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Il paradosso della fede: "Timore e tremore" di Kierkegaard

di Francesco Lamendola - 07/07/2007

 

 

"Non v'è dubbio che «Timore e tremore» appartenga ai grandi capolavori di Kierkegaard. Scritta nel 1843 (…), l'opera è come una breve sinfonia che contiene, felicemente armonizzati e fusi, tutti i i motivi dominanti del pensiero e dell'arte di Kierkegaard. Scritta in quello stile agile e narrativo che caratterizza anche «Aut-aut» e «La ripresa», veri romanzi filosofici, «Timore e tremore» racchiude già pienamente consapevole e compiuta la critica del sistema e dell'hegelismo, il Leit-motiv kierkegaardiano della vera religiosità  e dell'essenza paradossale della fede, non riducibile  in alcun modo a categorie extrareligiose  come la logica, l'estetica o l'etica, il motivo, anch'esso centrale, del «singolo» nella sua solitudine angosciosa di fronte al paradossale mistero di Dio. (…)

"È questo uno dei testi più indicativi e caratteristici del pensiero di Kierkegaard. Nella figura di Abramo «cavaliere della fede», nella situazione estrema, al di là del bene e del male, del vero e del falso, in cui Abramo mette a durissima prova la sua fede, abbiamo un ritratto esemplare dello stadio religioso dell'esistenza e un compendio o uno scorcio di tutta quanta la riflessione kierkegaardiana. Corrisponde alla tendenza più intima di una filosofia esistenziale, come quella kierkegaardiana, incarnare in un personaggio, reale o fantastico un momento ben focalizzato nella galleria delle possibilità e degli atteggiamenti  chela vita offre all'uomo. E nel ritratto di Abramo, dell'uomo che sacrifica al comando di Dio il proprio bene più alto, l'ultimo figlio ottenuto quasi per grazia al culmine degli anni, scorgiamo non già un autoritratto fedele  dell'uomo Sören Kierkegaard, bensì una proiezione ideale, un ritratto immaginario di quell'homo religiosus che il pensiero kierkegaardiano, in tutte le fasi del suo svolgimento, ha tracciato come valore supremo dell'esistenza."

 

                                               REMO CANTONI, Saggio introduttivo a «Timore e tremore»

 

 

 

 

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Sören Kierkegaard scrive Timore e tremore nello stesso anno in cui pubblica, l'uno dopo l'altro, Aut-aut, Due discosi edificanti,  la ripresa, Tre discorsi edificanti, Quattro discorsi edificanti. E il 1843, un anno veramente prodigioso nella vita del Nostro; due anni prima aveva rotto il fidanzamento con Regina Olsen ed era partito per Berlino, ad ascoltare le lezioni di Schelling; l'anno dopo pubblicherà le Bruciole di filosofia (la sua opera più importante in senso strettamente filosofico) e Il concetto dell'angoscia. Fra il 145 e il 1855, l'anno della morte (era nato a Copenaghen nel 1813), pubblicherà ancora moltissimi scritti, ma non più con quella incontenibile "eruzione" del biennio 1843-44, e impegnerà molte energie, fino al totale esaurimento fisico, in una disperata battaglia contro il luteranesimo della Chiesa ufficiale, accusandolo di filisteismo e ipocrisia e ribadendo sempre, con estrema coerenza, il concetto della fede come "scandalo" e rifiuto di ogni convenzione esteriore. In senso filosofico, le sue opere più importanti dell'ultimo decennio saranno Stadi sul cammino della vita (1845, che comprende In vino veritas, mirabile dialogo sulla falsariga del Simposio platonico ), Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia» (1846) La malattia mortale (1849).

Kiertkegaard amava pubblicare le sue opere sotto una varietà di pseudonimi che, nell'apparente diversità dei personaggi, possono sconcertare - di primo acchito - il lettore che lo accosti per la prima volta, ma che rivelano un fitto intreccio di posizioni complementari di una filosofia in perenne movimento, sempre insoddisfatta di sé stessa e sempre protesa alla ricerca della verità; oltre a mostrare la propensione dell'Autore per una sorta di gioco intellettuale per le «maschere» che, però, non sono mai un ozioso gioco letterario, quanto piuttosto una precisa strategia pedagogica basata su un'esigenza profonda di autenticità e scavo interiore, di una prodigiosa ricchezza umana e intellettuale che non si lascia circoscrivere nei limiti angusti di un pensiero univoco e sistematico. Anche per Timore e tremore l'autore si serve di uno pseudonimo, quello di Johannes de Silentio, che firma per esteso l'ironica e raffinata Introduzione: perché Kierkegaard si serve spesso dell'ironia ed è uno scrittore efficacissimo, che sa graffiare quanto basta per scuotere il pesante perbenismo dei lettori e la sussiegosa presunzione degli accademici di professione. Kierkegaard, come Platone, non è solo un grande filosofo, ma anche un grande scrittore; e il fatto che egli si serva volutamente di uno stile letterario per esprimere la sua concezione filosofica può ingenerare l'errata convinzione che egli sia più un artista che un pensatore. In realtà, egli è stati un genio che ha padroneggiato con eguale sicurezza e profondità tanto l'arte dello scrittore, quanto la profondità del pensiero; e ha scelto intenzionalmente di veicolare il suo pensiero in forma apparentemente semplice e dimessa, per polemica contro i «professori» à la Hegel e perché intimamente convinto che la filosofia deve scendere dai libri ed entrare nella vita, farsi vita essa stessa, e cercare di spiegarne il senso o, almeno, indicarle una direzione e uno scopo.

 

 

N. B. Per le citazioni, seguiremo la traduzione di Franco Fortini e Kirsten Montanari Gulbrandsen, Edizioni di Comunità, Milano; e, successivamente, Newton Compton Editori, Roma, 1976.

 

 

 

 

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INTRODUZIONE.

Nell'introduzione, Kierkegaard esordisce immediatamente e quasi brutalmente con un ironico ma estremamente deciso attacco contro il clima filosofico e, più in generale, spirituale, instaurato dalla crisi del post-hegelismo verso la metà dell'Ottocento.

 

"L'epoca nostra - afferma - organizza una vera e propria liquidazione nel mondo delle idee come in quello degli affari. Ogni cosa può essere comprata a prezzi tanto bassi, che è possibile domandarsi se finalmente ci saranno acquirenti. Ogni agente della speculazione, coscienziosamente  preoccupato di segnare le tappe della significativa evoluzione della filosofia; ogni libero docente, insegnante, studente, ogni filosofo, dilettante o qualificato, non si limita più al dubbio radicale, ma va «oltre».sarebbe forse intempestivo e scortese chiedere loro dove vanno di questo passo; ma si mostrerebbe un'indubbia cortesia considerando cosa certa ch'essi abbiano dubitato di tutto, perché altrimenti sarebbe almeno strano affermare che vanno oltre. Ciascuno di loro ha compiuti quel movimento preventivo; e, secondo ogni apparenza, con tanta facilità che non giudicano più necessario aggiungere la minima parola di spiegazione. Invano si cerca, con cura minuziosa, un piccolo chiarimento, un indizio, la minima prescrizione dietetica circa la condotta che dev'essere seguita in una simile enorme impresa.«Ma lo ha fatto forse Cartesio?» (…)

"Quel che per i Greci, che di filosofia, un poco, se ne intendevano, era compito dell'intera esistenza 8siccome la pratica del dubbio non s'acquista in pochi giorni né in poche settimane); il punto cui perveniva il vecchio lottatore ormai fuori dai combattimenti, dopo aver serbato l'equilibrio del dubbio attraverso tutte le tentazioni, dopo aver infaticabilmente negato la certezza dei sensi e quella del pensiero e sfidato senza debolezza i tormenti dell'amor proprio e le insinuazioni della simpatia; quel compito è oggi il punto di partenza di ognuno.

"Ai giorni nostri, non ci si ferma alla fede, si va oltre. Che se poi volessi domandare dove si voglia arrivare, certo mi farei considerare uno sciocco; ma invece darei prova di gentilezza e di  cultura se ammettessi che ciascuno ha la fede, perché altrimenti sarebbe un po' strano dire che va «oltre». Non era così una volta; allora la fede era compito assegnato all'intera esistenza; perché, si pensava, l'attitudine a credere non si acquista in pochi giorni o in poche settimane."

 

Kierkegaard, che rifiuta per sé l'appellativo di filosofo e che si presenta solo come uno «scrittore dilettante», prevede che la sua sorte sarà quella di essere del tutto ignorato, in un mondo di sapienti che già conoscono tante cose più di lui. Ammette, inoltre, di non essere il portatore di un pensiero sistematico, per cui sarà compito sin troppo facile sezionare e demolire il suo libro con una minuziosa acribia professorale. I suoi critici potranno sempre dire: "non è sistema, questo; non ha nulla a che vedere col sistema"; ed egli è pronto ad ammetterlo, sottomettendosi di buon grado al giudizio di ogni cavillatore sistematico.

La struttura dell'opera è la seguente. Dopo l'Introduzione, vi  è un capitolo intitolato Atmosfera, diviso in quattro bevi sezioni, che ricostruisce il fatto del sacrificio di Isacco; poi un Elogio di Abramo, visto come la perfetta incarnazione del «cavaliere della fede»; seguono tre Problemata, ovvero questioni, introdotte da una Effusione preliminare, e cioè: 1, Esiste una sospensione teleologica della morale?; 2., Esiste un dovere assoluto verso dio?; e 3., Si può giustificare moralmente il silenzio di Abramo con Sara, Eliezer e Isacco? Infine chiude l'opera un breve Epilogo.

 

 

ATMOSFERA

 

Il titolo di questo capitolo è quanto mai appropriato: Kierkegaard, volutamente, dà l'incipit con la tipica proposizione formulare delle favole (che fu tanto cara al suo compatriota e contemporaneo Hans Christian Andersen, così come a generazioni e generazioni di bambini): «C'era una volta…». Al tempo stesso, il lettore vi scorge subito una velata allusione autobiografica, poiché ben presto appare chiara che l'autore sta parlando di se stesso e della sua infanzia, quando qualcuno - il padre, probabilmente - gli leggeva brani della Bibbia, e la storia di Abramo e Isacco doveva averlo particolarmente colpito, proprio perché esemplare del "paradosso" della fede.

 

"C'era una volta un uomo che durante la sua infanzia aveva udita la bella storia di Abramo messo alla prova da Dio, che, vittorioso della tentazione, riusciva a conservare la fede e a ricevere, contro ogni previsione, suo figlio per la seconda volta. In età matura, rilesse con cresciuto stupore quel racconto, perché la vita aveva separato quanto era unito nella pia semplicità dell'infanzia. Man mano che egli invecchiava, il suo pensiero tornava più di frequente a quella storia, con una passione sempre più grande; e tuttavia, la comprendeva sempre meno…"

 

Questo è un tema caro a Kierkegaard: la meravigliosa apertura dell'infanzia, la disponibilità ad accogliere il mistero e il paradosso senza sforzo apparente; e, per contro, la dura, legnosa rigidità del Logos dell'adulto, che offusca le semplici verità apprese un tempo per rendere tutto più complicato, incomprensibile.

 

"Il suo sogno sarebbe stato quello di partecipare al viaggio di tre giorni, quando Abramo se n'andava sul suo asino, con la propria tristezza davanti a sé, e Isacco al fianco. Gli sarebbe piaciuto essere presente al momento nel quale Abramo, levando lo sguardo, vide all'orizzonte la montagna di Moriah, al momento in cui rimandò gli asini e salì al monte, solo col suo figliolo; perché era preoccupato, non degli ingegnosi artifizi dell'immaginazione, ma, ma degli spaventi del pensiero."

 

Poi Kierkegaard rievoca (con le parole della Bibbia) il comando di Dio ad Abramo di offrirgli in olocausto il figlioletto; rievoca la partenza dei due, di primo mattino, il commiato da Sara, la marcia a dorso di mulo fino al monte Moriah, l'inizio della salita. Isacco, guardando suo padre, capisce quel che lo attende e comincia a scongiurare suo padre di risparmiargli la vita. Isacco dapprima lo esorta a proseguire il cammino con fiducia,; poi, improvvisamente, lo getta a terra e gli grida che non lo sacrificherà per offrire un sacrificio a Dio, poiché lui, Abramo, è un idolatra e fa quel che gli pare. Isacco, sentendosi perduto, prega Dio e lo invoca come il suo unico, vero Padre; a lui chiede misericordia. Abramo, dal canto suo, è sollevato: ha finto di disprezzare Dio perché Isacco, prima di morire, non perdesse la fede in Lui, cosa che sarebbe avvenuta se avesse detto al figlio che si apprestava ad ucciderlo per obbedire a un ordine divino.

È difficile, giunti a questo punto, respingere la tentazione di leggere queste righe in filigrana, ritrovandovi la più intima e sofferta esperienza della vita di Kierkegaard: la rinunzia volontaria al matrimonio con Regina Olsen, la rottura del fidanzamento e l'averle voluto far credere che ciò avveniva per amore di un'altra, in modo che lei se ne facesse una ragione e attribuisse a lui solo ogni colpa, Con quel gesto, Kierkegaared volle proteggere la fanciulla amata dal suo stesso amore, perché sapeva che, altrimenti, ella non avrebbe mai cessato di amarlo, né avrebbe accettato la sua decisione: solo così, assumendo un comportamento incomprensibile, egli sarebbe riuscito a distaccarla da sé, e ciò le avrebbe permesso di non sacrificare la sua vita, di poter ancora essere felice accanto a un altro - come poi era avvenuto. Il sacrificio della cosa più cara al mondo - il figlio Isacco per Abramo, l'amore di Regina per Kierkegaard - accompagnato da un ulteriore, gravosissimo sacrificio: quello delle sue vere intenzioni, per alleviare la sofferenza dell'altro: tale l'analogia inevitabile tra la storia dell'antico patriarca ebreo e quella del giovane filosofo danese, uniti dal peso di un segreto che essi devono portare tutti soli, lontani dalla comprensione (e dalla compassione) del mondo.

 

"Quando il bimbo dev'esser svezzato, la madre si tinge di nero il seno, perché sarebbe cosa crudele che esso restasse desiderabile quando il bambino non deve più trarne nutrimento .Così il bambino crede che sua madre è mutata, ma la madre è sempre la stessa ed il suo sguardo è sempre pieno di tenerezza e di amore."

 

Anche Regina (e i parenti di lei) credette che Sören fosse mutato; lui l'aveva respinta, e al danno aveva aggiunto la beffa: l'aveva lasciata per un'altra donna.  Ma non c'era nessun'altra donna. Egli preferì farle credere che non l'amava più, perché lei soffrisse di meno; o, se non altro, perché consumasse il suo dolore più in fretta, e poi se ne liberasse: come il bambino che dev'essere svezzato. Ma l'esperienza della rinuncia volontaria e della parte del fatuo seduttore avevano segnato Kierkegaard per sempre: da quel momento, egli non conobbe mai più la gioia e la sua vita interiore fu quella di un vecchio.

 

"Da quel giorno, Abramo fu vecchio; non poteva dimenticare quel che Dio aveva preteso da lui. Isacco continuò a crescere. Ma l'occhio di Abramo si era fatto cupo; non vide mai più la gioia."

 

Anche il Nostro visse la rinuncia a Regina come una specie di pretesa di Dio nei suoi confronti; per tutta la vita continuò a sperare che Dio, all'ultimo momento, avrebbe trasformato il suo dolore in gioia, proprio come era accaduto ad Abramo sul monte, sacro il  Moriah.

Con una serio efficacissima di stacchi e di riprese, con uno stile cadenzato e malinconico altamente poetico e suggestivo, Kierkegaard rievoca l'atmosfera in cui si svolse l'esperienza fondamentale nella vita di Abramo: la sua disponibilità ad eseguire l'ordine divino di offrirgli in olocausto il suo unico figlioletto, avuto in tarda età ed amato sopra ogni altra cosa.

 

"Era una sera silenziosa. Abramo cavalcò ancora, solo, verso il monte Moriah. Piegò a terra il suo volto chiedendo perdono a Dio, perdono d'aver voluto sacrificare Isacco, perdono d'aver dimenticato il suo dovere di padre verso suo figlio."

 

A sera, la madre vide Isacco tornare con il padre e si affrettò loro incontro. Nessuno era stato testimone di quella drammatica giornata, quando Abramo aveva estratto il suo coltello per sacrificare il fanciullo. Ma Isacco, Isacco aveva capito ogni cosa; e, silenziosamente, senza più parlarne con alcuno, aveva perduto la fede.

 

 

ELOGIO DI ABRAMO

 

Segue l'Elogio di Abramo: un capitolo di tale potenza evocativa, di così grande bellezza e letteraria e sottigliezza psicologica, che è praticamente impossibile farne un semplice riassunto. È di una densità straordinaria: ogni frase, ogni riga, ogni parola hanno una forza e una ricchezza di sfumature che lasciano senza fiato; e, quel che più colpisce, una sicurezza di tratto e una linearità di direzione, quali raramente si trovano uno scrittore e meno ancora in un filosofo. È come se Kierkegaard procedesse con passo leggero e sicuro camminando sull'acqua, sorretto dalla sola fede, come San Pietro sul lago di Tiberiade nel noto episodio evangelico. Già solo l'attacco è di un vigore e di una profondità eccezionali: la sua perfezione architettonica e la sua assoluta mancanza di sia pur minime sbavature ricorda l'austera, geometrica perfezione delle composizioni per organo del grande Johan Sebastian Bach. In esso, Kierkegaard descrive quale sarebbe la condizione umana se non vi fosse Dio e se non vi fosse una meta trascendente nel viaggio della vita; e la fa da maestro par suo, evocando immediatamente un'atmosfera carica di pathos, di straordinaria intensità e serietà sia etica che psicologica.

 

"Se l'uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo d'ogni cosa ci fosse solo una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d'oscure passioni; se il vuoto senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione? Se così fosse, se non ci fosse alcun sacro legame che unisse gli uomini, se le generazioni si rinnovellassero come le fronde dei boschi, spegnendosi l'una dopo l'altra come il canto degli uccelli nelle foreste; se le generazioni attraversassero il mondo come la nave l'oceano o il vento il deserto, atto cieco e sterile; se l'oblio eterno sempre affamato non trovasse altra potenza alcuna tanto forte da strappargli la preda per la quale è in agguato, che vanità e che desolazione sarebbe la vita! [Leggiamo in agguato e non in aggiunta perché si tratta certamente di un refuso; cfr.anche: Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni Editore, 1993, p. 45].

 

Kierkegaard, che aveva una grande conoscenza della filologia classica, anche se non amava farne sfoggio particolare, certamente avrà avuto una reminiscenza omerica in quel rinnovarsi delle stirpi come le foglie della foresta che ricorda il discorso di Glauco a Diomede nel VI canto dell'Iliade, 146-149.

Poi l'Autore afferma che, al contrario, «nessuno sarà dimenticato, di coloro che furono grandi», e che certo l'eroe è un uomo grande, ma anche il poeta ha un compito grande, benché apparentemente umile: quello di bussare di porta in porta per destare ovunque la stessa ammirazione che lui stesso nutre per l'eroe, sottraendolo così all'oblio, desideroso di cancellarne il ricordo. Ma chi è, poi, l'eroe? Chi è colui che può dirsi "grande"? E risponde:

 

«No, nessuno sarà dimenticato di quelli che furono grandi; ma ciascuno fu grande a suo modo, ciascuno in proporzione alla grandezza che amò. Perché chi amò se stesso fu rande nella propria persona e chi amò altrui fu grande perla sua dedizione; ma chi amò Dio fu il più grande di tutti.

"Ognuno rimarrà nel ricordo; ma ognuno fu grande secondo quello che sperò. Uno fu grande sperando il possibile; un altro sperando l'eterno; ma chi sperò l'impossibile fu il più grande di tutti.

"Ognuno rimarrà nel ricordo, ma ognuno sarà grande secondo l'importanza di quel che combatté. Perché chi combatté contro il mondo fu grande trionfando sul mondo, e chi combatté contro sé stesso fu più grande per la vittoria su sé stesso, ma chi lottò contro Dio fu il più grande di tutti."

 

E qui comincia l'elogio di Abramo vero e proprio. In che cosa consistette la grandezza di Abramo? Nel credere, contro ogni speranza, alla promessa di Dio. La sua grandezza non inizia con l'eroica disponibilità a sacrificare suo figlio Isacco, ma con l'eroica disponibilità a partire dalla Mesopotamia per dirigersi verso la "terra promessa".

 

"Ci furono uomini grandi perla loro energia, per la saggezza, la speranza o l'amore. Ma Abramo fu il più rande di tutti: grande per l'energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follia, grande per la speranza la cui forza è demenza, grande per l'amore che è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una cosa, la sua ragione terrestre, e un'altra ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all'assurdità del suo viaggio, non sarebbe partito. (…)

"Fu per fede che Abramo ricevette la promessa che tutte le nazioni della terra sarebbero state benedette nella sua posterità. Il tempo passava, la possibilità rimaneva. Abramo credeva. Il tempo passò, la speranza diventò assurda, Abramo credette. È pur esistito nel mondo colui che ebbe una speranza. Il tempo passò, la sera fu al suo declino e quell'uomo non ebbe la viltà di rinnegare una speranza, così anch'egli non sarà mai dimenticato. (…)

"Grande è coglier l'eterno, ma è più grande cosa riavere il transeunte, dopo averne fatta rinuncia.

"Poi i tempi furono compiuti. Se Abramo non avesse creduto, sicuramente Sara sarebbe morta di dolore, e lui, roso dalla tristezza, non avrebbe compreso l'esaudimento, ma ne avrebbe sorriso come di un sogno giovanile. Ma Abramo credette, e perciò rimase giovane. Perché chi spera sempre  il meglio invecchia tradito dalla vita, e chi si dispone sempre al peggio è presto consunto; ma chi crede serba una eterna giovinezza. Sia benedetta questa storia! Perché Sara, benché anziana d'età, fu abbastanza giovane per desiderare le gioie della maternità; e Abramo, malgrado i suoi capelli grigi, fu abbastanza giovane per desiderare d'esser padre."

 

La promessa divina sembra adempiuta; Sara ha avuto un figlio maschio, premessa a quella numerosa posterità che ad Abramo era stata annunziata; la gioia è scesa sulla sua casa. Ma ecco che arriva una nuova, terribile prova; ecco che tutto è di nuovo in forse, e un'angoscia terribile entra nel cuore di Abramo: Dio lo mette alla prova con una nuova, perentoria richiesta: sacrificargli il figlio unigenito.

 

"Così, dunque, tutto era perduto, oh sciagura atroce più che se il desiderio non fosse mai stato esaudito. Così il Signore si prendeva giuoco di Abramo! Ecco che, dopo aver realizzato l'assurdo con un miracolo, voleva veder annientata l'opera sua. Che pazzia! (…)

"Tuttavia, Abramo credette; e credette per questa vita. Certo, se la sua fede fosse stata rivolta esclusivamente ad una vita avvenire, si sarebbe sbarazzato più facilmente di tutto, per uscir al più presto possibile da un mondo a cui non apparteneva più. (…) Ma Abramo aveva la fede per questa vita…"

 

Abramo ebbe un unico figlio e lo amò con tutto sé stesso; Giacobbe ne ebbe dodici e ne amò uno solo. Proprio quell'unico figlio, a lungo desiderato e giunto, infine,  contro ogni umana ragionevolezza, ora Dio glie lo chiedeva in olocausto. Se Abramo fosse stato un grande secondo la misura degli uomini, sarebbe salito sul Monte Moriah e avrebbe sacrificato sé stesso, pregando Iddio di accettare quell'estremo sacrificio, e non l'altro, quello dell'unico figlio. Ma la grandezza di Abramo era superiore alla misura umana, ed egli, col cuore serrato nella morsa dell'angoscia, levò il coltello contro Isacco. Egli non dubitò: la richiesta veniva a Dio, dunque bisognava obbedire. E credere. Così, in virtù di quella fede erica, Abramo fu degno di riavere ogni cosa: il figlio gli venne lasciato, e non gli sarebbe stato richiesto mai più. Aveva superato la prova e vinto la battaglia: per questo si era guadagnato una gloria eterna, che mille lingue continuano a celebrare a secoli e secoli dalla sua morte.

 

 

PROBLEMATA

 

Nella Effusione preliminare a questa parte entrale del libro, Kierkegaard riflette sul significato che la storia di Abramo dovrebbe avere nella vita di un cristiano d'oggi. Immagina un predicatore che la racconta, un peccatore che la ascolta, e mostra come la tendenza ormai prevalente è quella di appiattire e di banalizzare l'enormità dello scandalo che la fede comporta, sotto una vernice borghese e rassicurante. Certo, si dice e si ripete che Abramo era pronto a sacrificare a Dio il meglio di ciò che possedeva; ma, con ciò, si presenta come cosa generica e quasi ovvia una decisione straziante, apparentemente assurda e, oltre tutto, apparentemente immorale  che Abramo dovette prendere sulla sola scorta della fede. Infatti,

 

«se la fede non può giustificare il fatto di voler uccidere il proprio figliuolo, Abramo cade sotto il giudizio comune. Che poi, se non si ha il coraggio di andare fino in fondo al proprio pensiero e dichiarare Abramo un assassino, è meglio sempre acquistar quel coraggio piuttosto che perdere il tempo in panegirici immeritati. Dal punto di vista morale, la condotta di Abramo si esprime dicendo ch'egli volle uccidere Isacco, e dal punto di vista religioso, dicendo ch'egli volle sacrificarlo. È questa la contraddizione angosciosa capace di produrre l'insonnia e senza questa angoscia, tuttavia, Abramo non è l'uomo che è."

 

Per parte sua, Kierkegaard si dice in grado di andare sino al fondo di un'idea, senza spaventarsene; o, almeno, di avere semmai abbastanza coraggio da ammettere che un'idea, ad un certo punto, gli fa paura. Lo stupisce, però, e lo sconcerta la disinvoltura con la quale i credenti dicono di poter comprendere la storia di Abramo; perché in essa vi è, al contrario, qualche cosa di umanamente incomprensibile e perfino di repulsivo. Né manca una frecciata, incidentale, contro Hegel e la sua dialettica; la frecciata principale, però, è contro la faciloneria di quei filosofi, magari "cristiani", che dicono di trovare più semplice la storia di Abramo che il sistema hegeliano.

 

"Dev'essere difficile comprendere Hegel; ma Abramo! Uno scherzo. Superare Hegel, è un prodigio; ma superare Abramo, nulla di più facile! Per conto mio, ho impiegato gran tempo nello studio del sistema hegeliano, e credo anzi di averlo abbastanza capoto. Sono persino tanto temerario da credere che, quando malgrado tutti i miei sforzi, non arrivo ad afferrare il suo pensiero in taluni passaggi, ciò voglia dire che il mio autore non è abbastanza chiaro con sé medesimo. Io compio quello studio assai facilmente, in modo affatto naturale, né esso mi dà il mal di capo. Ma, quando mi metto a riflettere su Abramo, sono come annientato. Ad ogni istante i miei occhi cadono sull'inaudito paradosso ch'è la sostanza della sua vita. Ad ogni istante sono respinto indietro e, malgrado il suo appassionato accanimento, il mio pensiero non può penetrar quel paradosso neppure per un capello. Tendo ogni muscolo nella ricerca di una via di uscita. E, simultaneamente, sono paralizzato.(…)

"Ho visto con i miei propri occhi cose terribili e non sono indietreggiato per spavento; ma so benissimo che, se lo ha affrontate senza paura, il mio coraggio non è quello della fede e non è nulla al suo confronto. Io non poso fare il movimento della fede, non poso chiudere gi occhi e gettarmi a testa bassa, pieno di fiducia nell'assurdo. Ciò mi è impossibile; ma non me ne glorio. Ho la certezza che Dio è amore…"

 

Kierkegaard ammette che, se la chiamata del dio di Abramo fosse giunta a lui, sarebbe salito sul Monte Moriah e avrebbe sacrificato il suo unico figlio: ma lo avrebbe fatto con infinita rassegnazione, sulla base del fatto che Dio è amore ma, nella sfera del temporale, non vi è un linguaggio comune tra Lui e noi. La rassegnazione è solo un surrogato della fede: quella di Abramo è stata la vera fede, la fede carica di speranza; non l'enorme stanchezza della rassegnazione: un movimento progressivo dell'anima, non una specie di resa incondizionata. Perciò, il Nostro si sente molto più piccolo di Abramo, anche se altri - dall'esterno - potrebbero giudicare diversamente. La grandezza di Abramo consiste nel fatto che egli credette per assurdo, e contro ogni umana speranza.

 

"Credette per assurdo, perché non si poteva trattare di un calcolo umano. E l'assurdo era nel fatto che Dio, domandandogli quel sacrificio, avrebbe revocato la sua esigenza un momento dopo. Salì il monte, e persino nell'attimo in cui levò il coltello credette - che Iddio non gli avrebbe chiesto Isacco. Certo Abramo fu sorpreso per la soluzione della cosa, ma, con un doppio movimento, egli aveva già raggiunto la sua condizione originaria, e perciò ricevette Isacco con gioia anche più grande della prima volta.(…)

"Se fosse stato un uomo diverso, avrebbe forse amato Iddio, ma non avrebbe creduto; perché amar Dio senza aver la fede, significa rispecchiarsi in sé stessi, ma amar Dio con la fede, significa rispecchiarsi in Dio

"Questa è la vetta sulla quale è Abramo."

 

Poi Kierkegaard descrive come potrebbe essere, secondo lui, un «cavaliere della fede» dei nostri giorni, pur precisando che un uomo simile non l'ha mai incontrato e che, se lo incontrasse, lascerebbe ogni cosa per correre a vederlo e ammirarlo, senza stancarsene mai. Potrebbe essere, dunque, un uomo dall'apparenza comunissima; un uomo dall'aspetto di un agente delle tasse, uno che se ne va passeggio per la via, vestito da bravo borghese, e che s'interessa di ogni cosa camminando con passo sicuro, senza disdegnare le prelibatezze della cucina che sua moglie suole preparargli. Nulla, dall'esterno, lascerebbe trapelare il suo segreto; nulla tradirebbe la sua natura eccezionale, dissimulata sotto l'apparenza ella più comune normalità.

 

"Eppure (è una cosa da diventar furioso, almeno di invidia) quest'uomo ha compiuto e compie a ogni istante il movimento infinito. Egli vuota nell'infinita rassegnazione la melanconia profonda della vita. Conosce la beatitudine dell'infinito. Ha provato il dolore della totale rinunzia di quanto si ha di più caro al mondo. Nondimeno, gusta il finito con la pienezza di movimento di chi non ha mai conosciuto nulla di più elevato. Vi dimora senza traccia del tirocinio che l'inquietudine e il timore fanno subire, e ne gode con tale certezza che sembra non vi sia per lui nulla di più sicuro che questo mondo finito. Eppure tutta l'immagine del mondo che egli produce è una creazione nuova, dovuta all'Assurdo. Si è infinitamente rassegnato a tutto,  per poter tutto riacquistare in virtù dell'Assurdo. Compie costantemente il movimento ma con una tale precisione e sicurezza che ne ricava incessantemente il finito, senza che neppure per un istante sia possibile supporre qualcosa di diverso."

 

Se già in queste ultime righe si può intravedere qualche cosa di autobiografico (non nel senso che Kierkegaard si ritenesse un cavaliere della fede, ma nel senso che aspirava ad assomigliare a un tale modello), poco dopo il riferimento alla sua personale - e, per certi aspetti, misteriosa - vicenda con Regina Olsen diviene abbastanza esplicito.

 

"Un giovane dunque si innamora di una principessa. Tutta la sostanza della sua vta è in quell'amore. E tuttavia la situazione è tale che l'amore non può realizzarsi né tradurre la sua idealità in realtà.

"I miserabili schiavi, ranocchie sprofondate nelle paludi della vita, gridano, naturalmente: «Che follia, quell'amore! La ricca vedova del birraio è un partito proprio altrettanto conveniente e serio». Ma lasciamoli tranquillamente gracidare nel loro fango Il cavaliere dell'infinita rassegnazione non li ascolta. Non rinuncia al suo amore neppure per tutta la gloria del mondo. (…)

"Quando egli ha così completamente assorbito l'amore e vi si è sprofondato , ha ancora il coraggio di tutto osare e rischiare. Abbraccia la vita con uno sguardo, riunisce i suoi rapidi pensieri , che, simili a colombe di ritorno alla colombaia, accorrono ad un minimo cenno; agita su di loro la bacchetta magica ed essi si disperdono ad ogni punto dell'orizzonte. Ma quando ritornano tutti, come tanti tristi messaggeri, per annunziargli l'impossibilità, egli rimane tranquillo, li ringrazia, e, rimasto solo, intraprende il suo movimento.(…)

"Il suo amore per la principessa è diventato per lui l'espressione di una amore eterno. Ha assunto un carattere religioso. Si è trasfigurato in un amore che ha per oggetto l'essere eterno, che certo ha rifiutato di esaudire il cavaliere, ma l'ha, nondimeno, tranquillizzato, dandogli la coscienza eterna della legittimità del suo amore, sotto una forma di eternità che nessuna realtà può strappargli. Gli sciocchi e i giovani si vantano che tutto è possibile all'uomo. Che errore! Dal punto di vista spirituale, tutto è possibile; ma nel mondo del finito, ci sono molte cose impossibili. Eppure il cavaliere rende possibile l'impossibile, esprimendolo spiritualmente; ma egli lo esprime spiritualmente mediante la rinuncia. Il desiderio, che voleva condurlo nella realtà e che si è urtato nella impossibilità, ripiega nel fòro intimo; ma non per questo è perduto né dimenticato. Talvolta il cavaliere prova entro di sé gli oscuri impulsi del desiderio che ridestano il ricordo; talvolta lo provoca lui stesso. Perché è tropo fiero per ammettere che quanto fu sostanza della sua vita intera soia stata una faccenda effimera. Egli serba giovane quell'amore che cresce così in età e in bellezza! E non ha affatto bisogno d'un intervento del finito per favorire la crescita del suo amore. Fin dal momento in cui ha compiuto il movimento, la principessa è perduta. (…) Egli ha capito il profondo segreto. Che cioè, anche nell'amore, bisogna bastare a sé stessi.  Non si interessa più, in un mondo finito, di quel che fa la principessa; e ciò prova appunto ch'egli ha compiuto il movimento infinito. Questa è l'occasione di vedere se il movimento dell'individuo è vero o è bugiardo. (…) Il cavaliere non abbandona la propria rassegnazione, conserva al suo amore la freschezza del primo momento. Non l'abbandona mai; e proprio perché ha compiuto il movimento infinito. La condotta della principessa non saprebbe turbarlo; soltanto le nature inferiori trovano in altrui la legge delle loro azioni, e fuori di sé le premesse delle loro risoluzioni. In cambio, se la principessa è nella stessa disposizione di spirito, vedrà sbocciare la bellezza dell'amore. Essa entrerà da sé nell'ordine dei cavalieri, dove non si è ammessi per votazione, ma di cui è membro chiunque abbia il coraggio di presentarsi da solo. (…)

"La rassegnazione infinita è l'ultimo stadio precedente la fede, di modo che chiunque non ha fatto quel movimento non ha la fede. Perché è soltanto nella infinita rassegnazione che io posso prendere coscienza el mio valore eterno, ed è soltanto allora che si pone il problema di afferrare l'esistenza di questo mondo in virtù della fede. "

 

Fin qui, Kierkegaard ha descritto sé stesso  e la propria situazione spirituale dopo la rottura del fidanzamento con Regina. È consapevole di aver raggiunto solo uno stadio provvisorio, quello della infinita rassegnazione, che non è ancora la fede. Ora egli ritorna all'esempio del cavaliere della fede (quello che potrebbe avere benissimo l'aspetto di un agente delle tasse, un discreto appetito e una moglie che gli prepara buoni cibi per la cena), e mostra come costui sia in grado di compiere il movimento infinito nello stadio finale e risolutivo: quello nella fede.

 

"Vediamo ora il cavaliere della fede nel caso citato. Egli agisce esattamente come l'altro; rinuncia infinitamente all'amore, sostanza della sua vita. Si placa nel dolore. Allora accade il prodigio. Fa un movimento ancor più sorprendente di tutto il resto. E dice: «Io credo nondimeno che avrò colei che io amo, in virtù dell'Assurdo, in virtù della mia fede che ogni cosa è possibile a Dio». L'Assurdo non fa parte delle differenze comprese nel quadro della ragione. Non è identico all'inverosimile, all'inatteso, all'imprevisto. Nel momento in cui il cavaliere si rassegna, egli si convince dell'impossibilità secondo i criteri umani. Tale è il risultato dell'esame razionale che egli ha l'energia di compiere. In compenso, dal punto di vista dell'infinito, la possibilità sussiste, per via della rassegnazione; ma questo possesso è al tempo stesso una rinunzia, senza essere tuttavia un'assurdità per la ragione, perché questa conserva il diritto di sostenere che nel mondo finito, dove è sovrana, la cosa è e resta una impossibilità. Il cavaliere della fede ha, di quella impossibilità, una coscienza altrettanto chiara: la sola cosa capace di salvarlo è l'Assurdo, che egli concepisce per fede. Riconosce dunque l'impossibilità; e simultaneamente crede l'Assurdo. Perché se egli si immagina di aver la fede, senza riconoscere con tutto il suo cuore e con tutta la passione della sua anima l'impossibilità, egli inganna sé steso e la sua testimonianza non può essere ricevuta in alcun modo poiché egli non è nemmeno giunto alla infinita rassegnazione."

 

La fede, dunque, non è l'istinto del cuore, ma il paradosso della vita. La rassegnazione, da sola, non implica ancora la fede, ma solo la rivelazione della coscienza eterna.. Per rassegnarsi non è necessaria la fede: essa è invece necessaria per ottenere qualcosa al di là della propria coscienza eterna. Per mezzo ella fede e in virtù dell'Assurdo, il cavaliere della fede sa che riceverà in premio l'oggetto della sua rinunzia; mentre il cavaliere della rassegnazione non osa spingersi così lontano, e torna a rifugiarsi nel proprio dolore, nel dolore della rinuncia.

 

"Eppure dev'essere cosa magnifica ottenere la principessa. Io me lo ripeto sempre. E il cavaliere della rassegnazione che non se lo dica è un bugiardo che non ha mai conosciuto il desiderio e non ha conservato la gioventù del desiderio nel suo dolore. Forse ve ne sono, di quelli che troverebbero comodo vedere disseccarsi il desiderio e smussarsi la freccia del dolore: ma costoro non sono dei cavalieri. Un'anima ben nata che si sorprendesse in questi sentimenti si disprezzerebbe e ricomincerebbe e soprattutto non sopporterebbe d'essere lo strumento del proprio inganno. Eppure dev'essere cosa magnifica ottenere la principessa. Eppure il cavaliere della fede è il solo che sia felice, l'erede diretto del mondo finito, mentre il cavaliere della rassegnazione è un vagabondo straniero."