarsi all'aperto lasciandosi cadere in un cespuglio. Di lì fu testimone di scene spaventose: i Maori, spogliati i cadaveri dei Francesi, ne indossarono le divise, poi squartarono i corpi e li fecero a pezzi. L'unico sopravvissuto, alle prime luci del giorno, mentre gli indigeni erano intenti a un orrendo pasto con le carni dei compagni, riuscì a strisciare fino alla spiaggia, gettandosi in mare.

 

"UN LUGUBRE RITORNELLO DI MORTE.

"Occorre dire che, in una circostanza così drammatica, Duclesmeur [nonostante la giovane età - aveva circa 23 anni - e le critiche violente riservategli da Roux nella sua relazione sull'accaduto: nota nostra], Duclesmeur si comportò molto bene. Respinto ogni incitamento a una vendetta immediata, disse che invece bisognava preoccuparsi della salvezza degli uomini dispersi nei tre campi, soprattutto di quelli del campo nella foresta, il più lontano e il più esposto agli agguati. Perciò mandò subito una scialuppa con un ufficiale e un distaccamento di soldati ad avvisare Crozet. Al tempo stesso mandò un'altra scialuppa verso i villaggi maori ove era avvenuto l'eccidio, perché, se qualcun altro si fosse salvato, potesse essere soccorso: raccomandò peraltro di tenere i fucili pronti e di non avvicinarsi troppo a riva. L'imbarcazione tornò poco dopo e il suo equipaggio riferì che i Maori, in preda a folle eccitazione, stavano saccheggiando il canotto di Marion: alcuni di essi erano grottescamente vestiti con le divise francesi e non c'era traccia di superstiti.

"La pattuglia diretta all'accampamento della foresta arrivò appena in tempo, poiché i Maori stavano già occupando le alture circostanti. Crozet non comunicò ai suoi uomini la notizia del massacro, ma ordinò di incendiare le baracche e cominciò a ripiegare verso la costa; i Maori lo seguivano, scandendo in coro un lugubre ritornello: «Te Kuri mate Marion», ossia: «Te Kuri ha ucciso Marion». Lungo tutto il cammino nel bosco, però, non osarono attaccare perché i Francesi erano numerosi, oltre settanta uomini, ai quali, sulla costa, si unirono quelli dell'altro campo. Tutti salirono sulle scialuppe che, non appena cominciarono a muoversi, furono bersagliate con un fitto lancio di pietre: Crozet allora ordinò ai quattro miglior tiratori di aprire il fuoco sugli indigeni. Caddero parecchi tra gli assalitori, e anche alcuni capi, distinguibili per il loro vistoso abbigliamento: il panico si impadronì dei Maori che, non conoscendo ancora l'uso delle ari da foco, si dispersero urlando. Una volta a bordo, Crozet decise con Duclesmeur [i due ufficiali erano di pari grado, nell'ambito della spedizione: nota nostra] di far sgombrare il campo sull'isola di Motorua: Roux, che lo comandava, prima di imbarcarsi fece uccidere i capi del villaggio, incendiò tutte le capanne indigene e disperse a baionettate i Maori che le abitavano.

"La situazione, tuttavia, era sempre critica perché la Castries, ancora senza alberatura, non poteva muoversi: con molte precauzioni e impiegando tutti i fucilieri disponibili, si dovettero continuare ancora per quattro settimane i lavori nella foresta. Ma i Maori non osarono più attaccare: un paio di volte, invece, parecchie piroghe tentarono di avvicinarsi alle piroghe, ma furono respinte a cannonate. Finalmente, a metà luglio, la Castries era pronta ma, prima di spiegare le vele, un grosso distaccamento di soldati venne sbarcato nel luogo in cui era avvenuto l'eccidio. Te Kuri si diede alla fuga, col mantello di Marion sulle spalle, e i soldati visitarono tutte le capanne: in quella di Te Kuri furono trovati un cranio roso fino all'osso, la camicia insanguinata di Marion e le pistole del luogotenente Vaudricourt. Un po' dovunque, però, c'erano resti umani, a cui fu data sepoltura, e tracce del massacro e dei festini cannibaleschi che l'avevano seguito. I villaggi abbandonati di Te Kuri vennero raso al suolo e, il 17 luglio 1772, la Mascarin e la Castries levarono le ancore…" (2)

 

Questi sono i fatti.

Quei filosofi che nutrono interesse per una definizione della natura umana riguardo alla sfera dell'etica, ci sembra che hanno ampia materia di riflessione davanti a un evento del genere. In questa non ci interessa stabilire se il primato della violenza, parlando in generale,  spetti ai bianchi o ai Polinesiani ad altre popolazioni extra-europee; né ci interessa stabilire una graduatoria delle atrocità, ove Auschwitz ed Hiroshima dovrebbero "gareggiare" con il cannibalismo dei Maori o il fanatismo omicida dei Thugs, nell'India di metà Ottocento. Sappiamo bene che i bianchi, oltre a disporre di un tecnica molto superiore, hanno commesso crimini innumerevoli nei confronti degli altri popoli, spingendosi talvolta fino al crimine supremo, il genocidio; così come sappiamo che, non di rado, essi hanno preso a pretesto singoli fatti di violenza, di cui furono vittime cittadini occidentali, per imporre un giogo pesantissimo alle comunità o agli Stati extra-.europei, nell'epoca del colonialismo. Ma non è di questo che intendiamo occuparci, in questa precisa sede, così come non ci interessa molto la polemica, esplosa anche fra diversi settori del mondo cattolico, pro o contro un film recente come Apocalypto di Mel Gibson: per gli uni, reo di denigrare la civiltà maya (3) e, per altri, onesta rappresentazione di riti pagani, comunque assai meno diseducativa di film e  programmi televisivi considerati "normali".

Quello che ci interessa, in questa sede, è il male rappresentato dalla condotta di Te Kuri, quella forma di doppiezza e di ferocia che porta un essere umano a ingannare un altro, illudendolo circa la sua buona fede e profanando orribilmente il sentimento dell'amicizia, per poi tendergli il più vile dei tranelli. Il pasto cannibalesco con il cranio e con le carni della vittima non è che il sinistro  coronamento della condotta precedente e, nonostante le scene truculente e orride che essa evoca, degne del conte Ugolino e dei più raccapriccianti episodi dell'Inferno dantesco, non vi aggiunge che un orrore puramente materiale, L'orrore morale è già tutto racchiuso in quella prolungata e diabolica dissimulazione, in quel carpire l'altrui fiducia giungendo ad affidargli, inerme, il proprio figlio, in modo da far leva sul sentimento dell'onore e della lealtà, per poi colpire a tradimento l'ospite che si fida, come nelle pagine più cupe della mitologia antica e della letteratura greca e latina; ma con questo di più di malvagità: il bearsi dell'atto compiuto, del delitto consumato; il gioire del male compiuto e il vantarsene come di una grande gloria. E, inoltre, la condivisione di tale disposizione psicologicae morale da parte dell'intera tribù, con quel lugubre ritornello scandito tutto intorno ai Francesi in ritirata nella foresta (simile, appunto, a un luogo dantesco di angoscia e dannazione): «Te Kuri mate mario,, Te Kuri mate Marion». Come direbbe san Paolo: si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, e «non solo continuano a commettere» le colpe più gravi, «ma anche battono le mani a tutti quelli che si comportano come loro». (5)

Il buon vecchio Dizionario Palazzi, alla voce malvagio, recita: «che ha perversa disposizione a fare il male»: e cosa può esservi di più malvagio di questa incredibile capacità di dissimulare, di giocare sulla buona fede dell'altro, di sfruttare a proprio vantaggio la nobiltà dei suoi sentimenti (quel presentarsi disarmato di Marion, per non mostrare sfiducia verso gli indigeni), per poi sorprenderlo quando meno se lo aspetta, violando la sacralità di una invito amichevole? Qui noi vediamo all'opera qualche cosa di molto vicino alla malvagità allo stato puro: il gusto del male per il male, dunque il Male con la m maiuscola. Del resto, che cosa significa «che ha perversa disposizione a fare il male»? Significa non semplicemente essere in grado di praticare il male («di entrarvi, se necessitato», come direbbe Machiavelli), ma l'attitudine a compierlo abitualmente e con compiacimento: e ciò è veramente satanico.

Ora, la domanda è: esistono degli esseri umani (a parte i casi patologici, ovviamente) che possiedono una natura siffatta? Che praticano o desiderano il male come linea normale e abituale di condotta, e per giunta se ne compiacciono? Che godono, puramente e semplicemente, di fare il male del prossimo: non solo e non tanto per ricavarne un vantaggio, di qualunque genere esso sia, ma anche e soprattutto per il gusto di fare il male per il male? Esiste, nella natura umana in generale, una simile tendenza; tendenza che, poi, in determinati individui emerge apertamente, ma che si annida nel fondo del cuore di ciascuno, come parte della nostra eredità di Caino? Se sì, allora bisogna ammettere che esistono degli esseri che, di umano, hanno solo l'apparenza, ma in realtà sono demoni; e, inoltre - cosa ancor più inquietante - che un fondo demoniaco si nasconde in fondo a ognuno di noi, e solo una serie di circostanze, magari fortuite, determina il fatto che una simile tendenza si riveli pienamente, oppure che venga contrastata, imbrigliata o sublimata da altri aspetti della nostra psiche.  Socrate, è chiaro, avrebbe negato questa possibilità, o forse l'avrebbe ammessa, ma solo in casi estremamente limitati, laddove l'ignoranza porta l'essere umano a misconoscere totalmente e irrimediabilmente la verità del bene che noi tutti, inconsciamente, desideriamo.

Ci chiediamo, però, che cosa avrebbe pensato Socrate se si fosse imbattuto in un'azione come quella compiuta da Te Kuri e dalla sua tribù ai danni dei suoi ospiti Francesi. Se avesse visto quel cranio rosicchiato, quelle carni abbrustolite, quegli sconci segni di giubilo da parte degli assassini cannibali. Avrebbe continuato a pensare che solo l'incomprensione del bene aveva operato una tale, orribile distorsione dei più elementari sentimenti di giustizia e di benevolenza nei confronti del prossimo?

Una cosa è certa. Se Socrate aveva torto, allora le continue e sconcertanti manifestazioni del male morale cesseranno di apparirci un mistero incomprensibile, per rivelare la loro vera natura di aspetti costituitivi dell'anima umana. Allora diventa chiaro che l'uomo, con le sue sole forze, non è in grado di salvarsi dal male che alberga dentro di sé. O meglio, potranno farlo singoli individui; ma non l'uomo in quanto tale; e, soprattutto, egli non sarà mai del tutto al riparo da quella parte malvagia che alberga in fondo al proprio essere. Abbiamo visto perfino dei bambini commettere efferati atti di crudeltà e perfino rapimenti e omicidi ai danni di bambini più piccoli: ed è accaduto nella "civilissima" Gran Bretagna, ad esempio, pochi anni fa, non fra i cannibali di qualche remota e sconosciuta isola dell'Oceano Pacifico. Proprio uno scrittore inglese, William Golding (1911-1933) che ne era intimamente persuaso: il suo Lord of the Flies (Il signore delle mosche) è un terribile apologo sulla crudeltà innata dei bambini e, quindi, della natura umana.

A questo punto, dobbiamo riconoscere che la pretesa dell'essere umano di essere norma a sé stesso poggia quantomeno su fragili basi ed è, pertanto, un vero e proprio azzardo. Egli, senza dubbio, è capace di compiere il bene; ma può anche scendere la china di un male senza fine, del Male per eccellenza. Non bisogna dimenticare che tale duplice possibilità, di farsi simile a una creatura celeste  o di trasformarsi in un autentico demonio, deriva dal suo status ontologico che è basato sul rischio della libertà. Ci proponiamo di ritornare su questo aspetto della natura umana e del suo mistero; per ora, è sufficiente tener presente che non esiste libertà senza rischio, come ben sapeva Kierkegaard, e che il prezzo da pagare per la possibilità di poter divenire simile a una creatura celeste è precisamente il rischio di poter precipitare nella condizione di demonio. Certo, l'ambiente e l'educazione ricevuta giocano un grosso ruolo nella formazione (o nella distruzione) del nostro senso morale: in una società di cannibali, ove l'inganno e la violenza sono esaltati come modelli positivi di comportamento, non sarà facile ritrovare quella scintilla divina che giace in fondo a noi. Ruth Benedict parlava di modelli culturali e osservava, ad es., che culture come quella dei Dobu delle Isole d'Entrecasteaux, in Melanesia, sono dominate dalla tetraggine, dalla vendicatività e dalla schizofrenia; in esse, ogni individuo vive praticamente nel costante terrore di poter essere derubato, aggredito e ucciso.(6)

E tuttavia vi sono esempi di singoli individui che hanno saputo sottrarsi alle circostanze sociali e morali avverse; ad es., quell'indiano pawnee che salvò la vita di una fanciulla destinata ad essere sacrificata, mediante piccole frecce infuocate, nel corso della cerimonia in onore della Stella del mattino. Al termine del rito, alla sventurata ragazza avrebbe dovuto essere asportato il cuore palpitante, come facevano i sacerdoti aztechi alcuni secoli prima.

"Nel 1818, gli skidi-pawnee stavano celebrando il sacrificio della stella del mattino, quando u giovane capo pawnee a nome Petalesharro, che aveva nascosto due cavalli nei pressi, si slanciò in avanti, recise le funi che legavano la fanciulla, e fuggì al galoppo assieme a lei. Una volta al sicuro dagli inseguitori, le diede il cavallo sul quale montava, una scorta di cibo, e la rimandò a casa, dalla sua gente.

"Petalseharro, quando la notizia giunse a Washington, fu considerato un eroe. Le giovani dame del seminario della signorina White  vollero offrire al giovane una medaglia d'argento accompagnando il dono con la seguente esortazione: «Accetta questo segno della nostra stima, e portalo sempre per amore nostro, e quando ti si offrirà di nuovo la possibilità di salvare una povera donna dalla morte e dalla tortura, pensa a questa medaglia e  a noi, e vola al suo soccorso».

"Tenendo in mano la medaglia, il generoso guerriero rispose: «Questo dono piace al mio cuore. Mi sento come una foglia dopo la tempesta, quando il vento è cessato. Vi ascolto. Sono contento. Amo i visi pallidi più che mai, e tenderò il mio orecchio quando parlano.  Sono contento che abbiate saputo quel che ho atto. Non sapevo che lamia azione fosse così bella. Veniva dal mio cuore. Ignoravo il suo valore. Adesso so quanto fosse bella. Me lo fate sapere voi, dandomi questa medaglia." (7)

 

Resta il fatto che proprio dalla libertà morale di cui dispone, l'essere umano trae quella caratteristica precarietà che lo fa vivere in uno stato di perenne angoscia e insicurezza; a meno che egli non trovi un suo equilibrio guardandosi dentro, e scoprendovi quelle potenzialità divine che possono indirizzare tutto il corso dei suo pensieri verso l'alto. «Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrum observator et custos. (…) Bonus vero vir sine deo nemo est»: così scrive Seneca a Lucilio, «vi è uno spirito divino entro di noi, ossevatore e custode dei nostri mali e dei nostri beni; nessun uomo è buono senza l'aiuto di Dio». Così ragionava un filosofo stoico nella Roma del I secolo, lo stesso che, a proposito della malvagità, affermava: «Si raggiunge il colmo dell'infelicità quando le cose turpi non solo sono gradite, ma procurano un intimo compiacimento; e non c'è rimedio quando quelli che erano sentiti come vizi diventano abitudine quotidiana» (8) Certo, a volte è più difficile scorgere proprio le cose che ci sono più vicine o che sono, addirittura, dentro di noi. Tuttavia quasi tutte le religioni e le culture ammettono che vi sono degli aiutanti, degli spiriti celesti che ci sorreggono nella nostra ricerca del Bene; così come vi sono, per contro,  degli spiriti infernali che vorrebbero sospingerci verso il Male.

L'essere umano è, dunque, un ponte sospeso sull'abisso: un ponte fra Bene e Male, fra opposti destini e opposte realizzazioni delle sue potenzialità spirituali. A lui, in definitiva, l'ultima parola: se vuol tendere alle cose celesti, oltrepassando quasi la sua stessa natura e facendosi una creatura di luce; oppure se vuol scegliere le dimensioni infere, dando libero corso alle sue tendenze distruttive e tramutandosi in una creatura delle tenebre, interamente votata al Male.

 

 

 

NOTE

 

1)       DE LA RONCIÈRE, Ch., La scoperta della Terra, Torino, S. A. I. E., 1958, p. 271.

2)       SOLMI, Angelo, Gli esploratori del pacifico. Da Drake a Cook a La Pérouse, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1985, pp. 130-133.

3)      ZEPEDA GONZALES, Alfredo, Un'apocalisse di bugie, su Popoli. Mensile internazionale dei Gesuiti, aprile 2007, pp. 38-40.

4)      SALIGHETTI DRIOLI, Giuseppe, Censuriamo l'ipocrisia, su Alfa e Omega, Edizioni Segno, Feletto Umberto, n. 1, 2007, pp. 8-11.

5)      Romani, I, 32.

6)      BENEDICT, Ruth, Modelli di cultura, Milano, Feltrinelli, 1974.

7)      HAMILTON, Charles, Sul sentiero di guerra. Scriti e testimonianze degli indiani d'America, Milano, Feltrinelli, 1960, p.110.

8)      SENECA, Lettere a Lucilio, IV, 41(traduzione nostra); e IV, 39 (tr. di G. Monti, Milano, Rizzoli, vol. 1, p. 106)