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Turboliberismo al caviale: Imperialismo e Stati nazionali

di Ernesto Ferrante - 07/07/2007




La polarizzazione mondiale più che di classe, come si sforza di sostenere ancora qualche intellettuale di scuola marxista, è soprattutto geopolitica. Lo sviluppo, sotto lo scudo imperialistico statunitense, di nuovi paesi, con esportazione ed espansione del sistema di produzione turboliberista e del way of life che ne deriva, serve a compensare la carenza di accumulazione. è vero che il tasso di sviluppo attribuito statisticamente ai paesi di nuova industrializzazione è spesso più del doppio di quello residuale delle aree dominanti. Spesso questo “sviluppo” è solo apparente, poiché non dipende tanto dal capitale nazionale locale quanto dal grande capitale transnazionale. La nuova localizzazione industriale e divisione internazionale del lavoro - attraverso le citate filiere produttive, le reti direzionali gerarchicamente ordinate di imprese e il sistema finanziario di banche e borse integrato dai nuovi investitori istituzionali, agisce, infatti, su tutto il mercato mondiale. Non riguarda, in altre parole, solo i paesi dominanti da cui proviene e quelli dominati di destinazione: l’integrazione è molto più omogenea e funzionale, e risponde a un preciso disegno della nuova strategia industriale finanziaria delle grandi imprese transnazionali. La subordinazione degli stati nazionali al potere transnazionale rientra in tale strategia. L’esigenza internazionale di diversità di forme esecutive statuali non vuol dire affatto che oggi gli Stati nazionali non abbiano più funzioni. Il loro ruolo è profondamente mutato e deperito rispetto alla precedente autonomia “nazionale”, trasformata piuttosto in articolazione territoriale nazionale o di area macroregionale del capitale mondiale. La loro posizione è diametralmente opposta, a seconda che lo “Stato” in oggetto sia chiamato a svolgere un ruolo dominante, aggregante e aggregato, o dominato, disgregato e disgregante. Dunque, se si vuol comprendere tutto lo spessore dell’imperialismo attuale, è necessario esaminare le rinnovate funzioni affidate agli Stati nazionali, così ridefiniti, dal grande capitale monopolistico finanziario transnazionale. Funzioni anzitutto economiche e di raccordo finanziario e monetario per la concentrazione del denaro e la circolazione del capitale.
Ma tali compiti possono essere espletati concretamente solo se le “forme istituzionali” che li debbono racchiudere siano ad essi adeguate e corrispondenti. Dunque le riforme istituzionali e le revisioni costituzionali che caratterizzano e accompagnano la presente fase storica, non sono manifestazioni di un disordine “politico” ma rappresentano una tappa necessaria del generale riassetto del potere imperialistico internazionale. La caricatura plebiscitaria e maggioritaria della democrazia diretta è consona e funzionale a questa mistificazione istituzionale. Contraddittorio è l’uso dello Stato da parte del capitale che si manifesta attraverso forme di amministrazione e di gestione della “cosa pubblica” sempre diverse. Nella misura in cui il capitale tenda ad un processo oggettivo di “socializzazione”, anche l’uso privatistico che il capitale stesso fa delle strutture e infrastrutture statuali soffre della medesima ambiguità.
Si propone al popolo elettore l’opportunità di apprezzare la gestione dello Stato come un’azienda, perché l’azienda venga accettata come Stato. Il nuovo, che poi è vecchio, falso mito dell’azienda-Italia, riproposto negli ultimi tempi anche dal neo Masaniello al caviale Luca Cordero di Montezemolo ne è un esempio. Dalla sottomissione formale dello Stato al capitale si passa così alla fase della sua sottomissione reale. Il tristemente noto sistema maggioritario, con la corrispondente concentrazione di potere esecutivo a discapito delle assemblee elettive (quali che esse siano e per quanto poco esse possano poi incidere davvero) è intrinsecamente connesso all’imperialismo finanziario contemporaneo. Del resto, simili regole deliberative sono quelle già da tempo in vigore nei consigli d’amministrazione delle grandi società per azioni, gestite a colpi di pacchetti minoritari per il controllo della maggioranza. L’equivoco di una presunta lotta contro lo “statalismo” da parte del neoliberismo vuole solo occultare le mutate ed accresciute forme di subordinazione dello Stato che sempre è e rimane Stato del capitale e per il capitale al capitale transnazionale stesso e ai suoi organismi o articolazioni sovranazionali. Mai è stata tanto forte l’occupazione dello stato da parte dei poteri finanziari: l’esempio Usa è significativo, non solo per l’incessante aumento quantitativo di tale intervento ma anche per la diversificazione qualitativa dell’intervento pubblico, a favore delle imprese e con forte penalizzazione per la società. La confusione che prevale anche a sinistra a proposito del significato ultimo di stato sociale (il cosiddetto welfare state) dipende dall’incomprensione di quanto appena detto. Le provvidenze messe in atto attraverso il suo apparato altro non sono che una risposta, parziale e ridotta, che il capitale dà, per il tramite del “suo” Stato, rispetto al riconoscimento pieno del salario sociale del cittadino. Tali provvidenze vengono attuate, in genere, in una fase ascendente del ciclo di accumulazione del capitale. In queste condizioni l’area di spesa garantita dallo “stato sociale” risponde a due esigenze, uguali e contrapposte: da un lato, si fa sì che la domanda aggiuntiva di consumi sia coperta con regolarità e certezza dall’intervento pubblico, tramite appalti e commesse, in nome dei “cittadini” contribuenti; dall’altro, si garantisce che, al di là di tale necessaria intermediazione statale, non si vada a favore delle fasce deboli nell’estendere la ripartizione della ricchezza generale. Perciò quello che appare oggi al senso comune come “stato sociale” è per l’appunto la limitazione che il capitale, dal suo peculiare punto di vista, impone alla rivendicazione di quel “salario sociale” che risponde alle esigenze delle classi lavoratrici.
É ovvio che la “conquista” dello stato sociale assuma la parvenza di una vittoria delle fasce deboli, proprio perché esso è il punto di mediazione del conflitto economico e sociale cui accede lo stato stesso, in nome del capitale, allorché le contraddizioni sociali si facciano più aspre e le condizioni economiche permettano simili parziali concessioni in cambio di armonia sociale e stabilità politica. Si tratta quindi di una risposta politica consensuale e pilotata che l’imperialismo transnazionale dà all’antagonismo delle classi lavoratrici, per indurre un’armonia al valium che mitighi la conflittualità in atto. I tempi e le condizioni storiche per configurare un processo di alternativa economica, politica, sociale, culturale sono pertanto dettati dall’insieme di tali contraddizioni.
L’imperialismo è ferito, forse mortalmente, ma vive. Tuttavia i tempi di vita e di morte dei massimi sistemi nella storia si misurano in decenni e secoli, non in mesi e anni. Il modo di produzione liberal-capitalista non sembra in procinto di essere sovvertito, né se ne può credibilmente ipotizzare una riforma democratica, dal basso o dall’alto che sia, e filantropica, un “miglioramento” che solo gli ipocriti progressisti-riformisti fingono di proporre.
Riconoscere queste difficoltà è solo dire la verità. Essere rivoluzionari, oggi, significa innanzitutto essere coscienti che l’unica via è sapersi muovere dentro le molteplici contraddizioni del modello di produzione capitalistico. Tale è, l’onere che l’attuale fase imperialistica impone agli uomini liberi non omologati: una fase che per chi crede nel socialismo nazionale si configura come una fase politicamente non rivoluzionaria, nel senso che non pone all’ordine del giorno la possibile presa del potere e della sua gestione. Ma se il capitalismo non è riformabile, e se il riformismo è subalterno al potere e all’ideologia liberista - dalla partecipazione al consenso e alla solidarietà, dalle litanìe democratiche allo stato sociale - ciò non toglie che le riforme siano una cosa troppo seria perché i rivoluzionari le lascino ai riformisti. Non si tratta di proporre riforme improponibili e inattuabili.
Si tratta solo, più “semplicemente”, di costringere con la lotta di popolo il fronte liberal-capitalista a rompersi, ora qua ora là, in una strategia di movimento che non fissi mai alleanze in chiave di una subalternità che diverrebbe definitiva. Bisogna partire da un programma minimo capace di individuare gli “anelli deboli” del fronte liberal-capitalista al fine di approfondirne le specifiche contraddizioni, ottenendone vantaggi immediati indiretti e accumulando energie vitali, in termini di uomini e mezzi, per la lotta futura.