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Dante e l'India

di Claudio Mutti - 07/07/2007



            Con la sua "dottrina che s'asconde - sotto il velame delli versi
strani" e con la sua certezza di essere solo il copista di Amore, Dante non
fu un "letterato" più di quanto non lo siano stati un rshi vedico o un
mantrakrt, ma fu un veggente, un enunciatore della verità (satyavâdin).
            (Ananda K. Coomaraswamy)

            Quando sulla montagna del Purgatorio Dante e Virgilio vengono
invitati dall'angelo della castità ad entrare nelle fiamme, perché
altrimenti non potrebbero proseguire la salita, è il tramonto del 12 aprile.
Il sole occupa la medesima posizione in cui si trova quando invia i suoi
primi raggi a Gerusalemme, mentre il fiume Ebro scorre sotto la
costellazione della Bilancia, che è alta nel cielo, e le acque del Gange
sono infuocate dal sole pomeridiano. "Sì come quando i primi raggi vibra -
là dove il suo fattor lo sangue sparse, - cadendo Ibero sotto l'alta
Libra, - e l'onde in Gange da nona riarse, - sì stava il sole" (Purg. XXVII,
1-5). Dante indica l'ora del giorno mediante il riferimento a quattro punti
geografici fondamentali: Gerusalemme, l'Ebro, il Gange, il Purgatorio.
Secondo la geografia dantesca, infatti, la terra abitata dai vivi
corrisponde alla superficie dell'emisfero boreale ed ha al proprio centro
Gerusalemme, la quale, trovandosi agli antipodi del Purgatorio, è
equidistante dall'estremo occidente, segnato dall'Ebro, e dall'estremo
oriente, rappresentato dal Gange. Perciò, quando il sole sorge sul
Purgatorio, all'orizzonte di Gerusalemme il giorno tramonta sull'Ebro e la
notte scende sul Gange; al mattino del 10 aprile, mentre i due poeti erano
ancora alle falde della montagna, il sole era già arrivato all'orizzonte di
Gerusalemme e la notte, girando opposta al sole, usciva dal Gange nella
costellazione della Bilancia (costellazione nella quale esso non si trova
più dopo l'equinozio d'autunno, quando la notte diventa più lunga del dì).
Con le parole di Dante: "Già era 'l sole a l'orizzonte giunto - lo cui
meridian cerchio coverchia - Ierusalèm col suo più alto punto; - e la notte,
che opposita a lui cerchia - uscia di Gange fuor con le Bilance, - che le
caggion di man quando soverchia" (Purg. II, 1-6).
            Che il Gange sia il vero oriente del mondo, Dante lo ribadisce
nell'XI del Paradiso: la "fertile costa" di Assisi, l'Oriente da cui sorse
la luce solare di San Francesco, è equiparata al Gange, dal quale,
nell'equinozio
di primavera, il sole, più luminoso che mai, nasce rispetto al meridiano di
Gerusalemme.
            L'altro grande fiume dell'India, l'Indo, viene assunto nella
Commedia come simbolo dei luoghi orientali non toccati dalla predicazione
cristiana. Nel cielo di Giove l'Aquila, figurazione dell'eterna idea della
giustizia, espone a Dante il dubbio che egli nutre circa il dogma cristiano
della giustificazione per la fede: se "un uom nasce alla riva - dell'Indo, e
quivi non è chi ragioni - di Cristo né chi legga né chi scriva" (Par. XIX,
70-72) e quindi, senza sua colpa, "muore non battezzato e sanza fede" (Par.
XIX, 76), perché mai Dio, che è somma giustizia, lo condanna per l'eternità?
            Gli Indiani, ai confini orientali del mondo, non sono stati
raggiunti dalla buona novella; però furono anch'essi testimoni dell'eclisse
che si verificò alla morte di Gesù ed interessò tutti i popoli della terra:
"all'Ispani e all'Indi, - come a' Giudei, tale eclissi rispose" (Par. XXIX,
101-102).
            Tra le fonti medioevali relative a quell'estrema e sconosciuta
regione vi era il De situ Indiae et itinerum in ea vastitate, ritenuto una
lettera di Alessandro Magno ad Aristotele (1). Da una citazione
dell'epistola contenuta nei Meteora di Alberto Magno (I, 4, 8) Dante
apprende di un episodio di cui Alessandro sarebbe stato protagonista in
India e lo utilizza per costruire una similitudine: "Quali Alessandro in
quelle parti calde - d'India
vide sopra il suo stuolo - fiamme cadere infino a terra salde, - per ch'ei
provide a scalpitar lo suolo - con le sue schiere, acciò che lo vapore - mei
si stingueva mentre ch'era solo: - tale scendeva l'etternale ardore" (Inf.
XIV, 31-37). Insomma, le falde di fuoco che nel terzo girone del settimo
cerchio tormentano i violenti contro Dio (bestemmiatori, usurai, sodomiti)
ricordano a Dante le fiamme che Alessandro vide piovere sul suo esercito
nelle regioni calde dell'India: erano fiamme che restavano accese finché
cadevano a terra, per cui il Macedone ordinò ai soldati di calpestare bene
il terreno, affinché il fuoco si spegnesse meglio finché era isolato.
            La caratterizzazione dell'India come regione particolarmente
calda ritorna in Purg. XXVI, 21-22: "ché tutti questi n'hanno maggior sete -
che d'acqua fredda Indo o Etiopo". Le anime purganti dei lussuriosi notano
che Dante è vivo e ardono dal desiderio di avere da lui una spiegazione più
di quanto ardano per la sete gl'Indiani o gli Etiopi.
            Un'altra meraviglia dell'India di cui Dante è al corrente, è che
laggiù crescono alberi altissimi: la notizia gli proviene verosimilmente da
Virgilio, secondo il quale in quell'estrema parte del mondo, nelle vicinanze
dell'Oceano, vi sono alberi tanto alti, che nessuna freccia potrebbe
raggiungerne la cima (2). Ma l'Albero della Conoscenza del Bene e del Male
si eleva ancora più in alto, sicché costituirebbe oggetto di meraviglia per
gl'Indiani: "La coma sua, che tanto si dilata - più quanto più è sù, fora da
l'Indi - ne' boschi per altezza ammirata" (Purg. XXXII, 40-42).
            Ma nel Purgatorio ci sono due altri alberi (Purg. XXII-XXIII e
in Purg. XXIV) che ci rimandano all'India: sono quelli che si trovano presso
la cima della montagna, al di sotto della pianura del Paradiso Terrestre. Il
primo albero "è l'immagine riflessa e rovesciata dell'Albero della Vita, di
cui le anime del Purgatorio (cosmico) hanno fame e sete, ma di cui non
possono aver parte e su cui non possono neppure salire" (3), mentre il
secondo costituisce una "immagine rovesciata dell'Albero della Conoscenza
del Bene e del Male" (4). Così il grande erudito anglo-indiano Ananda K.
Coomaraswamy, il quale esamina il simbolo dell'Albero Rovesciato sulla base
delle descrizioni che vengono fornite dai testi indiani, e non solo da
quelli, poiché "l'idea di un albero diritto e di uno rovesciato ha una
diffusione nel tempo e nello spazio che va da Platone a Dante e dalla
Siberia all'India e alla Melanesia" (5). Vi sono però alcuni elementi che
accomunano la descrizione dantesca a quella indiana in particolare: ad
esempio, sul primo dei due alberi rovesciati "cadea de l'alta roccia un
liquor chiaro - e si spandeva per le foglie suso" (Purg. XXII, 137-138),
così come "gocciolante di soma" (soma-savanah) è il Fico del Brahmaloka,
descritto in Chândogya-upanishad, VIII, 5, 3-4.
            Infine, bisogna prendere in considerazione anche Purg. VII, 74,
un verso letto e interpretato in diversi modi, nel quale però sarebbe
presente, secondo alcuni studiosi (Scartazzini, Sapegno, Mattalia), il
sintagma "indico legno". Si tratterebbe della lychnis Indica, una pietra
preziosa citata da Plinio ("Quidam enim eam dixerunt esse carbunculum
remissiorem"); per via del suo fulgore, essa è stata evocata nella
descrizione della valletta dei principi, i cui colori vividi e smaglianti
ricordano lo splendore delle miniature e delle gemme preziose.

            * * *

            Tra le numerose analogie che Coomaraswamy riscontra tra la
Commedia e le Scritture sacre dell'India, alcune ci sembrano particolarmente
degne di nota. Il tema della "paternità solare", enunciato ad esempio in
Shatapatha Brâhmana I, 7, 6, 11, è presente anche in Par. XXII, 116; il
simbolismo dell'incesto di Prajâpati, sposo e figlio di Vâc (Pancavimsha
Brâhmana VII, 6; XX, 14) è identico a quello che si connette alla
definizione di Maria come "Vergine madre, figlia del tuo figlio" (Par.
XXXIII, 1); i "tre mondi" (sâttvika, râjasika e tâmasika) in cui secondo il
pensiero indù si differenzia la manifestazione universale trovano riscontro
nella tripartizione cosmica descritta in Par. XXIX, 32-36; all'imposizione
della corona e della mitra, che ha luogo nel rituale indù della
"vivificazione del re", assistiamo anche in Purg. XXVII, 142; ecc. ecc.
            Già altri studiosi dell'opera di Dante avevano fatto riferimento
all'India. Dante Gabriele Rossetti (1828-1880), basandosi sull'assunto che
"le scuole segrete son modellate, presso a poco, sopra un solo sistema" (6)
e "spesso impiegano vocaboli d'idiomi stranieri per dare un lampo di quegli
arcani che non osano apertamente spiegare" (7), aveva addirittura creduto di
rintracciare la sillaba sacra OM in due versi di Dante: "Chi nel viso de li
uomini legge 'omo'" (Purg. XXIII, 32) e "O om che pregio di saver portate"
(Rime, Savete giudicar vostra ragione, 2). Arturo Graf (1848-1913) aveva
notato che la Commedia e la tradizione indiana attribuiscono ai luoghi della
beatitudine caratteristiche simili: se nella "divina foresta spessa e viva"
(Purg. XXVIII, 2) regna "un'aura dolce, sanza mutamento" (Purg. XXVIII, 7),
il monte Meru non conosce "né le tenebre, né le nubi, né intemperie di
nessuna sorta" (8). Angelo De Gubernatis (1840-1913), oltre ad avere
rintracciato un prototipo indiano della figura di Lucifero (9), aveva
identificato la montagna del Purgatorio col Picco di Adamo dell'isola di
Taprobane (vale a dire Ceylon), che il mappamondo di Marino Sanudo collocava
nel 1320 all'estremo limite orientale della terra: "Posto che non sia più
alcun dubbio che Dante collocasse il Purgatorio in una isola, creduta
deserta, agli antipodi di Gerusalemme, non mi pare ora che occorra molta
fatica a discoprire che una tale isola, secondo la mente di Dante, doveva
essere la terra sacra di Seilan" (10). De Gubernatis aveva anche ipotizzato
che vi fosse il "paesaggio indiano" (11) all'origine della raffigurazione
dantesca del carro trionfale tirato dal grifone (Purg. XXIX, 106-120). Meno
sicuro nell'indicare l'ubicazione della montagna del Purgatorio era stato
Miguel Asìn Palacios: "Cual fusese esta montaña, ya no es tan fàcil de
precisar, porque las opiniones se dividen: bien se la supone en Siria, bien
en Persia, bien en Caldea, bien en la India, pero esta ultima situaciòn ha
sido la predominante" (12). Giovanni Pascoli (1855-1912), al quale la
Commedia procurava "la vertigine dei libri dell'antica India" (13), aveva
abbozzato un parallelo tra il principe Siddharta e l'Alighieri, Buddha
dell'Europa:
"Così il nostro Shakya, come lo Shakya indiano, così l'eremita come l'esule,
a distanza di venti secoli, cominciano dalla profonda considerazione
dell'umana
miseria. Io vedo l'uno estatico a' piedi del fico, ashvattha ficus
religiosa; l'altro errante nell'ombra della selva. E dalla miseria si
elevano, l'uno per svanire nel Nirvana, e l'altro per profondare nel Miro
Gurge. E tutti e due dalla miseria escono ispirati a predicare a tutti la
pace e l'amore: la felicità" (14). René Guénon (1886-1951) aveva paragonato
"l'Imperatore, come lo concepisce Dante, (.) al Chakravartî o monarca
universale degli Indù, la cui funzione essenziale è di fare regnare la pace,
sarvabhaumika, vale a dire stendentesi su tutta la terra" (15).
            Tra gli studi recenti, ci limiteremo qui a segnalare un saggio
di Nuccio D'Anna sul De vulgari eloquentia, nel quale, per far comprendere
il senso e il fondamento dell'ermeneutica linguistica di Dante, viene
richiamato l'analogo procedimento indiano del nirukta, esemplificato dal
brano di un testo sanscrito relativo a tale argomento (16). Nella Prefazione
del saggio, d'altronde, l'autore avverte che una migliore conoscenza dei
testi orientali concernenti il simbolismo linguistico - e a titolo
esemplificativo egli cita, tra gli altri, anche i "Tantra indù" (17) - ci
farebbe comprendere che la struttura simbolica dell'opera di Dante è
straordinariamente vicina a quella delle altre culture tradizionali
dell'Eurasia.

            * * *

            Quando Dante scrive la Commedia, a Delhi regna una dinastia
afghana d'origine turca (18), quella dei Khalgî, inaugurata da Gialâl ud-dîn
Fîrûz (1290-1296). Alla morte di quest'ultimo, 'Alâ' ud-Dîn Khalgî Muhammad
Shâh (1296-1316) riconquista il Gujarât e nel 1303 si impadronisce di
Chittoor nel Rajasthan. Sotto la guida di 'Alâ' ud-Dîn il Sultanato di Delhi
sottomette quasi tutti i regni indù del sud e dell'ovest e si trasforma in
un impero subcontinentale, raggiungendo così il culmine della potenza
politica, dello splendore culturale e della prosperità economica. Alla morte
di 'Alâ' ud-Dîn, il trono viene usurpato da Khusraw Khân, un cortigiano
apostata dell'Islam, che getta il regno nell'anarchia, finché nel 1320 la
situazione viene salvata da Ghâzî Malik Tughluq, il quale instaura un
governo esemplare ma destinato a durare pochi anni (1320-1325). Tra il 1253
e il 1325, in un arco di tempo che coincide con quello della vita di Dante,
operò nel Sultanato di Delhi Amîr Khusraw Dihlawî, un famoso poeta formatosi
alla scuola del grande shaykh Nizâm al-Dîn Awliyâ' (m. 1325), importante
figura della Cishtiyya, l'ordine iniziatico fondato da Mu'în ud-dîn Hasan
Cishtî (1142-1236).
            Di tutto ciò, Dante seppe poco o nulla. Ma neanche in India si
ebbe notizia di Dante fino al secolo XIX, quando la diffusione della lingua
inglese favorì negli studiosi indiani il contatto con le letterature
europee. "E poi, per mera coincidenza, l'uomo che in veste di esperto
consigliò alla East India Company, nel suo famoso documento sull'istruzione
in India nel 1834, non solo l'uso della lingua inglese come mezzo di
espressione negli uffici, nei tribunali e nelle scuole, ma anche
l'insegnamento
della scienza, della filosofia, della medicina, e dell'economia politica
europee, e cioè Lord Macaulay, era un appassionato ammiratore della poesia
di Dante, e quindi è molto improbabile che non solo il suo saggio sul poeta
(in Criticism on the principal Italian writers, 1824) ma anche il suo
celebre confronto fra Dante e Milton (pubbl. nell'agosto 1825 nella
"Edimburg Review"), fossero sfuggiti agli studiosi indiani di letteratura
inglese, e che questo stesso saggio non costituisse una delle prime letture
critiche, se non proprio la prima lettura, su Dante per un principiante di
letteratura italiana, e non solo per un principiante" (19).
            Così vi furono poeti e prosatori che intrapresero lo studio
dell'italiano
al fine di poter leggere Dante nell'originale. Tra questi va citato
innanzitutto il massimo poeta bengalese dell'Ottocento, Michael Madhûsudan
Datta (1824-1873), autore del primo poema epico in lingua bengalese,
Meghanath-Badh (1861-'62), nel quale l'influenza di Dante si rivela
"soprattutto nella concezione dell'Inferno e nell'attuazione di questa
concezione in termini descrittivi, geografici e topografici" (20). Alla
Commedia si ispira anche un poema filosofico di Hemachandra Vanyopadhyaya
(1838-1903), Chhayamayi (1880), dove i peccatori vengono assegnati alle
varie zone dell'inferno a seconda dei loro peccati. Lo stesso Hemachandra,
d'altronde,
riconobbe esplicitamente il proprio debito nei confronti di Dante.
Rabindranath Tagore (1861-1941) già all'età di sedici anni pubblicò un
articolo su Dante (e uno su Petrarca). Shri Aurobindo (1872-1950) studiò
ininterrottamente la Commedia e ai suoi giovani discepoli che componevano
poesie (in bengalese e in inglese) propose i modelli di Dante, Milton e
Goethe. Suo fratello Manmohan Ghose (1867-1924), studioso delle letterature
europee, aveva avuto tra i propri compagni di studi Laurence Binyon
(1869-1943), traduttore inglese di Dante. La poetessa Toru Dutt (1856-1877)
scrisse un commento critico sulla traduzione della Commedia eseguita da
Antonio Deschamps. Un'altra poetessa che deve essere menzionata per
l'interesse
nutrito nei confronti di Dante è Sarojini Naidu (1879-1949), "l'usignolo
dell'India"; fu la prima donna a presiedere il Congresso Nazionale Indiano e
a governare, dopo l'indipendenza, lo stato dell'Uttar Pradesh. Dinesh
Chandra Datta tradusse la Bhagavad Gita in terzine dantesche e scrisse un
sonetto A Dante (21). Terminiamo questa breve rassegna citando Muhammad
Iqbal (1873-1938), il massimo poeta contemporaneo dell'India musulmana,
autore tra l'altro di un Jâvêd-nâma in lingua persiana che si inserisce
nella tradizione dei poemi sull'Ascensione notturna del Profeta Muhammad e
ricorda simultaneamente il viaggio celeste di Dante. Iqbal "fu influenzato
soprattutto dalle tre grandi 'Divine Commedie' dell'Occidente, quella
dantesca (che conosceva in traduzioni inglesi, quella miltoniana e quella
goethiana" (22). Nel 1932, lo stesso anno in cui veniva pubblicato a Lahore
il Jâvêd-nâma di Iqbal, sempre a Lahore usciva su "The Muslim Revival" un
articolo di un non meglio precisato Inayat Ullah sulle ricerche effettuate
dagli studiosi europei circa le fonti orientali della Divina Commedia (23).
            Termineremo con una curiosità. Non sappiamo di traduzioni di
Dante in sanscrito; risulta invece che un brano dell'Inferno (l'episodio del
Conte Ugolino nei canti XXXII-XXXIII) venne tradotto in sanscrito da un
italiano: l'accademico d'Italia Arturo Farinelli (1867-1948).

            * Redattore di "Eurasia". Autore di saggi pubblicati in Italia
ed altrove.

            1. Versione italiana integrale in G. Tardiola (a cura di), Le
meraviglie dell'India, Roma 1991.
            2. "Aut quos Oceano propior gerit India lucos, - extremi sinus
orbis, ubi aëra vincere summum - arboris haud ullae iactu potere sagittae?"
(Georg. II, 122-124).
            3. A. K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e
arte, Adelphi, Milano 1987, p. 340.
            4. A. K. Coomaraswamy, op. cit., p. 341.
            5. A. K. Coomaraswamy, op. cit., p. 333. Per una più ampia
rassegna delle descrizioni indiane dell'Albero del Mondo, cfr. A. Zucco, Il
significato originario di un'antica parabola (Mahâbh., XI, 5, 6, 7) e la sua
diffusione letterario e artistica in Oriente e Occidente, Istituto di
Glottologia, Università degli Studi di Genova, 1971.
            6. G. Rossetti, Il mistero dell'amor platonico del Medio Evo,
Arché, Milano 1982, vol. I, p. 78).
            7. Ibidem.
            8. A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo,
Arnaldo Forni, Bologna 1980, vol. I, p. 23).
            9. A. de Gubernatis, Le type indien de Lucifer chez Dante, in
Actes du Xe Congrès des Orientalistes. Questo scritto, che non ci è stato
possibile rintracciare, viene citato da R. Guénon (L'esoterismo di Dante,
Atanòr, Roma 1971, p. 47 n.) assieme a un altro articolo del medesimo
autore: Dante e l'India, "Giornale della Società asiatica italiana", vol.
III, 1889, pp. 3-19. Parlando (in L'esoterismo di Dante, cit., pp. 46-47) di
coloro che "arrivano fino a supporre che Dante abbia potuto subire
direttamente l'influenza
indiana", Guénon riferisce inoltre di un "estremamente superficiale" Essai
sur la philosophie de Dante (Faculté des Lettres, Paris 1838), il cui
autore, Antoine Frédéric Ozanam, scorge nella Commedia un'influenza indiana,
oltre che islamica.
            10. A. de Gubernatis, Dante e l'India, cit., p. 10.
            11. A. de Gubernatis, Dante e l'India, cit., p. 15.
            12. M. Asìn Palacios, La escatologìa musulmana en la Divina
Comedia, Hiperiòn, Madrid 1984, p. 195.
            13. G. Pascoli, Prefazione alla Prolusione al Paradiso, in
Prose, vol. II Scritti danteschi Sezione II, Mondadori 1957, p. 1578.
            14. Ibidem.
            15. R. Guénon, op. cit., p. 62.
            16. N. D'Anna, La Sapienza nascosta. Linguaggio e simbolismo in
Dante, I libri del Graal, Roma 2001, pp. 43-44.
            17. N. D'Anna, op. cit., p. 10.
            18. Sotto la voce India dell'Enciclopedia dantesca, Istituto
della Enciclopedia Italiana, Roma 1971, vol. III, p. 420, Adolfo Cecilia,
scrive invece che "Ai tempi di D. la regione (.) era praticamente tutta
sotto il dominio degli Arabi" (sic).
            19. Ghan Shyam Singh, Fortuna di Dante in India, in Enciclopedia
dantesca, cit., p. 421 s. v. India.
            20. Ghan Shyam Singh, ibidem.
            21. Trad. it. in Ghan Shyam Singh, cit., p. 423.
            22. A. Bausani, in: M. Iqbal, Il poema celeste, Leonardo da
Vinci, Bari 1965, p. 34. Su Iqbal cfr. C. Mutti, Avium voces, Edizioni
all'insegna
del Veltro, Parma 1998, pp. 53-59.
            23. G. Galbiati, Dante e gli Arabi, in AA. VV., Studi su Dante,
Hoepli, Milano 1939, p. 195.