L'uomo con le valigie in mano
di Francesco Agnoli - 03/07/2007
Il problema è arrivare pronti alla partenza,
che è meglio non sia né improvvisa né subitanea
U
n giornale quotidiano, di solito, senon è un po’ particolare, è il luogo
meno adatto per parlare del dopo, dell’aldilà.
Il quotidiano, infatti, è il regno
del qui ed ora. E’ nato per questo: per
parlare di ieri, di oggi, per influire sulla
realtà, immediatamente, subito, senza
indugi. La notizia ancora calda è già
“compresa”, discussa, sviscerata. Se
non è più calda è scaduta, non interessa
più. Durante la rivoluzione francese
nascono circa cinquemila giornali in
pochi anni: ognuno vuole dire come costruire
il mondo, ognuno ha una idea,
una proposta, una promessa politica da
fare. La buona novella è per domani,
massimo dopodomani. L’importante è
rimboccarsi le maniche, agire nel breve
periodo, sconfiggere il nemico, e poi gustare
la vittoria, in fretta, come si gusta
un pasto veloce, al fast food. Il giornale,
diceva Hegel, è la preghiera mattutina
del laico: serve a tenerlo ben ben radicato
nella terra, nella cronaca, nei fatti,
nelle res, senza mai permettergli di
spiccare il volo, di liberare lo spirito, di
alzare gli occhi al cielo.
Di novità in novità, di scoop in scoop,
di affermazione in smentita, rimaniamo
imbrigliati nelle contingenze, occupata
la mente e distratto il cuore. Viviamo
della vita degli altri, delle vicende degli
altri, di riflesso, senza penetrare nella
nostra vita e nella nostra storia, interamente
fuori, aldilà di noi stessi. In fondo
tutta la modernità è questa congiura:
contro la possibilità di fermarsi a pensare,
di assaporare il silenzio, immagine
dell’eternità, di rientrare in noi stessi
per cercare la voce di Dio, che risuona lì
dove non ci sono altri rumori, altri interessi,
altre preoccupazioni; che ci parla
solo nella quiete, quando i sensi sono
placati, quando i desideri e le bramosie
mondane sono acquietate da una volontà
che si impone e che si afferma.
Oggi la “torma delle cure” ci assale
ogni momento, e ogni istante libero è occupato
da giornali, televisioni, radio, cellulari
e musichette: oltre c’è l’abisso, “il
vuoto a ogni gradino”, la paura di cadere,
non si sa dove. L’oltre è negato, perché
richiede un passo diverso. Viviamo
nel culto dell’effimero, nell’ansia delle
novità, e difficilmente possiamo pensare
a ciò che dura, che rimane, che non
scade. Siamo figli del primato fichtiano
dell’azione sull’essere: in principio è l’azione,
non il Logos. Anche in chiesa ormai
ci spiegano che l’importante non è
pregare, o andare a messa, ma “fare del
bene al nostro prossimo”. Come se fosse
facile, riconoscerlo, il nostro prossimo, a
volte così “fastidioso”, senza pensare all’oltre,
senza andare al di là delle apparenze,
senza una preghiera pronunciata,
a labbra chiuse, per chiedere quella capacità
di amare che ci manca. Figli di
questo rifiuto del Logos, di questa civiltà
dell’agire, non sappiamo neanche più
ragionare su ciò che è essenzialmente,
eternamente vero, giusto, ingiusto: si
sentono le persone trattare dei massimi
problemi dell’uomo, dell’essenza umana,
e riferirsi non a principi, non a idee,
non ai fondamenti, non al cuore della loro
esperienza, ma alle legislazioni cangianti
di altri paesi, ad usi e abitudini
mutevoli, a luoghi comuni. La famiglia?
Non si indaga neppure cosa essa sia. Si
dice semplicemente: bisogna adattarsi
ai tempi… in Europa fanno così, i tempi
cambiano… faccia ognuno come vuole…
Se solo la parola Verità compare sulle
labbra di qualcuno, tutti si spaventano,
come fosse qualcosa di troppo aspro, di
troppo duro, di troppo eterno.
Così anche la parola morte sembra
eccessivamente crudele, difficile, impopolare.
Personalmente, invece, mi diverto
talora a scherzare sulla morte,
“sorella nostra morte corporale”, sfidando
i tabù dominanti: ne parlo per vedere
le reazioni, e le paure. Paure di chi
abita su questa terra come cittadino di
questa terra, come se fosse una dimora
perenne, da addobbare e da sistemare
per sempre, da non lasciare mai. E invece
qui, su questa terra, ci stiamo poche
ore. “Questa vita mortal che ’n una o ’n
due brevi e notturne ore trapassa”: così
scriveva il Della Casa, l’uomo del Galateo
e delle belle maniere. “La vita fugge,
et non s’arresta un’ora/ et la morte
viene dietro a gran giornate,/ et le cose
presenti et le passate/ mi danno guerra,
et le future ancora”: questo invece è il
buon Francesco Petrarca, il poeta che si
innamora di Laura e dell’alloro, delle
cose che svaniscono, e che medita nello
stesso tempo su come “tutto al mondo
passa, e quasi orma non lassa”. La nostra
letteratura è piena di riflessioni
sulla morte: da “Quando t’aliegre, omo
d’altura”, di Jacopone da Todi, in cui si
invita il superbo a umiliarsi, osservando
un cadavere, sino a “Quid est homo?”,
del Sempronio: “E’ fior, che nell’april
nasce e languisce; è balen, che
nell’aria arde e trapassa; è fumo, che
nel ciel s’alza e svanisce”.
Ma non è vero che solo i cristiani
hanno sviluppato un’ampia riflessione
sulla morte, come accusavano gli illuministi,
che la morte la mettevano tra parentesi,
per non rovinare le loro costruzioni
filosofiche, per non dover fare i
conti col mistero e col giudizio finale.
Seneca ricordava spesso che “moriamo
un poco ogni giorno” (Cotidie morimur)
e che nasciamo diversi ma moriamo
uguali (Impares nascimur, pares morimur).
E Orazio diceva che la morte
eguaglia gli scettri alle zappe (Sceptra
ligonibus aequat). Egualmente la letteratura
e la filosofia greca ci tramandano
riflessioni ed exempla sulla morte
molto significativi. Si racconta ad esempio
che Diogene stesse cercando qualcosa,
tutto affannato, tra un insieme di
cadaveri. Alessandro Magno gli chiese
cosa facesse e lui rispose che cercava il
teschio di suo padre, il re Filippo, ma
che non sapeva distinguerlo tra tutti gli
altri: “Mostramelo tu, se sai”.
Sì, benché oggi si preferisca ignorarlo,
qui non ci staremo per sempre. Questa
è la realtà, una realtà che non spaventa
chi crede nel dopo. Una realtà su
cui riflettere, perché il pensiero dell’aldilà
è sempre stato considerato il miglior
antidoto alla venerazione degli
idoli del potere, della fama, della ricchezza.
Idoli che ci precludono l’aldilà,
che rendono corto e piccino il nostro
sguardo, triste, inutile, tormentata, anche
la vita su questa terra. Idoli a causa
dei quali barattiamo l’infinito con il finito,
l’eternità con il tempo, i piaceri
con la Felicità.
Nella famosa lettera a Diogneto, in
cui si descrivono le peculiarità dei cristiani,
si legge: “Vivono nella loro patria,
ma come forestieri; partecipano a tutto
come cittadini, ma sono distaccati come
stranieri. Ogni patria straniera è patria
loro, e ogni patria è straniera”. Sì, per
credere nell’aldilà bisogna vivere un paradosso:
un ottimismo incrollabile, una
fiducia assoluta, e, insieme, una chiara
idea del nostro essere pellegrini, di passaggio,
in esilio in una patria non nostra.
Amore per ogni patria, dunque, e desiderio
intenso dell’unica patria vera. Lo
stesso paradosso di Gesù, che ci dice di
aver offerto la sua vita per il mondo, pur
non essendo del mondo. Scriveva sant’Agostino:
“Nelle tenebre di questa vita,
dunque, nelle quali ci aggiriamo come
in esilio lontani dal Signore, finché camminiamo
col sostegno della Fede, non di
una visione diretta, l’anima del cristiano
deve ritenersi derelitta, affinché non
cessi di pregare e di fissare l’occhio della
fede sulla parola delle divine e sante
scritture come su di una lampada posta
in un luogo tenebroso, finché non risplenda
il giorno e la stella mattutina
sorga nei nostri cuori… Allora, dopo la
morte, sarà la vera vita e, dopo l’abbandono,
la consolazione vera: quella vita
strapperà alla morte la nostra anima,
quella consolazione libererà i nostri occhi
dalle lacrime… giacché là non vi
sarà più l’attesa di un bene promesso,
ma la contemplazione di un bene dato”.
E W. F. Schlegel, qualche centinaio di
anni più tardi: “Presso i greci la natura
umana bastava a sé stessa, non presentiva
alcun vuoto, e si contentava d’aspirare
al genere di perfezione che le sue
proprie forze possono realmente farle
conseguire. Ma quanto a noi, una più alta
dottrina ci insegna che il genere umano,
avendo perduto per un gran fallo il
posto che gli era stato originariamente
destinato, non ha sulla terra altro fine
che di recuperarlo; al che tuttavia non
può giungere, s’egli resta abbandonato a
se stesso. La religione sensuale dei greci
non prometteva che beni esteriori e
temporali: l’immortalità, seppur vi credevano,
non era da essi che appena appena
scorta in lontananza, come un’ombra,
come un leggier sogno che altro non
presentava se non una languida immagine
della vita, e spariva dinanzi alla sua
luce sfolgorante. Sotto il punto cristiano,
tutto è precisamente l’opposto: la contemplazione
dell’infinito ha rivelato il
nulla di tutto ciò che ha dei limiti; la vita
presente si è sepolta nella notte; e sol
di là dalla tomba risplende l’interminabile
giorno dell’esistenza reale… E perciò
la poesia degli antichi era quella del
godimento; la nostra è quella del desiderio;
l’una si restringeva al presente, l’altra
si libra tra la ricordanza del passato
e il presentimento dell’avvenire”.
In esilio, dunque: cioè in attesa di
“cieli nuovi e terra nuova”, di una partenza,
sempre con i bagagli pronti, con
la speranza di un futuro diverso, di un
completamento dei nostri desideri di
Felicità, di Bene, di Giustizia, di Bellezza,
così spesso conculcati su questa terra.
“Tristi”, dunque, per la consapevolezza
di un bene assente, ma non disperati,
come se questo bene non esistesse
per nulla. Dove sta allora l’ottimismo
cristiano? Per il cristiano l’uomo non è
un parassita, né una semplice scimmia,
né il cancro dell’universo, né materia
che si trasforma, né figlio del caso, né
semplice componente di una razza o di
una classe sociale: qui sta il suo umanesimo.
Per lui ogni momento vissuto, ogni
incontro fatto, ogni azione compiuta ha
una risonanza eterna, proprio a causa
dell’aldilà: cioè nulla va perso, nulla è
inutile, nessuna parola buona, nessun
sorriso, nessun sacrificio, nessun pianto
è sprecato. Gli alunni che ho conosciuto,
e che ho salutato a fatica, gli amici che
ho incontrato e che poi ho perso, le persone
con cui si sono condivise storie e
pensieri, ritorneranno tutti, in un abbraccio
universale. Sulla maglietta di
una mia alunna di quinta, che forse non
rivedrò più, quaggiù, ho scritto: “Finisce
una storia, ne inizia un’altra: ma nulla si
perde di ciò che abbiamo vissuto”. Lo
può scrivere chi crede nell’aldilà: non
oso pensare cosa proverei, quale sarebbe
la mia desolante malinconia, se non
fossi sicuro di questo.
Ogni mio capello è contato, ogni capello
dei miei fratelli è guardato e vegliato
da Dio stesso. Non c’è ottimismo
più grande, non c’è tranquillità, serenità,
certezza più splendida di questa.
Di essa hanno vissuto i santi, cittadini di
questa terra più di ogni altro, pellegrini
di passaggio, senza sandali né bisaccia,
più di ogni altro. Per questo, dopo di loro,
io so che non andrà buttato nulla,
che potrò fermarmi a ricordare, tra venti
o quarant’anni, le cose fatte e le persone
incontrate, senza che la malinconia
diventi disperazione, senza che il
velo di tristezza che accompagna ogni fine,
ogni evento svanito, ogni limite, diventi
domanda inevasa di significato,
rabbia, rancore, senso di impotenza. Solo
con i piedi ben piantati nell’aldilà,
che è già qui, “ora e non ancora”, possiamo
amare tranquillamente e per
sempre i nostri genitori, i nostri amici,
nostra moglie e i nostri figli. Solo così
non dovremo mai pensarla come Zeno
Cosini, ne “La coscienza di Zeno”, quando,
parlando della moglie, dice: “Essa
sapeva che tutti dovevamo morire, ma
ciò non toglieva che ormai ch’eravamo
sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme,
insieme. Essa dunque ignorava
che quando a questo mondo ci si univa,
ciò avveniva per un periodo tanto breve,
breve, breve, che non si intendeva come
si fosse arrivati a darsi del tu dopo non
essersi conosciuti per un tempo infinito
e pronti a non rivedersi mai più per un
altro infinito tempo”.
Al contrario, ragionare in termini di
eternità, sapersi da sempre e per sempre
nella mente e nel cuore di Dio, ridona
senso alle cose e agli eventi, e nello
stesso tempo li colloca tutti nella giusta
prospettiva: non c’è ansia, agitazione,
premura, in chi vede ogni fatto alla
luce dell’eternità. Ognuno di quei problemi
che attanagliano e angustiano
chi limita la sua vita a se stesso e al
tempo presente, si ridimensiona, se osservato
con occhio spirituale, con la
consapevolezza dell’aldilà.
L’unico grande problema che rimane
è quello di essere pronti, al momento
della morte. Per questo i nostri padri,
che erano stati educati fin da bambini,
anche nella liturgia, a considerarsi polvere,
paradossalmente polvere e immortalità,
pregavano come l’uomo d’oggi non
farebbe più: “A improvvisa et subitanea
morte libera nos Domine”. Liberaci Signore
dalla morte improvvisa e subitanea.
La morte è dunque bene guardarla
in faccia, prepararla, viverla sino alla fine,
come un momento stesso della vita,
un momento di passaggio. Solo la “morte
secunda” può farci male.