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Flessibilità e precarizzazione... Basta con i giochi di parole

di Carlo Gambescia - 03/07/2007

 

Che il Corriere della Sera sul problema delle flessibilità faccia ormai sistematicamente disinformazione è un dato di fatto, a conoscenza di tutti. Che però, a fare giochi di prestigio dialettici, si prestino anche certi studiosi, i quali sanno benissimo come stanno le cose, è esecrabile.
Ad esempio ieri, sul Corriere Economia, in prima pagina, Maurizio Ferrera, notissimo studioso dei sistemi di welfare, invitava i sindacati a distinguere tra precarizzazione e flessibilità: la prima cattiva, la seconda buona…
Ora, ci dispiace per il professore, e sia detto con il massimo rispetto, ma si tratta di una distinzione di lana caprina… Se, come attualmente accade in Italia, non c’è continuità contributiva tra un lavoro e l’altro (in senso sostanziale, come possibilità di accumulare contributi per accedere a una pensione dignitosa), ecco la flessibilità trasformarsi, come per incanto, in precarizzazione. Perciò invitare i datori di lavori, come prospetta l’attuale governo Prodi, ad assumere, i lavoratori flessibili, dopo un certo periodo (tre anni di contratti a termine, ci sembra di aver capito), introducendo imposte ad hoc, non risolve nulla, perché si continua a puntare su un’ opzione aziendale. O se si preferisce sulla “mano invisibile” del mercato.
Pertanto, se oggi non si muta indirizzo, la flessibilità continuerà in futuro a fare rima con precarizzazione, Perché, anche con le riforme promesse da Prodi, i lavoratori “flessibili”, in pratica, non avranno alcuna certezza di essere assunti. E, oltre a rischiare di restare flessibili fino all'età delle pensione, rischiano da anziani di fruire di pensioni molto basse. Più o meno, come le attuali minime (sui 500 Euro al mese).
Che fare allora?
In primo luogo, si potrebbe mettere in condizione il lavoratore precario di scegliere, introducendo un reddito di “attesa”(condizionandolo a una verifica annuale delle sue aspettative e alla frequentazione obbligatoria di corsi di durata semestrale, almeno 1 l'anno). In secondo luogo, si potrebbe garantire, al lavoratore precario, tra un lavoro e l'altro, una “continuità previdenziale e assistenziale" di "sostanza", per consentire finalmente una normale programmazione di vita.
Il “reddito di attesa” (che riguarderebbe, grosso modo, meno di 1 milione e mezzo di lavoratori, tra nuovi ingressi annuali e situazione precarie pregresse) potrebbe essere, finanziato, con un tassa di scopo (“di solidarietà”), la cui entità andrebbe rapportata al fabbisogno annuale di lavoro flessibile. Mentre i “contributi di continuità” potrebbero essere, in linea di principio, a carico di tutti i datori di lavoro(temporaneo o meno), ma anche oggetto di una detassazione (diciamo al 50 per cento, e dunque a carico delle fiscalità generale), legata ai tassi annuali di innovazione tecnologica dell’impresa. Tuttavia, il provvedimento, in primis, riguarderebbe tutte le imprese al di sopra dei 15 dipendenti. Mentre per quelle al di sotto, economicamente più vulnerabili, ma dove il lavoro flessibile è ampiamente utilizzato, si dovrebbe raccordare la tassazione e la detassazione, di cui sopra, al numero effettivo dei dipendenti flessibili assunti. E qui servirebbero maggiori controlli fiscali sul territorio.
Insomma, alle imprese grandi e medie si chiederebbe, qualche sacrificio in più, sul piano fiscale, ma per il bene di tutti. Ferma restando, la possibilità di recuperare, nel tempo, attraverso, una seria, ma non terroristica, lotta all’evasione fiscale, importati risorse finanziarie.
Non sono provvedimenti di tipo socialista… Ma tutto sommato di buona flexicurity. Perché non proporli ? Invece di inventarsi quotidianamente, e sempre sullo stesso giornale, storie sulla flessibilità buona e cattiva?