In un foglio ingiallito la prova che il Tibet era indipendente
di Carlo Buldrini - 03/07/2007
U
n foglio di carta tibetana ingiallito daltempo. Il bordo, in alto, corroso dai
“pesciolini d’argento”. La scrittura al centro
della pagina è in tibetano, nella sua
forma più svolazzante. Subito sotto, battuta
a macchina, c’è la traduzione in lingua
inglese: “Il latore della presente, Tsepon
Shakabpa, capo del Dipartimento delle Finanze
del governo del Tibet, viene inviato
da questo governo in Cina, negli Stati Uniti
d’America, nel Regno Unito e in altri
paesi per esplorare la possibilità di intraprendere
scambi commerciali tra il Tibet
e i suddetti Paesi. Saremo pertanto grati…”.
Al documento è stato apposto il sigillo
del Kashag, il governo tibetano. E’ datato
“Lhasa, il 26° giorno dell’ottavo mese
del Maiale di Fuoco” (il 10 ottobre 1947). E’
l’unico passaporto, ancora oggi esistente,
emesso dal Tibet quando era una nazione
indipendente. Questo prezioso documento
è stato per la prima volta mostrato al
pubblico di New Delhi il 23 e 24 giugno
2007, nel corso della “Conferenza per un
Tibet indipendente” organizzata da
Friends of Tibet (India), una ong indiana.
Ed è proprio grazie a questa organizzazione
che il passaporto è stato ritrovato.
Tutto inizia nel 2003. A un tibetano di nome
Kongpo Dhondup viene mostrato il passaporto
in un piccolo negozio di antiquariato,
nei pressi di Durbar Square a Kathmandu.
Dhondup capisce subito l’importanza
del documento. Ne parla con Geshe Pema
Dorje, un ex direttore del Sarah Institute of
Buddhist Dialectics, in India. Pema Dorje
contatta a sua volta Friends of Tibet. “Bisogna
fare il possibile per ottenere quel passaporto”,
gli dice Tenzin Tsundue, il segretario
dell’organizzazione. Ma la cosa non è
così semplice. I negozi di antiquariato di
Kathamandu sono il punto d’arrivo di un
commercio illegale e clandestino che ha radici
lontane. Per l’arte tibetana, l’epicentro
di questo traffico è Kalimpong, una cittadina
del West Bengal, a ridosso delle montagne.
Qui pullulano ladri e contrabbandieri.
Ed è a Kalimpong che viene raccolto, prima
di essere smistato nei negozi di Kathmandu
e di New Delhi, il materiale rubato nei monasteri
e nelle abitazioni private di una vasta
area del territorio himalayano. A Kathmandu,
l’antiquario dei pressi di Durbar
Square, capisce subito l’interesse dei tibetani
per il passaporto appartenuto all’ex ministro
delle Finanze del governo di Lhasa.
Dice che, se il documento verrà consegnato
personalmente al Dalai Lama, sarà pronto
a fare un prezzo di favore. Bluffa. In un primo
tempo chiede ben 15 mila dollari. Dhondup
lo fa scendere a 10 mila. Oltre, non riesce
ad andare. Per i tibetani in esilio si tratta
di una cifra enorme. Friends of Tibet (India)
avvia una sottoscrizione. Bisogna raccogliere
mezzo milione di rupie. Tutto procede
troppo lentamente. C’è il pericolo che
il documento finisca in mano cinese e venga
distrutto. L’ong si rivolge allora al monastero
di Pemachuding, in Nepal. Chiede un
prestito. Nel marzo 2004, finalmente, Kongpo
Dhondup è in grado di consegnare mezzo
milione di rupie in contanti all’antiquario
di Durbar Square. Ottiene il passaporto.
Domenica 28 marzo 2004 il prezioso documento
viene consegnato da Friends of Tibet
(India) a Tenzin Geshe, il segretario privato
del Dalai Lama.
Nella piccola fotografia in bianco e nero
attaccata al passaporto, Tsepon Shakabpa,
l’intestatario del documento, ha gli occhi a
mandorla e lo sguardo fiero. Ha le labbra
carnose, i baffetti sottili, i capelli lisci con la
scriminatura al centro. Il cappello “a piattino”
è l’inconfondibile segno di appartenenza
alla nobiltà locale. Shakabpa, a soli 23
anni, entrò a far parte dell’amministrazione
centrale tibetana. Dal 1930 al 1950 fu capo
dipartimento (ministro) delle Finanze. Nel
1948 il governo di Lhasa inviò una delegazione
di cinque persone in Cina, Stati Uniti,
Regno Unito, Francia, Svizzera, Italia, Egitto,
Arabia Saudita e India per promuovere
gli scambi commerciali fra il Tibet e questi
paesi. Shakabpa fu il capomissione.
Nel 1951, quando i cinesi avevano ormai
occupato militarmente l’intero Tibet,
Shakabpa andò a vivere a Kalimpong, in India.
Nel 1959, anche il Dalai Lama fu costretto
a lasciare il Paese delle Nevi e a
chiedere asilo politico all’India di Jawaharlal
Nehru. Fino al 1963, Shakabpa fu il rappresentante
a New Delhi del Dalai Lama e
del governo tibetano in esilio che aveva trovato
sede a Dharamsala nell’India settentrionale.
Tsepon Shakabpa si trasferì poi
negli Stati Uniti. Visse a Manhattan. Nel
1967, per i tipi della Yale University Press,
pubblicò un libro divenuto famoso: “Tibet:
A Political History”. Nel volume, Shakabpa
parla anche della sua missione all’estero
del 1948. In India, la delegazione incontrò il
Mahatma Gandhi. Scrive Shakabpa: “Quando
gli offrii la sciarpa cerimoniale (khata) il
Mahatma Gandhi mi chiese se era stata fabbricata
in Tibet. Gli risposi che, nel nostro
paese, importiamo il materiale per fare
questo tipo di sciarpe da cerimonia. Il
Mahatma si dimostrò molto sorpreso. Ci disse
che era molto importante che le cose di
cui facciamo uso quotidiano vengano prodotte
nel nostro stesso paese”.
Tornato in India, Shakabpa riprese a vivere
nella casa di Kalimpong. Qui, curò l’edizione
in lingua tibetana della sua storia
politica del Tibet. L’opera venne pubblicata
in due volumi, nel 1967. La versione inglese
del libro venne poi nuovamente pubblicata
in paperback, nel 1984, dalla Potala Publications
di New York. Tsepon Shakabpa
morì per un cancro allo stomaco il 23 febbraio
1989, quando si trovava nella casa di
suo figlio a Corpus Christi in Texas. Subito
dopo la morte, nella sua abitazione di Kalimpong
venne commesso il furto che portò
alla scomparsa del passaporto.
Il certificato dell’alto funzionario del governo
tibetano è un documento storico importante.
Prova che il Tibet, prima dell’occupazione
militare del paese da parte della
Cina comunista, era una nazione indipendente
e, come tale, era riconosciuto dagli altri
paesi del mondo, Italia compresa.
Il governo tibetano fece richiesta dei visti
per Tsepon Shakabpa in quanto “Capo del
Dipartimento delle finanze”. I vari paesi, così
come vuole la prassi diplomatica, gli concessero
il visto gratuito, in quanto si trattava
di un alto funzionario del governo di un paese
straniero. E’ così che sul passaporto si legge
la dicitura “Official, gratis” vicino ad alcuni
visti, “Sans frais, courtoisie”, vicino a quello
francese e “Cortesia diplomatica” in quello
italiano. Il visto italiano venne concesso a
Shakabpa dal Consolato generale d’Italia di
New York il 3 dicembre 1948. E’ il visto numero
20611. Shakabpa entrò in Italia il 15 dicembre
1948, come prova il timbro apposto al
visto d’ingresso dove si legge: “Domodossola
Valico Ferroviario 3. Entrata. 15. 12. 48”.
Il rilascio di questo visto pone una serie
di problemi “diplomatici”. Li si possono
riassumere tutti con un’unica domanda: come
mai, nel dicembre 1948, il governo della
Repubblica italiana riconosceva il Tibet come
nazione sovrana e indipendente e, oggi,
lo ritiene invece essere parte integrante
della Repubblica popolare cinese? Nel corso
della visita di stato in Cina del presidente
della Repubblica italiana Carlo Azeglio
Ciampi (dicembre 2004) e della visita a Pechino
del presidente del Consiglio Romano
Prodi (settembre 2006) è stata espressa “la
ferma adesione dell’Italia alla politica di
una sola Cina” (e cioè che il Tibet – e
Taiwan – sono parte integrante della Repubblica
popolare cinese). Perché?
Vediamo brevemente che cosa è successo
in Tibet dal 1948 (quando l’Italia lo riconosceva
come nazione indipendente) a oggi. Il
7 ottobre 1950 l’Esercito popolare di liberazione
cinese attacca la città di Chamdo, nel
Tibet orientale. Inizia l’occupazione militare
del paese da parte della Repubblica popolare
cinese. Il 9 settembre 1951 la conquista
militare del Tibet è un fatto compiuto: i
primi tremila soldati di Mao Zedong, seguiti
subito dopo da altri 20 mila, marciano su
Lhasa. Come diretta conseguenza dell’occupazione
cinese, in Tibet, muoiono 1.200.000
persone. Nel decennio della Grande Rivoluzione
Culturale Proletaria (1966-1976), nel
Paese delle Nevi un’intera civilizzazione viene
rasa al suolo dalle Guardie Rosse. (In Tibet,
nel 1959, esistevano 6.259 monasteri. Nel
1976, al termine della Rivoluzione culturale,
ne resteranno in piedi solo 8). Oggi, a Lhasa,
vige un orwelliano regime poliziesco. Ogni
angolo della città è sorvegliato da telecamere
nascoste. Su ogni pianerottolo di condominio
c’è un informatore della polizia.
E’ stato tutto questo a far cambiare opinione
alla diplomazia italiana sullo stato
giuridico del Tibet e sul diritto all’autodeterminazione
del popolo tibetano?
La “Conferenza per un Tibet indipendente”
si è tenuta a New Delhi presso la
Gandhi Peace Foundation. Tenzin Tsundue,
il segretario di Friends of Tibet (India),
si è presentato con la solita fascia di
stoffa rossa legata alla fronte e il kurta nero.
Ha fatto un appassionato appello ai tibetani
“fuori e dentro il Tibet” a intensificare
la lotta in vista delle Olimpiadi di Pechino
2008. “Faremo ricorso alla lotta nonviolenta”,
ha detto Tsundue. Ma ha poi ammonito:
“La nonviolenza, senza un supporto
di massa, non funziona”. Al termine dei
due giorni di conferenza è stato approvato
un documento. In esso si chiede all’Onu di
dar seguito alla risoluzione 43/47 del 22 novembre
1988 che prevede l’“adozione di misure
urgenti per l’eliminazione delle ultime
tracce di colonialismo”. I delegati hanno
fatto appello a tutti paesi del mondo affinché
si adoperino per porre fine al colonialismo
cinese in Tibet e aiutino il popolo
tibetano a riconquistare la propria libertà.