“Compagni che sbagliano”. Il “nuovo che avanzava” è ormai tramontato, superato da nuove strategie
di Stenio Solinas - 10/07/2007
Per quanto nel panorama politico apparentemente ci siano una destra, una sinistra e persino un centro, diventa sempre più difficile per un cittadino medio capire quale e che cosa sia questa destra, quella sinistra e quel centro.
S
ul Corriere della sera didomenica scorsa, Ernesto
Galli della Loggia ha legato
le intercettazioni telefoniche
di D’Alema e Fassino
sul caso Unipol alla
fine, “reale e definitiva”, di
quella Prima Repubblica data per morta nel
1994, ma in qualche modo sopravvissuta,
appunto, sino ai nostri giorni. Secondo Della
Loggia, Tangentopoli vide la crisi-decomposizione
dei partiti di centro e di centro-sinistra,
Dc e Psi principalmente, “fondatori del
sistema nel 1945-48”, ma non di quel “pezzo
di sinistra, la cattolica e la comunista”, allora
“fortuitamente salvatosi” e quindi ancora in
grado, nel quindicennio successivo, di illudersi
al proprio interno e di illudere il proprio
elettorato a proposito di una propria
diversità, “un’immagine di innocenza, un
alone di purezza”.
Tangentopoli – dice ancora il politologo
romano – fu innescata dalla corruzione del
sistema, ma questa non ne fu la causa, da
ricercarsi invece nell’esaurimento storico
delle culture politiche che alla Prima Repubblica
avevano presieduto, inclusa quella del
vecchio Partito comunista che oggi, a scoppio
ritardato, viene dunque a raggiungere le
altre nel cimitero delle ideologie.
Si trattava di culture nate all’inizio del
Novecento (come del resto quella fascista a
loro antagonista) e bene in grado di accompagnare
l’Italia nel suo processo di industrializzazione-
modernizzazione, nonché, grazie
a “circostanze fortemente dipendenti dal
contesto internazionale”, di coniugare quella
modernizzazione con la democrazia, e quindi
con la nascita di una Repubblica parlamentare.
Esauritasi la fase della modernizzazione
del Paese, e entrato quest’ultimo nella
sua piena modernità, ovvero una
società articolata e immersa nel confronto,
un sistema capitalistico destinato
alla sua piena maturazione, una
nuova gestione delle relazioni
sociali, culturali, industriali, quelle
culture non sono però state in grado
di dare una risposta coerente a questo
“nuovo che avanzava”. Hanno
prima cercato di guidarlo, poi di
imbrigliarlo, si sono in seguito illuse
di gestirlo, ne sono state a un cero punto
travolte e alla fine hanno pensato di
riciclarsi come una sorta di corpo estraneo
parassitario.
Lo scarso o nullo
appeal dei vari partitipolitici è il frutto di un tale stato
di cose e aiuta anche a capire
perché nel corso di questo
quindicennio i margini che
separavano le forze in campo
siano andati sempre più
restringendosi, via via che
con roboanti dichiarazioni di
principio si giurava invece
sula loro totale alterità. Sicché
oggi, per quanto nel
panorama politico apparentemente
ci siano una destra,
una sinistra e persino un centro,
diventa sempre più difficile
per un cittadino medio
capire quale e che cosa sia
questa destra, quella sinistra e
quel centro.
Compagni che sbagliano
(IlSaggiatore, 285 pagine, 15
euri) di Gianni Barbacetto,
parte appunto da quest'ultima
considerazione, ed è l’onesto
libro di un bravo cronista di
giudiziaria; ma mancandogli
noi così ben riassunta all’inizio da Galli della
Loggia, rimane un libro monco. In dieci mesi
di governo il centro-sinistra ha perso dieci
punti di consenso: mostra di non saper
governare, di aver troppa rissosità al proprio
interno, di non essere in grado, sui grandi
temi della giustizia, dell’informazione, dello
sviluppo, dell’interesse nazionale, di fare di
più e di meglio di chi lo ha preceduto.
soprattuto, di farlo
in maniera
alternativa,
diversa.
Per Barbacetto, il perché si racchiude nel fatto
che scomparsi i partiti tradizionali, il loro
posto è stato preso dai partiti personali, federazioni
di gruppi e di interessi sparsi sul territorio,
fortissimi in termini di potere, di occupazione
di posti, di visibilità mediatica,
quanto inesistenti nella società, nella
vita reale. Ciò comporta l’esistenza
di una vera e propria
casta, una sorta di corpo separato
che fa quadrato in difesa
di sé stessa e dei propri privilegi.
Barbacetto ne fa soprattutto
una questione di moralità
e/o di corruzione, e certo
l’elenco di inquisiti e di
condannati che vien fuori
dal libro è impressionante.
Rimane tuttavia sul tappeto il
problema dell’incapacità della
classe politica non solo e non tanto
a reinventare sé stessa, quanto a comprendere
e guidare una società complessa
qual è divenuta quella
italiana, e dunque porsi
degli obiettivi come
nazione, favorire
la crescita
e la competitività privata, saper far funzionare
al meglio la macchina statale. Uscito
un mese fa,
Compagni che sbagliano nonracconta ovviamente gli ultimi contorcimenti
intorno al neonato Partito
democratico e alla
ormai certa discesa
in campo di Walter
Veltroni
come suo leader,
fenomeno
non solo
mediatico sul
quale è
necessario
comunque
soffermarsi.
Va detto che
l’anagrafe
gioca a
favore dell’attuale
sindaco
di
Roma: fra
dieci
anni egli sarà un sessantenne, laddove
Berlusconi ne avrà ottanta... Chi si illude che
quella scelta ne favorisca una simile sul versante
opposto, si sbaglia: Fini e Casini non
ne possiedono infatti la pervasività, la trasversalità
e neppure l’omogeneità rispetto a
un elettorato. C’è di più: sotto il versante della
modernità, Veltroni ha più appeal: per
quanto loro coetaneo, e dunque con il medesimo
cursus honorum
e in fondo i medesimiriferimenti storico-culturali, è più in sintonia
con l’“anima media” del Paese: ha gli stessi
gusti, condivide le stesse mode, adora gli
stessi miti. È un giovane-vecchio perfetto,
rassicurante per i suoi coetanei e per i più
anziani, non vissuto come un estraneo dalle
nuove generazioni. L’unico elemento frusto
della sua immagine, è quello economico: non
sa bene cosa sia il capitalismo, si accontenta
di un generico solidarismo, pensa all’Africa,
ma non conosce né l’Europa né gli Stati Uniti,
gli piace il progresso, Internet, l’i-pod, ma
gli sfugge la realtà industriale e post-industriale.
Veltroni non è una novità per la politica italiana
e per la sinistra che ne fa parte, e tuttavia
rappresenta per ambedue il fatto nuovo,
laddove la destra, per non essere risuscita a
sfruttare pienamente il nuovo rappresentato a
suo tempo da Berlusconi, corre il rischio di
ritrovarsi vecchia e in fase di arrocco. La
personalizzazione dei partiti porta con sé la
scomparsa delle strutture tradizionali e l’identificazione
con il leader, ma non l’interscambiabilità
di quest’ultimo. A suo tempo
Berlusconi incarnò un certo elettorato, ma il
suo potere di incarnazione non arriva alla trasfigurazione
dei corpi. Chi ha votato per lui
non lo voterà per interposta persona. Avendo
puntato tutto sul partito personale, la destra
di domani non ha più la persona che di per sé
stessa giustifichi il partito nel quale identificarla.
L’ecumenismo veltroniano, inoltre,
favorisce quell’elemento già presente, ma
vissuto finora come una colpa da nascondere,
rappresentato dalla sostanziale uniformità
delle scelte politiche. Lo favorisce a livello
di rapporti con l’avversario e questo è un
bene, perché svelenisce un clima politico
inutilmente rissoso quanto rissosamente inutile.
Lo favorisce nel suo campo perché
segna il definitivo tramonto di un’idea di
“diversità” antistorica e non più rispondente
alla realtà.
Ora, difficilmente si andrà alle elezioni
prima della loro scadenza
naturale, anche se è probabile
che a quella scadenza non si
arrivi con lo stesso presidente
del Consiglio con cui si è
partiti. Ciò significa che
entro il 2010 la sinistra
avrà un nuovo leader molto
più abile nel compattare
e nello smussare di
quello che lo ha preceduto,
nonché figlio
legittimo di una tradizione
politica
egemone, ma
finora penalizzata
nelle sue aspirazioni
di comando.
È probabile
che un sistema
politico in crisi
come il nostro,
non ce la faccia a
durare, così com’è,
per un altro decennio, ma
va detto che a sinistra, almeno,
uno sforzo per venirne a capo, lo
si sta facendo. Ma a destra?