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Kosovo: alla stretta finale?

di Stefano Vernole - 07/07/2007

La minaccia di Christina Gallach, portavoce dell'Alto rappresentante europeo per la politica estera, di “tagliare il nodo kosovaro” qualora Mosca continui nel suo ostruzionismo al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, è stata prontamente rispedita al mittente dall'ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandr Alekseiev che ha ribadito: “L'UE non si permetta toni duri con la Russia”.
La sua risposta fa il paio con quella dell'attuale capo di governo serbo, Vojislav Kostunica, il quale dopo la promessa d'indipendenza al Kosovo elargita da Bush jr. alle masse albanesi poche settimane fa, aveva definito “disgustose” le parole del presidente degli Stati Uniti.
Il nodo diplomatico sta tutto fra la Risoluzione 1244 dell'ONU che fu approvata nel giugno 1999 per convincere Slobodan Milosevic a firmare la resa ma che garantisce la sovranità della Serbia sul Kosovo e Metohija e il piano elaborato ormai da mesi dal mediatore finlandese Marthi Athisaari, che prefigura sostanzialmente il distacco della provincia da Belgrado.

Se da una parte coloro che vogliono consegnare il Kosmet alla sua maggioranza albanese appaiono sostanzialmente inattaccabili, contando sul parere favorevole degli Stati Uniti, della NATO e di quasi tutti i paesi dell'Unione Europea, i sostenitori dell'integrità territoriale serba possono – rispetto al 1999 – contare su due nuovi fattori favorevoli: la non criminalizzazione dell'attuale leadership serba, certamente non compromessa con le guerre jugoslave d'inizio anni '90, la riscossa geopolitica della Russia, la quale rispetto ad otto anni fa può far valere nell'arena internazionale il suo recuperato status di grande potenza.

Proprio in virtù di esso, Mosca non solo può ora atteggiarsi come fece nel XIX e inizio XX secolo a “protettrice dei fratelli ortodossi” ma appare in grado di concretizzare questi proclami con una strategia di forte penetrazione economica nell'area balcanica.

Se l'influenza imprenditoriale russa è già molto forte nel vicino Montenegro, l'annuncio di Putin relativamente a un oleodotto che trasporterà il proprio petrolio fino in Serbia, gli ha spalancato le porte per un eventuale acquisto della JAT (la compagnia aerea nazionale serba) e della Nis Petroleum (società petrolifera chiave del paese).
Forti di questi rinnovati legami, Belgrado e Mosca possono adesso alzare la voce, denunciando il doppiogiochismo occidentale che mentre da un lato vuole separare il Kosovo e Metohija dalla Serbia, dall'altro si guarda bene dal sostenere le rivendicazioni secessioniste in Abkhazia, Ossezia del Sud, Transnistria e Nagorno Karabakh, quattro entità filorusse nel Caucaso e in Europa orientale che hanno appena costituito il “Commonwealth delle nazioni non riconosciute”.

A causa di questa intricata situazione diplomatica che potrebbe presto sfociare in una nuova e dura crisi internazionale, l'appuntamento del 28 giugno – il giorno di Vidovdan per i Serbi – anniversario della battaglia di Kosovo Polje del 1389, si presentava quest'anno particolarmente interessante.

L'atmosfera a Belgrado è stata tutto sommato tranquilla, confermando la tradizione di una città che solo in casi rarissimi trascende dalla sua storica signorilità; tutti gli alberghi della capitale sono comunque strapieni, a sottolineare l'eccezionalità della ricorrenza.
Vista la bella giornata di sole semifestiva, molte persone si riversano in strada e nella zona pedonale, affollando le due mete principali del centro cittadino, la “Fortezza” da una parte e la Chiesa di San Sava (patrono nazionale) dall'altra.
Dal punto di vista politico bisogna sottolineare il notevole salto di qualità del Sedep, organizzazione che raggruppa i Serbi della diaspora, il cui affollato congresso tenutosi nel lussuoso Sava Center è stato in questa circostanza seguito da numerose emittenti radiotelevisive.
Il premier Kostunica ha a sua volta evocato in un'intervista al quotidiano Politika “una nuova battaglia per il Kosovo tra la forza e il diritto”, dove la prima sarebbe rappresentata da Washington e il secondo da Belgrado, ribadendo inoltre come la regione contesa appartenga alla Serbia e “sempre le apparterrà”.

Di tutt'altro tenore, invece, l'appuntamento (massicciamente propagandato dai manifesti sui muri della capitale) del 28 giugno a Gazimestan, nella “Piana dei Merli”o Kosovo Polje vicino a Pristina, luogo di ritrovo anche in questa quest'occasione per oltre un migliaio di Serbi.
Alcuni di essi sono semplicemente scesi dal Nord del Kosovo, zona ancora a forte densità serba, ma altri sono giunti direttamente da Belgrado dopo un estenuante viaggio di due settimane simbolicamente compiuto a piedi.

La comunità albanese, che da tempo aveva ricevuto notizia di questo clamoroso blitz, prometteva un'accoglienza armata a questi “avventurieri” ma l'intenso dispiegamento delle truppe internazionali, ormai da otto anni stazionate nella provincia, ha impedito ogni incidente.
Peraltro, il pullman della “Guardia di Re Lazar”, gruppo paramilitare costituitosi da alcune settimane nel Sud della Serbia e dichiaratosi disposto a lottare con ogni mezzo per impedire l'indipendenza del Kosmet dalla Madrepatria, è stato bloccato ad Obilic, alcuni chilometri prima della “Piana dei Merli”.

Lasciata la capitale, il 29 giugno anche noi ci siamo diretti nel cuore della “crisi”, senza però perdere l'occasione di visitare gli splendidi monasteri nella parte meridionale della nazione datati 1100 e 1200, Studenica e Zica, dove la Chiesa ortodossa serba conobbe la propria autocefalia e i primi re serbi trovarono sepoltura.

Alla frontiera, poco prima di Leposavic, ci siamo ricongiunti con il pullman organizzato dal Sedep e spinti verso Kosovska Mitrovica, la città divisa tra le due comunità principali del Kosovo e Metohija da un ponte sul fiume Ibar.
Nella zona nord incontriamo lo sguardo fiero dei pochi Serbi rimasti; si tratta dei sopravvissuti ai bombardamenti della NATO e ai vari pogrom scatenati dagli estremisti albanesi dell'ex UCK, uomini che secondo le parole della loro guida – Oliver Ivanovic – sono pronti a un nuovo conflitto per salvare almeno i pochi chilometri di territorio che li separano dal confine con la Serbia.

La prossima tappa è il Patriarcato ortodosso di Pec, il maggiore riferimento religioso ma in fondo anche politico per la minoranza serba del Kosmet; prima di partire, la polizia opta per una scorta al pullman del Sedep che vuole - come meta intermedia - fermarsi a Gazimestan, noi lo seguiamo qualche chilometro poi vista la velocità eccessiva e le manovre non proprie “urbane” dei veicoli albanesi che si frappongono tra noi e loro, decidiamo di proseguire direttamente verso il Patriarcato.

D'altronde che non fossimo graditi lo si era capito subito: fermi ad un incrocio dietro al mezzo della diaspora e in attesa di essere scortati, le forze dell'ordine (quasi tutti membri dell'ex UCK ...) ci domandano cosa aspettiamo a ripartire, negando ironicamente ma con vigore l'esistenza di qualsiasi pullman ...
Abbastanza sicuri che comunque la nostra targa italiana non darà adito a sospetti, ci avviamo da soli in mezzo al traffico caotico delle cittadine ormai interamente abitate da albanesi, non senza fermarci per scattare qualche foto alle varie pizzerie “Aviano” e ai manifesti inneggianti a Bush.

Giunti finalmente a Pec il problema diventa quello di trovare la strada per il Patriarcato ortodosso, stante l'assoluta mancanza d'indicazioni; scartata l'idea di chiedere informazioni alla popolazione locale, c'imbattiamo in un ufficio dell'OCSE, dove un paio di funzionari, dai tratti anch'essi albanesi, ci indicano più o meno la direzione specificando che per loro si tratta del “Canyon Rugova”.
Svoltati in Via Generale Wesley Clark (il comandante statunitense protagonista dei bombardamenti del 1999) scorgiamo ormai la meta, presidiata da un folto contingente militare italiano, il quale dopo averci ricordato che l'atmosfera è quella dei giorni pesanti - disbrigate le varie pratiche burocratiche - ci concede l'accesso.

L'accoglienza, così come lo scorso anno al monastero di Gracanica, è splendida; una delle responsabili, l'indomita signora Dobrila Bosovic, si prodiga per metterci a nostro agio sistemandoci in una delle stanze del complesso che costituisce il Patriarcato, privilegio concesso a pochi, e soprattutto s'intrattiene alcune ore con noi per narrarci dei suoi sforzi volti ad alleviare le sofferenze della comunità serba e a tutelarne le proprietà.

La preoccupazione maggiore di tutti i residenti è quella di essere nuovamente esposti ai pogrom delle bande albanesi subito dopo la proclamazione dell' inevitabile indipendenza e se nel marzo 2004 la buona volontà di qualche ufficiale li ha salvati dal saccheggio stavolta il dramma potrebbe essere totale; qualche piccola speranza la ripongono ancora nel veto di Mosca al Consiglio di Sicurezza dell'ONU ma sono consapevoli che la partita diplomatica sta volgendo al termine.
La visita ai “tesori” delle chiese di Pec continua l'indomani, poi mentre i rappresentanti della diaspora vanno a portare la loro solidarietà all'enclave serba di Gorazdevac, noi – con meno tempo a disposizione – lasciamo a malincuore il Patriarcato e imbocchiamo la strada che dalle montagne conduce all'altro gioiello del Kosmet, il monastero di Decani.

Preavvisati della nostra visita, i militari italiani ci fanno accedere senza alcun problema e ugualmente i monaci ci concedono una lunga visita all'interno.

Dopo aver visto tanti gioielli storico-artistici in pochi giorni sembrerebbe impossibile rimanere ancora stupiti, ma la bellezza quasi violenta degli affreschi di Decani ci colpisce in maniera insuperabile; la tranquillità e l'atmosfera, quasi perfetta, generata dallo stile di vita dei monaci che abitano i possedimenti circostanti genera un contrasto difficilmente spiegabile con il vitalismo incontrollabile che caratterizza ormai le varie città della provincia, impazienti di una decisione sul futuro status da troppo tempo prorogata.

Chi come Bush jr. pensa però di poter fare degli scambi come ad un mercato delle vacche texano, “indipendenza al Kosovo” in cambio dell' “accesso della Serbia all'Unione Europea e alla NATO” si sbaglia di grosso e dovrebbe meditare sul valore spirituale che i 1.200 monasteri del Kosovo e Metohija rivestono per il popolo serbo.
Allo stesso tempo l'Europa, evidentemente incurante del fallimento che le truppe internazionali (con le dovute eccezioni) hanno riportato nella protezione di questi monumenti risalenti alla Cristianità medioevale, dovrebbe prestare molta più attenzione al vaso di pandora che il “Piano Athisaari” potrebbe a breve scoperchiare.

Nel nostro ritorno verso l'Italia, dopo aver attraversato la splendida cornice naturale delle montagne montenegrine ed esserci riposati nella cittadina di Niksic, abbiamo compiuto un breve percorso all'interno della Repubblica Serbia di Bosnia, a Trebinje, dove a distanza di anni nulla sembra essere cambiato.
Ancora i cartelli di “Benvenuto nella Republika Srpska”, le divise della polizia con l'aquila serba, i rigidi controlli della polizia croata all'uscita, alla faccia dell'unità bosniaca ventilata dalla “Comunità Internazionale” ...
Dare perciò soddisfazione all'indipendentismo albanese del Kosovo, senza soddisfare quello in Montenegro, Macedonia, Presevo, Chamuria o quello serbo-bosniaco di Pale rischia di far precipitare la regione balcanica in un nuovo conflitto generalizzato: in questo caso Washington potrà anche non ridere, ma Bruxelles piangerà sicuramente ...



Vernole, Stefano: redattore di "Eurasia, rivista di studi geopolitici". Dottore in storia contemporanea.
Contributi pubblicati in Eurasia: Palestina: una diplomazia tra speranze e illusioni (nr. 1/2005, pp. 179-200), La "spina" tibetana (nr. 1/2006, pp. 165-175), L'Armata Popolare cinese: un nuovo modello di esercito (nr.3/2006, pp. 91-95), La terza guerra fredda (nr. 2/2007).
Coautore (con Yves Bataille) di Lotta per il Kosovo, Quaderni di geopolitica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, di prossima pubblicazione.
Inviato in Kosovo per Eurasia, è stato osservatore in Transnistria per i referendum e le elezioni presidenziali.