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Il progetto statunitense in medio-oriente

di redazionale - 04/07/2007

 

 

Il progetto statunitense, predisposto per la regione araba, continua a bussare alle porte degli Stati in questione, uno dopo all’altro, ora sotto il nome di “Grande Medio-Oriente” che porta il mantello della democrazia, colorata con gli appelli al cambiamento delle strutture politiche del passato, ora sotto il nome di Nuovo Medio-Oriente che adotta la temperanza, attraverso l’unione di alcuni regimi presidenziali (a carattere militare) o monarchie arabe, con lo scopo di mettere la parola fine a tutte le forme di resistenza ed entrare così a piedi uniti nella nuova era mondiale, quella dove la lotta arabo-israeliana non ha più prezzo…

E, mentre il vento della discordia passa dall’Iraq alla Palestina, al Libano, soffiando attraverso le divisioni e i combattimenti confessionali o settari, decine di vittime muoiono ogni giorno trascinate nel progetto appena citato; e il terrorismo si sviluppa, prendendo nuove forme che si richiamano ad un altro tipo di terrore, quello che fu praticato, durante la prima metà del secolo scorso, dai sionisti in Palestina: dei gruppi armati, di nuova consonanza, sono creati mentre altri mutano le proprie caratteristiche. Il tutto si basa su capacità finanziarie e militari solidissime. Quanto all’appoggio, questo viene direttamente o indirettamente da Washington e da Tel Aviv, in primo luogo, ma, altresì, da alcuni regimi che circondano l’Irak e il Libano, dove le classi politiche autoctone non sanno che si stanno lanciando direttamente nella gola del lupo, sostenendo questo terrorismo che non mancherà, alla prima occasione, di ritorcesi contro di esse. D’altronde, la radicalità del progetto di questi gruppi terroristi li avvicina al progetto americano per la regione mediorientale, con il quale si è già intersecato durante gli anni ’80 del secolo scorso, quando si trattò di destrutturare la forza dell’Unione Sovietica e di far implodere i Balcani. Questo vuol dire che i due progetti possono trovare nuovi punti in comune com’è dimostrato, quotidianamente, dall’aiuto che gli ultras dell’amministrazione Bush prestano a questi gruppi, il “Born against Christians”, immaginato dal vicepresidente Chenney, non rileva il semplice brusio volto a nuocere all’immagine dello Zio Sam.

 

Il progetto degli statunitensi: ristagnamento o cambiamento di rotta?

 

Due questioni s’impongono qui: il progetto statunitense è fallito? Oppure i cambiamenti introdotti non sono fondamentali e rilevano più sul piano operativo che non su quello del mutamento degli obiettivi fissati in origine?

Alcuni notano come questo progetto ristagni e non abbia raggiunto gli obiettivi fissati, poiché i cambiamenti politici, cioè il rinnovamento di alcune forme arcaiche nell’esercizio del potere (come in Arabia Saudita), grazie a nuove equipes formate “all’occidentale”, non ha funzionato. Questa incapacità ha obbligato gli Stati Uniti a cambiare, a diverse riprese, forme e contenuti progettuali: questo vuol dire che il progetto del “Nuovo Medio Oriente” è differente da quello che sanzionava la nascita del “Medio Oriente allargato” e prima ancora del “Grande Medio Oriente”.

Per sostenere tali affermazioni, gli americani si appellano ad un gruppo di ragioni reali e di situazioni per cui:

  1. il progetto è teso al consolidamento delle posizioni americane, cosa che è stata ritardata dalla sconfitta israeliana sotto i colpi della resistenza libanese, dopo una fase di normalizzazione delle relazioni con i regimi arabi… Israele, oggi, soprattutto dopo il fallimento della sua aggressione del luglio-agosto 2006, è ai livelli più bassi della sua storia. Il rapporto del giudice Vinograd esprime chiaramente che la società israeliana è molto perturbata, vista l’incapacità dei suoi governanti nel difenderla.
  2. il progetto ha, d’altra parte, subito un incagliamento in Irak, dopo aver ricevuto colpi mortali in Afghanistan ed il costo pagato diviene sempre più grande, tanto in vite umane (centinaia di morti e di feriti gravi) che sul piano finanziario e politico
  3. il ristagnamento del progetto si vede, soprattutto, in seno all’amministrazione americana dopo la cocente sconfitta al Congresso dei repubblicani e gli appelli, divenuti sempre più pressanti, per mettere all’ordine del giorno il restringimento dei contingenti in Irak, come preconizzato dal rapporto Baker-Hamilton
  4. il fallimento si vede, ancora, nelle proposte contenute nel rapporto Baker-Hamilton concernente la necessità di negoziare con la Siria e L’Iran la fuoriuscita dallo stallo attuale (dopo aver rinunciato ad assestare un colpo militare a questi paesi). A ciò si aggiunge la rimessa in dubbio della politica della Casa Bianca applicata al Golfo arabico, di fronte ai tentativi turchi nella regione del Kurdistan irakeno.

 

E’ vero che tutti questi dati sono reali ed importanti,. Ciononostante, forniscono solo una facciata del problema che non tiene in considerazione altri fenomeni essenziali.

 

Il progetto statunitense e…il terrorismo

 

In effetti, queste ragioni non prendono in considerazione una caratteristica che rimarca la politica statunitense dopo la guerra fredda e fino ai nostri giorni (periodo detto della guerra contro il terrorismo, nel quale gli USA includono le resistenze nate contro l’immistione di Washington nel mondo e il Terrorismo che ne è derivato): il pragmatismo in politica. Questo vuol dire che i piani messi a punto per realizzare il progetto, non sono rigidi; ma al contrario, essi hanno cambiato funzione data la necessità del momento…

Su questa base, noi dovremmo dire che gli USA non hanno presentato tre progetti per il Medio-Oriente, ma uno solo, e che questo progetto non è cominciato negli anni ’90 ma piuttosto negli anni ’70, dato che la prima copia dettagliata fu presentata da Kissinger, il Segretario di Stato americano dell’epoca.

Questo progetto si riassume nella necessità di sbriciolare la regione araba in mini Stati confessionali (tra sciiti e sanniti) ed etinici che si fanno la guerra tra loro e che hanno bisogno della protezione della Grande potenza attualmente reggente il pianeta. È vero che Israele non ha potuto realizzare la performance che gli era stata richiesta e che le truppe di Washington sono dovute intervenire direttamente, ma il progetto non ha subito cambiamenti, solo la maniera di realizzarlo si è modificata…almeno per ora, poiché si dice che le truppe statunitensi avranno da proteggere le sole regioni petrolifere mentre cederanno, gradualmente, il compito della sicurezza nel resto dell’Irak alle forze autoctone, dopo aver dato loro le armi e l’addestramento necessari (ciò non vuol dire che i locali saranno capaci di riuscire laddove Israele ha fallito). Dunque, ciò che interessa gli Usa, è il ritorno alla vietnamizzazione, ma una vietnamizzazione modificata, a partire dall’esperienza già vissuta e adattata alla situazione attuale.

Tale progetto viene messo a fuoco blandamente; il petrolio del Golfo arabico, dunque quello irakeno, viene sfruttato ad oltranza e Washington prepara, altresì, il suo dominio sulla regione petrolifera del Darfour sudanese. La regione araba si sta, dunque, sbriciolando sull’esempio dei Balcani, il movimento di liberazione arabo fa quel che può per contrastare la politica statunitense, ma è ancora troppo debole, dopo le delusioni subite negli ultimi decenni del secolo scorso.

 

L’irakenizzazione ovvero qual è la sorte riservata alla Palestina e al Libano?

 

Tutto ciò ci costringe ad arrestarci di fronte a tali punti:

  1. ci ritroviamo, oggi, alla prima tappa di un cammino attraverso il quale gli USA cercano di legittimare la divisione dell’Irak in tre Stati nei quali, ogni giorno, la lotta fratricida uccide decine di persone, senza contare i feriti, allontanando, ancor di più, le chance di un ritorno all’unità nazionale. Peraltro, tutti stanno misurando le ripercussioni di questa lotta fratricida, di carattere confessionale tra sciiti e sunniti, ciò vale non solo per l’Irak, ma per l’intera regione araba. Qui perciò si pone il dilemma: gli Usa cercano di far implodere tutta la regione del Golfo, compresa l’Arabia Saudita, agendo in anticipo sulla possibilità che i movimenti salafiti fondamentalisti (che hanno loro stessi formato contro i comunisti) non mettano le mani sul governo di questi paesi e, di conseguenza, sulle risorse energetiche che essi racchiudono.
  2. la scissione, molto pericolosa, della Palestina in due parti diretta da due diversi governi e gli avvenimenti sanguinosi che hanno preceduto tale scissione non danno buoni presagi, anche perchè l’aviazione israeliana prosegue con le sue missioni mortali nelle due regioni, in più il muro costruito dagli israeliani ha già disegnato le nuove frontiere dello Stato d’Israele. Senza dimenticare poi che il ritorno al progetto di Ariel Sharon è basato sul trasferimento di 300.000 famiglie palestinesi verso la Giordania che diverrà uno Stato confederale Giordano-Palestinese; dunque, le frontiere della Palestina occupata, resteranno chiuse ad un possibile ritorno dei rifugiati disseminati nei paesi arabi vicini, tra cui il Libano, che accoglie attualmente 370.000 rifugiati.
  3. quanto al Libano, gli avvenimenti di sangue che si sviluppano nei campi profughi palestinesi di Nahr El-Bared (nel nord del paese) hanno preso chiaramente la strada del progetto statunitense “tagliato” con il progetto salafita. E la cosa più inquietante è l’esplosione di decine di nuove sigle armate che guadagnano terreno all’interno dei campi palestinesi giocando un ruolo aperto che non presagisce nulla di buono sulla situazione interna del Libano. Nello stesso tempo, gli Usa aumentano la loro pressione, sia attraverso i numerosi delegati che hanno preso domicilio in Libano, sia per le ingerenze dell’ambasciatore Jeffrey Feltman. Tutto questo lascia impronte indelebili sulla situazione politica e sull’economia.
  4. Le discussioni sulla questione della Presidenza della Repubblica vanno di buon passo ma esiste la possibilità, una volta di più, di creare due governi, così come avvenne nel 1988 e 1990, se le parti non riusciranno ad intendersi, prima della data fatidica di settembre, sulla nomina del nuovo presidente che rimpiazzerà Emile Lahoud. Questa prospettiva suscita, soprattutto tra le forze di sinistra, molta apprensione.

 

Come farvi fronte?

 

Il libano è di fronte, nuovamente, ad una situazione molto pericolosa, a causa della guerra di trincea del governo e dell’opposizione che hanno aperto le porte del paese ai venti del conflitto internazionale e regionale. Questa situazione si è animata ancor di più a causa dell’attentato costato la vita a sei soldati spagnoli.

Che devono fare i libanesi, le masse libanesi in particolare? Che iniziative devono adottare?

La sola maniera per far fronte a questa situazione pericolosa, in prospettiva, risiede nelle proposte pronunciate, da più di un anno, dal Partito Comunista Libanese, in seguito al voto della Risoluzione 1559 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

I principali punti di quest’iniziativa: la creazione di un governo di salute nazionale che avrà come primo compito quello di promulgare una nuova legge elettorale, elezioni anticipate che seguano l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e la creazione di un governo d’intesa nazionale sulla base dell’applicazione delle riforme previste dall’accordo di Taef, divenuto parte integrante della costituzione libanese.

(Geostretegie.com, traduzione di G.P.)