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Capitalismo l'ultima crisi

di Eric Hobsbawm - 09/07/2007

Sul saggio di Prem Shankar Jha
Capitalismo l'ultima crisi
L'India sarà il fulcro del xxi secolo

Anticipiamo parte dell´introduzione che ha scritto per Il caos prossimo venturo dell´economista indiano Prem Shankar Jha (Neri Pozza, pagg. 688, euro 25, traduzione di Andrea Grechi e Andrea Spilla)

In questi primi anni del XXI secolo si stenta a ricordare l´ottimismo, per non dire il trionfalismo, con cui il crollo del comunismo fu accolto nelle nazioni ricche del Nord del mondo. Dov´è la «fine della storia» teorizzata da Fukuyama? Oggi, anche i politici e gli ideologi di quei paesi sono molto cauti nelle loro previsioni di un futuro di pace e prosperità per un mondo che appare in evidente crisi. Il valore di un libro sull´attuale situazione del pianeta, tuttavia, non si misura nel suo essere speranzoso o disincantato, ma nell´aiutarci a capirla, ovvero nel fornire una comprensione storica della crisi presente. Il libro straordinariamente intelligente, lucido e problematico di Prem Shankar Jha supera questa prova a pieni voti. È una lettura fondamentale per la prima decade di questo terzo millennio.
L´autore considera la crisi attuale come l´ultima in ordine di tempo nello sviluppo secolare di un capitalismo per sua propria natura sempre più globalizzato. A suo giudizio, questa è la quarta volta che il capitalismo infrange il suo «contenitore» economico, politico e istituzionale, nel corso di una storia le cui origini egli fa risalire al Medioevo. Come nel passato, la fine di ciascuno di questi cicli di espansione ha segnato il crollo delle istituzioni e un prolungato conflitto tra gli stati e al loro interno, nonché quello che è stato definito «caos sistemico». (...)
Ciascuna delle precedenti fasi di espansione capitalistica, sostiene Jha, fu contrassegnata dall´egemonia di un centro economico predominante, e collegata sin dal XVII secolo a un´innovazione di portata storica: lo «stato-nazione» su base territoriale all´interno di un sistema di potere internazionale. Dopo quella che considera l´era delle città-stato medievali, dopo l´egemonia economica dei Paesi Bassi seguita da quella della Gran Bretagna, oggi siamo al termine del «secolo americano». Ma nel suo ritmo accelerato, la globalizzazione ha travalicato i limiti della cornice relativamente stabile e flessibile che il capitalismo aveva generato – nello specifico lo stato-nazione con le sue istituzioni e il suo sistema internazionale – e che aveva consentito ad esso di svilupparsi senza esplodere o implodere e di riprendersi dalle crisi della prima metà del XX secolo. Tale sistema non funziona più, e nessuna chiara alternativa è in vista. Bisogna prepararsi a una nuova fase di distruzione e a un caos più profondo, prima che le contraddizioni interne ed esterne della crisi attuale della globalizzazione siano superate.
Diversamente dalla gran parte delle opere sulla globalizzazione, in genere scritte in Europa o nel Nord America, la voce di Prem Shankar Jha ci arriva dall´India, la regione che probabilmente sarà il fulcro del mondo del XXI secolo, ma il cui spettacolare sviluppo coincide con il «caos sistemico» in cui l´economia globale si trova immersa sin dall´avvio dell´attuale epoca di crisi negli anni Settanta. (...)
Gli effetti negativi della globalizzazione sui paesi sviluppati, come anche le conseguenze della loro deindustrializzazione e l´erosione dei loro sistemi di welfare, sono concreti ma lenti, e mitigati dalla ricchezza accumulata in quelle società. I terremoti generati in quei paesi sono piccole scosse al fondo della scala Richter economica, ma nel mondo «in via di sviluppo» sono cataclismi. Quando politici e giornalisti dell´Unione Europea parlano di crisi economica, non si riferiscono a quello che Jha giustamente definisce il «tracollo» del 1997-98, delle cui manifestazioni nel sud-est asiatico fornisce un´acuta analisi; non si riferiscono alle esplosioni sismiche che hanno scosso Brasile, Messico e Argentina a partire dagli anni Ottanta, e che i commentatori occidentali in massima parte giudicarono come la riprova dell´immaturità degli imprenditori e dei governanti del Terzo mondo rispetto a quelli dei paesi Ocse.
Un osservatore appartenente a un paese come l´India, rispetto a quelli dei paesi ricchi, corre meno rischi di confondere gli effetti generalmente benefici dell´industrializzazione e del progresso tecnico-scientifico con le conseguenze assai più problematiche della globalizzazione capitalistica incontrollata, vale a dire il drammatico allargamento della forbice tra i redditi pro-capite dei paesi sviluppati e quelli della maggior parte degli altri paesi – e, all´interno di quasi tutti i paesi, il divario tra ricchi e poveri. Soprattutto, è difficile che non tenga costantemente presente che frasi come «ho fame» o «non ho lavoro» hanno un significato profondamente diverso in paesi con un Pil medio pro capite di 25.000 dollari rispetto a paesi in cui è di soli 500 dollari.