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Petrarca e l'origine dell'idea politica italiana

di Pasquale Rotunno - 10/07/2007




Il Medioevo non ha conosciuto il gioco della pacifica alternanza al potere. Né ha ammesso di dritto l’opposizione politica. Ogni opposizione era un tradimento, una ribellione all’ordine costituito; e l’opposizione non ha che i mezzi della cospirazione, delle congiure. La fazione esclusa dal potere vede distrutti i propri beni; è costretta ad abbandonare la città. Nasce così quel fenomeno del fuoriuscitismo, elemento caratterizzante tutta la storia del comune italiano, decisivo anche in relazione alla genesi delle signorie. La crisi del comune indica, infatti, prima d’ogni altra cosa, un mutamento negli equilibri territoriali; un ampliarsi delle dimensioni della vita politica italiana. Le signorie, scrisse il grande storico Ernesto Sestan, nascono in un clima di rapporti intercomunali enormemente moltiplicati. Sono “il prodotto di quest’intrico di rapporti intercomunali”. I fuoriusciti, cercando appoggio e sostegno in altri stati cittadini, stipulando anzi con essi veri e propri trattati, a mo’ di governo in esilio, o invocando l’arbitrato di una potenza straniera per la pacificazione delle parti avverse, stabilivano quelle solidarietà e relazioni intercomunali sulle quali faranno leva i signori per imporre il loro dominio. È sulla base degli interessi e dei legami delle fazioni che si avvia la formazione dello stato signorile regionale, cioè pluricomunale; e si va verso il superamento del particolarismo comunale. La crisi degli antichi comuni appare quindi “non il patologico deteriorarsi di un organismo intimamente sano e vitale, il degenerare di una sana dialettica di classi e partiti: ma come una reazione fisiologica naturale e inevitabile”, afferma lo storico Giorgio Chittolini. La tendenza alla cristallizzazione dei gruppi dirigenti, alla chiusura oligarchica nelle città, si accompagna al manifestarsi di una generale crisi sociale ed economica. La notevole contrazione demografica, provocata dalla pestilenza, il crollo di numerose grosse banche, la caduta della produzione di manufatti, lo sfaldamento dell’agricoltura, le rivolte urbane e contadine, mostrano, nell’Italia del Trecento, forti tensioni e una destrutturazione sociale, che finirà per rafforzare le vecchie strutture feudali. Occorre riconoscere, infatti, nell’insorgere di un processo rifeudalizzante, in campo economico e sociale, un aspetto tra i più significativi del passaggio a forme di governo signorile: i signori furono molto spesso esponenti del mondo feudale.
I grandi elementi di modernità intellettuale di Dante, Boccaccio, Petrarca, Marsilio, Bartolo (laicità, realismo, individualizzazione, sovranità popolare, autonomia della politica) restarono sommersi sotto uno scontro politico anacronistico fra papato e impero. Restò schiacciata la possibilità stessa di costruire uno stato nazionale unitario come avveniva in Francia, Spagna, Inghilterra, Olanda. L’opera dei Visconti, a capo della più grande signoria dell’Italia settentrionale, non può essere considerata come indirizzata alla formazione di uno stato modernamente ordinato. Eppure, un intellettuale prestigioso come Francesco Petrarca guarda con speranza alla dimensione signorile. Per la verità, non senza riserve e ambiguità, proprio per quella connotazione “tirannica” che la nuova proposta istituzionale poteva derivare dalla dinamica della sua formazione. Almeno quanto a legittimità, quando non per il tipo di esercizio del potere.
Il volume “Petrarca politico”, edito dall’Istituto storico italiano per il Medio Evo (uno dei centri d’eccellenza della ricerca storica in Europa, presieduto da Massimo Miglio), getta nuova luce sull’impegno politico del poeta nato in esilio ad Arezzo. Introdotti da Massimo Miglio, gli studi di Angelo Mazzocco, Concetta Bianca, Giacomo Ferraù, Gian Maria Varanini, Gherado Ortalli, Giovanni Cherubini, Gian Paolo Scharf, Franco Franceschi, Roberto Bigazzi, focalizzano aspetti inediti dell’opera petrarchesca. Alle simpatie repubblicane quando il poeta rievoca l’antica Roma, fa da contrappunto la riaffermazione di una soluzione monarchica per la realtà italiana del suo tempo. L’istituto monarchico può mettere un freno all’umana malizia. Ridurre la violenza dello scontro tra fazioni; aprire una prospettiva di conciliazione e buon governo. Petrarca vive, certo, in un contesto signorile; ma non per questo il rapporto tra l’intellettuale e il signore è di mera subordinazione. In questo senso, “il nuovo modello studiosamente costruito innova rispetto alla sostanziale organicità dell’intelletuale comunale e offre un’esemplarità forte al cosmopolitismo della nuova stagione umanistica” (Ferraù). L’esperienza monarchica può divenire tirannica; ma anche il “regime largo” può essere tirannico, come Aristotele aveva indicato. Costante è in Petrarca la diffidenza per il momento popolare; sempre caratterizzato da connotazioni di volubilità e “invidia pubblica”. Domina la visione agostiniana di una città terrena viziosa, corrotta, guastata dal peccato. Per cui un regime tirannico potrebbe rivelarsi necessario al bene politico. Petrarca, nel ricostruire la vita di Cesare, può giustificare un originario “defectus tituli” nelle modalità di conquista del potere, con la necessità, “ex parte exercitii”, di porre rimedio a una situazione di disordine causata dalla malvagità umana. Deluso dalle grandi istituzioni di lunga durata, papato e impero, il poeta intravede negli stati regionali italiani una speranza di superamento delle lotte fratricide e dei particolarismi, che impedivano il ritorno ai fasti dell’antichità romana. In tal modo, “spargeva a piene mani quei semi che avrebbero fruttificato nella prossima civiltà dell’Umanesimo” (Ferraù).
Nell’ideale politico petrarchesco, il rapporto Roma/Italia è strettissimo. La famosa canzone “Spirto gentil” testimonia la consapevolezza di un’entità politico-culturale italiana radicata nell’antica grandezza di Roma, rileva Mazzocco. Esalta il tentativo di Cola di Rienzo di rivendicare l’antica libertà romana e con essa la giustizia, la pace e la sicurezza dell’età antica. Al tempo stesso, invita l’imperatore Carlo IV a emulare le grandi figure della Roma imperiale, in particolare Cesare e Augusto. Non v’è contraddizione, come pure si è detto, tra l’esaltare prima Cola di Rienzo e il suo tentativo tribunizio e poi Carlo IV e il suo sistema monarchico. A Petrarca interessa restaurare Roma e l’Italia, risollevarla dal fango. Non guarda agli orientamenti politici dei personaggi chiamati a realizzare questa restaurazione. Che l’unità italiana fosse il frutto dell’azione di un politico di indole repubblicana, com’era Cola, o di uno statista monarchico, com’era Carlo IV, “essa era realizzabile solo se abbinata alla ricostruzione della grandezza della Roma antica” (Mazzocco). Proprio la vita itinerante del Petrarca è all’origine della sua idea politica italiana. Il soggiorno presso la corte papale ad Avignone contribuì notevolmente alla sua dottrina politica. Nelle sue lettere al papa Urbano V cerca di convincerlo a riportare la corte papale a Roma; e polemizza contro coloro che invece cercano di dissuadere il papa dal riportare la sede pontificia a Roma. Ribadendo ancora una volta il nesso Roma/Italia, il poeta nota che l’Italia è grande e illustre perché è partecipe della cultura classica. Roma ha primeggiato in tutte le attività umane. È stata la madre del diritto civile, ha generato i fondatori del diritto romano. Ha saputo guerreggiare con coraggio. Ha prodotto studiosi che gareggiano per grandezza con le massime figure letterarie greche. La polemica con i francesi, con il riferimento all’età classica, dà l’opportunità al Petrarca di vedere al di là delle divisioni politiche che caratterizzavano l’Italia contemporanea. Ci sarebbe stata un’Italia compatta, forte, illustre, perché tale Italia era esistita ai tempi dei Cesari. Il poeta vagheggia l’Italia augustea, cioè quell’Italia “culturalmente e militarmente superiore, unificatrice e civilizzatrice di molti popoli e quindi patria alle genti del mondo tutto, che Petrarca trovava nelle opere dei grandi autori dell’età imperiale: Virgilio, Livio, in particolare Plinio il Vecchio” (Mazzocco).
La penisola italica era invece dilaniata da guerre fratricide: “vostre voglie divise”, rimprovera il poeta ai signori italiani, “guastan del mondo la più bella parte”. La denuncia della faziosità dei signori italiani ritorna spesso nell’opera petrarchesca. La guerra tra Genova e Venezia aveva condotto in Italia milizie mercenarie. Fino a quando, si chiede il poeta, assisteremo a questo nefasto spettacolo di aiuti barbarici, il cui unico risultato è lo sterminio della patria? L’Italia porrà fine alla sua miseria solo quando comincerà a desiderare l’unità. Non quella acquistata con la vittoria di questa o quella parte, ma l’unione che risulta dall’abolizione di tutte le parti politiche, frutto di un forte amor patrio. L’unità anelata dal Petrarca non fu realizzata. Il progetto politico petrarchesco falli perché, come avrebbe detto Machiavelli, Petrarca non andava “drieto alla verità effettuale della cosa”, ma “alla immaginazione di essa”. La sua indole poetica, rimarca Mazzocco, “gli fece sognare l’impossibile”. L’idea politica italiana di Petrarca è imbevuta di idealismo e priva, quindi, di un concreto piano d’azione. Non era certo da attendersi qualcosa di diverso da un letterato, la cui sola arma era la penna. Eppure alcuni aspetti importanti della sua idea politica, quali l’anelito per l’unità italiana, l’orgoglio per il retaggio romano, l’antipatia per i mercenari, il recupero della civiltà classica, divennero modelli privilegiati di molti scrittori del Rinascimento italiano. Persino il ben più realista Machiavelli subì l’influenza della dottrina politica di Petrarca. Entrambi fanno riferimento ad un’Italia depredata dagli invasori, lacerata da forze straniere. Entrambi intravedono un’Italia sfinita che spera in un’efficace guida italiana. Nel “Principe” Machiavelli non nasconde l’estrema difficoltà del riscatto del popolo italiano. Tuttavia continua a sperare. Il realista si trasforma in sognatore-profeta, “dando alla sua argomentazione un sapore utopistico paragonabile per molti aspetti all’utopia della dottrina politica del Petrarca” (Mazzocco).
Le recenti ricerche sulle signorie e i comuni italiani del Trecento, avverte Massimo Miglio, permettono di “studiare meglio gli atteggiamenti, i comportamenti e le scelte di Petrarca, e di evitare il ricorso a quel giudizio di opportunismo tanto ricorrente nella critica”. La biografia petrarchesca si divide in due tronconi; ma la scansione non è più quella tradizionale legata alla morte di Laura. La frattura fu causata piuttosto dal fallimento dell’impresa di Cola di Rienzo e dalla conseguente rottura con la curia avignonese. Da allora, Petrarca si pone come grande maestro di vita civile, al servizio delle città italiane e delle loro aspirazioni all’autonomia.