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Navigo, dunque esisto: riflessioni su filosofia, letteratura e globalizzazione

di Bruno Bonansea - 04/07/2007

 
Per le ostriche l'argomento più interessante deve essere quello che
tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le
stacca dallo scoglio
( Giovanni Verga )
Non esistono dei punti di vista sulle cose, perché le cose sono dei
punti di vista
( Gilles Deleuze )

A conclusione di un bel libro che studia il rapporto tra filosofia e cognitivismo[1], Diego Marconi traccia un bilancio della sua indagine ed attribuisce al cognitivismo il merito di aver (ri)affermato, al di là delle varianti culturali, la costante umana degli stessi processi cognitivi di base: "L'universalità dei modelli dei processi cognitivi portava con sé la ricostituzione della natura umana"[2]. In altri termini , i risultati raggiunti dai cognitivisti fornirebbero una base scientifica alle differenti forme di universalismo, dal trascendenatale kantiano allo strutturalismo ed al generativismo, presenti a vario titolo nella nostra cultura. Anzi, secondo Marconi spetterebbe proprio alla scienza cognitiva prospettare la soluzione dell'opposizione natura/cultura a suo tempo denunciata da Michel Foucault: "Una vera ricomposizione dell'uomo biologico e dell'uomo culturale sarà possibile solo se i processi cognitivi potranno essere compresi a partire dal funzionamento del cervello. Solo a questo punto si potrà fondatamente parlare di comprensione scientifica della natura umana"[3]. Nel frattempo le perplessità di Foucault restano attuali, ed anche le nostre. Foucault ebbe modo, a suo tempo, di contestare a Chomsky l'esistenza degli universali linguistici, ribadendo la natura specifica ed implicita nel potere di essi, da studiarsi storicamente[4]. Polemica, questa di Foucault contro Chomsky, di non poco conto; tanto più se si considera che le conclusioni di Marconi finiscono per apparire come una apologia implicita della globalizzazione. In quanto, da un punto di vista filosofico, il concetto di globalizzazione risulta essere un equivalente dell'idea di universalismo o di astrazione, che è la stessa cosa. A rigore, quindi, il dibattito sulla globalizzazione (o sull'esistenza degli universali) dovrebbe essere riportato alla disputa medioevale tra nominalisti, realisti e concettualisti che impegnò personalità della levatura di Roscellino, Guglielmo di Champeaux ed Abelardo: "Gli studiosi dell'XI secolo, lo trovano esposto nella traduzione di Boezio della Isagogé di Porfirio; ma questo testo si limita a enunciare il problema", che può essere formulato nel modo seguente: "Dobbiamo riconoscere che la vera realtà è costituita proprio dai concetti universali. o ammettere invece che è costituita dai singoli esseri individuali che cadono sotto di essi?. Le soluzioni estreme del problema degli universali sono: quella nominalistica di Roscellino. e quella realistica di Guglielmo di Champeaux. La prima, sententia vocum, sostiene che tutta la realtà è costituita da individui, mentre gli universali non sarebbero che puri nomi (flatus vocis); la seconda, sententia rerum, sostiene invece che la realtà è proprio costituita dagli universali, mentre gli individui non sarebbero altro che mere particolarizzazioni contingenti della medesima sostanza"[5]. Posta in questi termini la questione, Roscellino diventa un avversario della globalizzazione e Guglielmo di Champeaux un suo sostenitore, ed il tutto acquista un sapore 'teologico' apparentemente estraneo alle inquietudini che agitano la nostra attualità. Ma non dobbiamo dimenticare che il termine 'cattolico' significa letteralmente 'universale' e che di tale attributo si fregiò la chiesa cristiana fin dalla seconda metà del II secolo, benché non si trovasse traccia di universalismo in Gesù: "Se si leggono i vangeli facendo astrazione dall'interpretazione che ne farà la tradizione cristiana, il dubbio non è possibile: non c'è universalismo in Gesù. Non era né universalista né nazionalista cosciente: il dilemma non era alla sua portata. Non poteva prevedere ciò che la chiesa gli avrebbe fatto dire un giorno"[6]; e la globalizzazione da parte della chiesa non si è certo arrestata; i gesuiti e gli altri ordini missionari, si sono impegnati "a procacciare successi per la conquista spirituale e ad allargare a tutti i continenti un Commonwealth romano sotto l'egida del papa"[7]. Come si vede, la questione degli universali si rivela determinante ai fini di una corretta comprensione del fenomeno della globalizzazione, che deve essere ricondotto, oltre che al dibattito medioevale testè accennato, anche all'antica metafisica greca ed all'idea parmenidea della sfericità dell'Essere: "La seconda globalizzazione . implica la scoperta della rotondità della terra fin da quando, con Magellano, le navi andando sempre nella stessa direzione finivano per fare ritorno in Europa. La prima è stata quella metafisica dell'antichità , che si è tradotta in una cosmologia filosofica"[8]. Il che conferma le tesi di Sohn-Rethel circa l'intima connessione tra denaro e pensiero astratto all'origine della filosofia greca: "Ciò che vi è di specificamente umano in noi trova la sua prima manifestazione oggettiva, separata ed oggettivamente reale, nella storia, nelle forme espressive della seconda natura in quanto denaro. Fu Parmenide il primo che con il suo concetto ontologico dell'Essere trovò un concetto adeguato per questo elemento dell'astrazione reale. un'assolutizzazione ontologica della natura materiale del denaro in essa identificata"[9]; cioè a dire che il pensiero astratto dell'Essere è nato in concomitanza e per analogia con la coniazione della moneta, autentica "origine storica del pensiero concettuale in generale"[10]; il 'miracolo greco' viene così riportato alle sue origini empiriche, umane troppo umane: "Il denaro è sempre strettamente connesso con un materiale che ha valore d'uso, un metallo nobile è sicuramente un bene di consumo; giungiamo quindi alla pura astrazione-scambio solo se insistiamo sul risarcimento del logorio della moneta. Abbiamo così una sostanza ben strana che non è naturale e non è visibile, che si è imposta a Parmenide"[11], l'Essere. La centralità dell'idea dell'Essere per la comprensione dello sviluppo dell'astrazione in occidente e del processo di globalizzazione , è ribadita anche da Paul Feyerabend: "Non è benvenuto il tentativo di trasformare parole e concetti che mediano tra le persone in mostri platonici che le ricostruiscono a loro immagine. Non è benvenuta un'universalità che è imposta, tramite l'educazione, i giochi di potere o le necessità dello 'sviluppo', la più sottile delle forme di conquista"[12]. E se la scienza, per ipotesi, venisse accettata universalmente? "Ciò sarebbe un accidente storico, non una dimostrazione dell'adeguatezza degli universali platonici"[13]. Nella prospettiva di Feyerabend, le astrazioni che sono a fondamento della filosofia occidentale nascono sia (nietzscheanamente) da una negazione della vita sia da un'incoerenza logica che si ritrovano a livello pratico nel farsi concreto della globalizzazione; così come "l'antica negazione e l'inversione di valori in essa implicita. hanno influenzato la civiltà occidentale e attraverso di essa il mondo intero"[14], allo stesso modo, "stili di vita antichi vengono distrutti e sostituiti da fabbriche, autostrade e monoculture che trasformano i principi degli esperti (economisti, agronomi, ingegneri, ecc.) basati sulla scienza in tiranni, senza prestare attenzione ai desideri e ai valori locali"[15]. Date queste premesse, forse il gesto delittuoso di Platone che si decise "ad uccidere 'nostro padre' Parmenide"[16]non era poi così sconsiderato. Ma la lista degli universalisti illustri risulterebbe incompleta se trascurassimo di inserire in essa il fondatore dell'antropologia strutturale: Lévi-Strauss. Il quale ha incarnato il tentativo forse più radicale, rinvenibile nella cultura del novecento, di spiegare il comportamento umano in base ad alcune costanti universali inconsce, denominate appunto strutture. Come è stato opportunamente notato[17], tale tentativo finisce per trasformarsi in una metafisica non dissimile da quelle sostenute dai teologi medioevali: "Lévi-Strauss. parla di condizioni metastoriche e metasocietarie. Quelle che egli addita sono delle radici archetipe di ogni attività strutturante"[18]. In questo modo si cancella il risultato più importante ottenuto dagli studi antropologici, la messa in crisi del modello etnocentrico: "Con l'operazione di Lévi-Strauss si richia un ritorno occulto all'etnocentrismo"[19]; e la tentazione etnocentrica sembra proprio essere il pericolo più grave connaturato ad ogni forma di universalismo. In ogni caso, dal punto di vista squisitamente gnoseologico, il discredito della storia a tutto vantaggio delle strutture non resta senza conseguenze in Lévi-Strauss. Si prenda il caso arcinoto del tabù dell'incesto, paradigmatico, secondo Lévi-Strauss, dell'antinomia natura/cultura e del suo superamento: "Per il suo carattere di universalità la proibizione dell'incesto concerne la natura, e cioè la biologia e la psicologia, oppure l'una e l'altra insieme; ma non per questo è meno vero che esso, in quanto regola, costituisce un fenomeno sociale, appartenente all'universo delle regole, ossi della cultura, ed è dunque di competenza della sociologia. La proibizione dell'incesto. costituisce. il passo fondamentale grazie al quale, per il quale, e soprattutto nel quale, si compie il passaggio dalla natura alla cultura"[20]. Appartenente alla natura data la sua universalità e nondimeno culturale per il suo carattere normativo, il tabù dell'incesto rappresenta una vera e propria sfida per l'antropologo: "Il problema dell'incesto ci si è venuto proponendo in legame con quello della relazione tra l'esistenza biologica e l'esistenza sociale dell'uomo, ed abbiamo dovuto constatare che la proibizione dell'incesto non appartiene esclusivamente né all'una né all'altra: il nostro lavoro si propone appunto di fornire la soluzione di questa anomalia, dimostrando che la proibizione dell'incesto costituisce proprio il legame che unisce l'una sfera all'altra"[21]. Ebbene, agli occhi dello storico la situazione si presenta in maniera decisamente meno drammatica e così si dissipa quell'alone di mistero che offuscava la vista dell'antropologo: "Poiché l'intensità di questa proibizione nulla ha di una legge di natura né di un fondamento assoluto , essa è un fatto umano e assai empirico: sotto forma di formulazioni perentorie, l'intensità reale dell'interdetto varia molto da una società all'altra, dunque non basta studiare quali rapporti di parentela sono proibiti: bisogna anche prendere in considerazione il grado di intensità della proibizione. Si può supporre che l'orrore sacro dell'incesto si sia affermato nel corso degli ultimi secoli dell'impero"[22]. Che cosa bisogna concluderne? "In breve, bisogna farsi , sia delle repressioni che delle proibizioni, un'idea sfumata. Le proibizioni alimentari, per esempio, divengono viscerali: se un etnologo, per dovere scientifico si mette a mangiare bruchi, egli, martire della scienza avrà la nausea. Le cose vanno diversamente per le proibizioni sessuali (omofilia, incesto con la sorella): si è persuasi che si proverebbe nausea ma di fatto non la si prova. Per una buona ragione.Le specie che si sono forse distinte all'interno della vita amorosa non corrispondono affatto alla differenza dei sessi e la sfiorano soltanto"[23]. Come si vede, a volte la storia può offrire una via d'uscita a problemi che per lo strutturalismo si configurano come una sorta di nuova antinomia di Russel, con tutte le conseguenze del caso[24]. Giunti a questo punto è facile constatare come esistano buone ragioni, da un punto di vista logico, per argomentare a favore o contro l'universalismo e la globalizzazione e che seguendo questa strada si finirebbe inevitabilmente in uno di quei problemi che gli scolastici medioevali denominavano insolubilia. Al che noi preferiamo riprendere a modo nostro l'argomento del pari di Pascal[25], riformulato così: posto che esistano le stesse possibilità di dimostrare la verità degli universali e della globalizzazione come il suo contrario, noi scommettiamo sulla seconda opportunità; la posta in gioco non sarà più l'infinito ma la stessa sopravvivenza della specie umana. Possiamo solo augurarci che abbia ragione Sloterdijk: "Forse la globalizzazione, come la storia in genere, è un crimine che può essere commesso soltanto una volta"[26]. Ma se è vero (e noi ne siamo fermamente convinti) quanto abbiamo sostenuto fin qui, quale senso può avere, se non quello di corroborare un assurdo pregiudizio etno-eurocentrico, auspicare la fantomatica "ricostituzione della natura umana"[27]? Noi abbiamo deciso di credere a Paul Veyne, secondo cui: "L'idea della natura umana resta tanto inafferrabile quanto inutilizzabile"[28], constatazione che costringe ad alcune evidenze non sempre edificanti: "Siamo noi a costruire le nostre verità e non è 'la' realtà che ci porta a credere. Poiché essa è figlia dell'immaginazione costituente della nostra tribù. Il mito della scienza ci impressiona; ma non confondiamo la scienza con la sua scolastica, la scienza non scopre verità , cui possa dare una sistemazione matematica o una formalizzazione; essa scopre fatti sconosciuti che si possono commentare in mille modi . Le scienze non sono più rigorose delle lettere"[29]. Una volta assodato che il trascendentale si costituisce storicamente, bisogna trarne tutte le conseguenze , tra cui la più importante è che ciò esclude che esso sia partecipato dall'universalità[30]. Questo programma minimo di sobrio nichilismo implica che "dobbiamo cancellare tutto ciò che ci tiene impegnati da qualche decennio: scienze umane, marxismo, sociologia della conoscenza"[31]ed ogni forma di universalismo, aggiungiamo noi. Può apparire paradossale, ma l'etologia giunge a conclusioni non tanto diverse: "Le regole di vita, e in particolare quelle sociali, delle altre specie sono scritte nei loro geni, mentre quelle della specie umana sono scritte nella cultura"[32], e la cultura, si sa, varia. Ma per dirla ancora con Veyne: "E' necessario ricordare per l'ennesima volta che nella nostra testa non c'è nulla e che le mentalità non sono che un nome diverso per i comportamenti?"[33]. Bene, questo per quanto riguarda la filosofia, in senso lato, nei suoi rapporti con la globalizzazione; e la letteratura? Peter Sloterdijk è sicuro che anche essa abbia a che fare con il mondo globalizzato e che il suo eroe si chiami Jules Verne[34]. Noi siamo più propensi a pensare che il primo grande scrittore e critico ante litteram della globalizzazione sia stato Giovanni Verga. Sia in alcune novelle[35] sia nei grandi romanzi[36], lo scrittore catanese ha tracciato un quadro icastico degli effetti devastanti di quella che Sloterdijk chiama 'seconda globalizzazione', dando voce alle vittime del progresso, il cui cammino appare grandioso soltanto se visto di lontano: "Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha diritto di interessarsi ai deboli che restano per la via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani"[37]. L'approccio di Verga alla materia narrata è di tipo antropologico, ed è questo il senso della sua adesione alla teoria naturalistica dell'impersonalità dell'arte; si tratta cioè di restituire ai protagonisti delle novelle e dei romanzi la loro psicologia ed il loro linguaggio, di adottare un'ottica straniata rispetto alla realtà che si vuole rappresentare; per questo la Sicilia si vede meglio se guardata da Milano: "Non ti pare che per noi l'aspetto di certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? E che mai riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi?"[38]. Tale approccio è confermato, se ce ne fosse bisogno, dalla novella La coda del diavolo, vero e proprio resoconto etnografico in cui si illustra l'usanza della 'ntuppatedda: "A Catania la Quaresima vien senza Carnevale; ma in compenso c'è la festa di sant'Agata, -gran veglione di cui tutta la città è il teatro- nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d'intrigare amici, i conoscenti e d'andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia il diritto di metterci la punta del naso: Questo si chiama il diritto di 'ntuppatedda, diritto il quale, checchè ne dicano i cronisti, dovette esserci lasciato dai saraceni, a giudicarne dal gran valore che ha per la donna dell'harem"[39]. L'ottica straniata, del resto, guida la stesura della novella Fantasticheria, che contiene in nuce i motivi che informeranno I Malavoglia, dalla "religione della famiglia" alla valorizzazione della tradizione, sintetizzati nell'"ideale dell'ostrica": "Proprio l'ideale dell'ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non essere nati ostriche anche noi"[40]. Ne I Malavoglia questo ideale è incarnato dal patriarca padron 'Ntoni che, indifferente al progresso, conosce la vera saggezza della vita: "Sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, 'perché il motto degli antichi mai mentì'"[41]. Questa saggezza insegna che non bisogna muoversi mai e che quelli che non ci credono sono destinati a finire male, come il nipote più grande di padron 'Ntoni, 'Ntoni anch'egli di nome, ma così diverso dal nonno, al punto che al ritorno dalla città e dal contatto con il progresso non venne riconosciuto né dal cane né dal fratello Alessi, "tanto era mutato"[42]. E se Magellano, il capitano Cook e i navigatori "che si davano al commercio delle spezie dall'estremo oriente. Sono loro i veri inventori della globalizzazione"[43], se, insomma, "globale fa rima con navale", allora il naufragio della 'Provvidenza' narrato nel capitolo III de I Malavoglia[44]si carica di un significato allegorico estremamente eloquente: se, parafrasando Descartes, il moderno mondo globalizzato ai suoi albori può essere efficacemente sintetizzato nella formula "navigo, dunque esisto", il suo destino, ci dice Verga, è quello di colare a picco. Lo scrittore catanese conclude il suo ritratto della globalizzazione dipingendo la figura di Gesualdo Motta, che passerà da mastro a don sacrificando gli affetti sull'altare dei valori economici per finire solo come un cane, tormentato, anche in punto di morte, dal pensiero della 'roba': "Gli vennero . delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d'interessi, avevano cercato di mettergli in capo"[45]. Nel passaggio da I Malavoglia a Mastro-don Gesualdo, vengono meno anche i valori della famiglia e della tradizione, come già in Mazzarò, potente anticipazione di Gesualdo Motta: "Di donne non ne aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto"[46]; e di nuovo, la figura di Mazzarò appare come una straordinaria allegoria dell'avidità che caratterizza il processo della globalizzazione: "Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la Terra, e che gli si camminasse sulla pancia"[47]. E non manca, anche in questo caso, il finale tragico: "Sicchè quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba , per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: roba mia, vientene con me!"[48].
In principio era la globalizzazione; certo, almeno da un punto di vista eurocentrico che guarda con soddisfazione alla realizzazione di un processo che ha ai suoi estremi la speculazione filosofica sull'Essere da una parte e la "circolazione istantanea delle informazioni nell'etere elettronico"[49]dall'altra, dimentico del fatto che il concetto di globalizzazione "è un vangelo dell'inclusione nello stile di vita occidentale: La totalità della popolazione terrestre si divide tragicamente in due gruppi: da una parte , coloro che sono materialmente ricchi, protettti e favoriti giuridicamente; dall'altra, la grande maggioranza che non potrà mai far parte dell''umanità'. Ci troviamo di fronte a un tragico paradosso, ad una forma di esplosione che dà tanto nell'occhio proprio perché noi parliamo una lingua dell'inclusione"[50].

Bruno Bonansea
Saluzzo, gennaio 2004





[1] D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, Laterza, Bari, 2001
[2] D. Marconi, cit. pagg. 132-133
[3] D. Marconi, cit., pag. 134
[4] cfr. J. Rajchman, Michel Foucault La libertà della filosofia, Armando, Roma, 1987, pag. 79
[5] L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. I, Garzanti, Milano, 1977, pagg. 421-422
[6] P. Veyne, Il pane e il circo, Il Mulino, Bologna, 1984, pagg. 35-36
[7] P. Sloterdijk, L'ultima sfera, Carocci, Roma, 2002, pagg. 144-145
[8] P. Sloterdijk, Se globale fa rima con navale, ReS online, 6/11/2002, pag. 1
[9] A. Sohn-Rethel, Il denaro l'apriori in contanti, Editori riuniti, Roma, 1991, pagg. 31-35
[10] A. Sohn-Rethel, Il denaro l'apriori in contanti, cit. pag.37
[11] A. Sohn-Rethel, Il denaro l'apriori in contanti, cit. pag. 114
[12] P. Feyerabend, Conquista dell'abbondanza, Raffaello Cortina, Milano, 2001, pagg. 323-324
[13] P. Feyerabend, Conquista dell'abbondanza, cit., pag. 324
[14] P. Feyerabend, Conquista dell'abbondanza, cit., pag. 19
[15] P. Feyerabend, Conquista dell'abbondanza, cit., pag. 321
[16] P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, IL Mulino, Bologna, 1984, pag. 92
[17] cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1985, pag. 285 e segg.
[18] U. Eco, La struttura assente, cit., pag. 297
[19] U. Eco, La struttura assente. cit., pag. 299
[20] C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano, 2003, pagg. 60-67
[21] C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., pag.67
[22] P. Veyne, La società romana, Laterza, Bari, 1990, pag. 177
[23] P. Veyne, La società romana, Laterza, Bari, 1990, pag. 181
[24] Per una esposizione chiara dell'antinomia di Russel e delle sue conseguenze dal punto di vista logico, cfr. M. Di Francesco, Introduzione a Russel, Laterza, Bari, 1990, pagg. 50-55. Sarebbe interessante 'tradurre' l'antinomia di Lévi-Strauss nel linguaggio logicista russelliano.
[25] B. Pascal, Pensieri, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 65-71
[26] P. Sloterdijk, L'ultima sfera, cit., pag. 129
[27] cfr. D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, cit., pag. 133
[28] P. Veyne, Il pane e il circo, cit. pag., 31
[29] P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, cit., pagg. 153-155
[30] P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, cit., pag. 160
[31] P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, cit., pag. 163
[32] D. Mainardi, L'animale irrazionale, Mondatori, Milano, 2001, pag. 124
[33] P. Veyne, Come si scrive la storia, Laterza, Bari, 1973, pag. 334
[34] cfr. P. Sloterdijk, L'ultima sfera, cit., pagg. 37-40
[35] G. Verga, Tutte le novelle, Mondadori, Milano, 1979
[36] G. Verga, I Malavoglia Mastro-don Gesualdo, Newton, Milano, 1984
[37] G. Verga, Prefazione a I Malavoglia, cit., pag. 22
[38] G. Verga, Lettera a Capuana, in G. Verga, Tutte le novelle, cit., pag. IX
[39] G. Verga, La coda del diavolo, in G. Verga, Tutte le novelle, cit. pag. 50
[40] G. Verga, Fantasticheria, in G. Verga. Tutte le novelle, cit., pag. 135
[41] G. Verga, I Malavoglia, cit., pag. 24
[42] G. Verga, I Malavoglia, cit., pag. 216
[43] P. Sloterdijk, Se globale fa rima con navale, cit., pag. 2
[44] cfr. G. Verga, I Malavoglia, cit., pagg. 42-46
[45] G. Verga, Mastro-don Gesualdo, cit., pag. 490
[46] G. Verga, La roba, in G. Verga, Tutte le novelle, cit., pag. 281
[47] G. Verga, La roba, in G. Verga, Tutte le novelle, cit., pag. 280
[48] G. Verga, La roba, in G. Verga, Tutte le novelle, cit., pag. 285
[49] P. Sloterdijk, Se globale fa rima con navale, cit., pag. 2
[50] P. Sloterdijk, Se globale fa rima con navale, cit., pag. 3