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Mistero uranio impoverito: la storia infinita

di Tatiana Genovese - 03/07/2007



Un nuovo documento sull’Uranio Impoverito, dedicato a “coloro che sono morti perché ignoravano un pericolo che altri conoscevano”, perché “ognuno di loro non è solo un numero, ma ha un nome e gli appartiene un briciolo di storia”. Sono queste alcune frasi che sintetizzano “Il libro nero sul presunto killer”, l’ultima fatica di Franco Accame, presidente dell’Anavafaf, l’associazione che tutela le vittime arruolate nelle Forze dell’Ordine e i familiari dei caduti.
Presentato a Roma nella splendida cornice della nuovissima Casa del Cinema, presso Villa Borghese, il libro in realtà è stato fatto “con mezzi di bordo”, come ha scritto lo stesso autore, e forse per tale motivo ancora non ha una vera e propria conformazione editoriale, ma è solo un insieme di fotocopie rilegate tra loro. Questo però nulla toglie al contenuto del testo, il primo in cui vengono elencati i nomi dei 50 militari morti per sospetta contaminazione da uranio impoverito.
Accanto ai nomi dei deceduti è specificato il ruolo o il grado che ricoprivano nelle forze armate, la data del decesso, le cause cliniche, il luogo d’impiego e quello di provenienza (nord, sud o centro Italia). Da questa tabella già emergono i primi dati importanti. Il primo di sicuro interesse riguarda proprio la provenienza dei militari, su 50 infatti, 33 vivevano nel Sud Italia; dato questo apparentemente irrilevante, ma che, riflettendo sugli alti numeri della disoccupazione nel Meridione, fa pensare a quanti di questi giovani abbiano deciso di arruolarsi nelle finte “missioni umanitarie” in prospettiva di un elevato guadagno.
L’altro dato riguarda le patologie, se infatti generalmente chi si occupa di uranio impoverito ha sempre ricondotto il suo possibile utilizzo alla sola nascita di leucemie o del Linfoma di Hodgkin, scoprirà, analizzando la tabella, che esiste un numero sempre crescente anche di tumori cerebrali riconducibili alla contaminazione dal materiale radioattivo.
Altro ed ultimo dato interessante attiene al luogo d’impiego dei militari, luogo che non riguarda solo le missioni all’estero, ma anche, in ben dieci casi, i poligoni sparsi sul territorio italiano: quelli sardi di Salto di Quirra, di Perdasdefogu, di Capo di Frasca, di Capo Teulada e quello friulano di Dandolo. In questi poligoni non si svolgono solo operazioni militari (e quindi sotto il controllo delle autorità militari), ma anche sperimentazioni di ditte civili, molto spesso appartenenti a Paesi non appartenenti alla Nato, ma soprattutto sconosciute. Sperimentazioni che, in larga parte, sfuggono al controllo militare, ma anche civile-istituzionale, in quanto queste ditte si rifiutano di fornire rapporti sulle loro attività, decretando un ulteriore stato di vassallaggio dell’Italia.
Anche perché alla fine i militari che durante questi esperimenti, magari estraggono i bossoli di uranio a mani nude, sono italiani.
Comunque i dati riportati in tabella si riferiscono solamente a i casi in cui si è ritenuto che esistesse un più che sufficiente grado di probabilità che la malattia in questione potesse dipendere da uranio impoverito, cioè da contatti “intensi” per quanto concerne le dosi del materiale radioattivo assunto dai singoli.
Il pericolo è infatti correlato alla vicinanza (spazio-temporale) dalla zona colpita. Ma bisogna anche sottolineare che esiste anche il rischio derivante dal maneggio dell’uranio impoverito; rischio che talvolta è dimenticato. E questo è il caso di tutti i militari che operano, lontano da zone colpite, come l’Italia, che prestano magari servizio in un’officina o in un deposito in cui sono stati collocati materiali che possano essere stati affetti da polveri del materiale radioattivo.
Sempre come riportato nel libro, oltre ai casi presenti in tabella, ci sono poi diversi casi di morte sospette ricollegabili all’uranio impoverito. Per un’esatta determinazione dei dati, sarebbe infatti necessario poter disporre dei documenti matricolari del personale, attestanti lo stato del servizio e le destinazioni ove tale personale ha operato. Bisognerebbe inoltre poter visionare le cartelle cliniche per stabilire con certezza il tipo di patologia riscontrata. Ma tranne in rari casi, coloro che si occupano di queste “morti sospette”, non sono in possesso di questi dati. Dovrebbe essere compito del Ministero della difesa, per quanto attiene ai militari, e agli altri Ministeri, sotto la cui insegna ha operato il personale dei Corpi Armati dello Stato e di quelli equiparati ad essi, fornire tali documenti, magari alla Commissione d’inchiesta Parlamentare. Ma questo evento si verifica con estrema rarità e anche molti dati contenuti nei documenti lasciano non pochi dubbi.
Ma, come ribadito più volte, ci sono anche molti altri casi di cui si è occupato, Accame, riferibili alla contaminazione di uranio impoverito ma che vengono completamente trascurati, anche dalle stesse Commissioni d’inchiesta parlamentari. Si tratta ad esempio dei casi di malformazione alla nascita di bambini. Una problematica non prevista dagli “ordinamenti vigenti” che non prendono in considerazione i danni indirettamente causati alla prole. I casi di malformazioni però esistono e per questa sorta di “infortunio indiretto”, di cui nel libro si fa solo accenno a due casi per motivi di privacy, il presidente dell’Anavafaf richiede una modifica alla legislazione vigente e una revisione degli studi sinora sviluppati in materia, come quelli effettuati dalla Commissione Mandelli.
Di seguito nel libro vengono trattati quei casi, di cui poco si sa, di personale contaminato al di fuori dell’ambito militare. Come i nove vigili del fuoco colpiti da melanoma, o quelli di alcuni agenti dalla polizia forse contaminati. Per tutti questi casi Accame ha ribadito come i ministeri a cui faceva capo questo personale non hanno fornito sufficienti informazioni.
Infine il testo dedica uno spazio a tutti i civili coinvolti nelle zone dove sono state gettate armi all’uranio impoverito: le popolazioni della Somalia, dei Balcani, dell’Iraq e dell’Afghanistan; perché anche a loro “è destinato questo documento d memoria che vuole anche non dimenticare l’ambiente e tutte le forme di vita che in esso si sviluppano”.
Senza dimenticare poi tutti quei casi di morte per possibile contaminazione da uranio impoverito che sono rimasti del tutto sconosciuti, sia perché i decessi non erano stati collegati dalle stesse vittime alla possibilità che fossero ricollegabili all’elemento radioattivo, sia per la scarsa possibilità da parte delle vittime di rendere noti questi casi attraverso mezzi di comunicazione, sia per motivi di privacy.