“Io mi spensi”, fu la didascalia che tracciò di suo pugno sotto al disegno, anch’esso ritratto a mano libera, di una lampada sul punto di esaurire l’ultimo bagliore prima dell’annullamento... Era l'attimo antistante il colpo di rivoltella alla tempia che sparò ai suoi 23 anni...


Così, Carlo Michelstaedter autore, come Max Stirner, di un solo libro: “La persuasione e la rettorica” (che non doveva neanche essere un libro ma la sua tesi di laurea...), cessò di duellare “ai ferri corti con la vita”.

“Un suicidio metafisico” commentò qualcuno e, a guardare bene, quel qualcuno avrebbe potuto anche avere ragione, purché si dia alla metafisica il suo significato etimologico e non quello “spirituale” con cui tanti bell’ingegni religiosi l'hanno sovrastrutturata...

Ché dell’al di là, da Platone ad Hegel, Carlo Michelstaedter aveva la degna nobiltà di considerarlo pura “rettorica...”, cioè: non-essere...

Non-essere, quindi rettorica, è perfino la vita che non-consiste in sé ma si rimanda continuamente ad un futuro possesso di sé medesima: un punto a seguire sempre più spostato in basso come, per spirito di gravità, fa il peso che null’altro può, nella sua di-pendenza, che tendere all’ancora più basso...

E a poco vale contrapporre, allo spirito di gravità, la finzione dell’aerostato (sul quale non a caso, con una splendida metafora, colloca Platone) che, nel tentativo di sottrarsi alla caduta, prende la via a salire verso un iperuranio qualsiasi, dove, appunto, ma di nuovo: “la vita è la mancanza della propria vita”.

Con Eraclito, campione della “persuasione”, Michelstaedter sapeva bene che: “La via in su e la via in giù, sono la stessa identica via”.

La persuasione, ovvero “l’essere”, invece, chiede a chi è sulla sua via di possedere in sé la libertà assoluta di non rimandare né ad altrove (in basso o in alto che sia...) né ad altrui (umani o divini che siano...) il pieno possesso della propria vita; di accettare, insomma, il carico di dolore che la vita comporta, senza rifugiarsi né in consolatori al di là né negli infiniti escamotage che l’uomo adotta – dalla carriera, agli allori, al successo, al denaro... – nell’illusione di poter alleviare la sofferenza dell’essere nel non-essere...

Perfino l’amore per la vita, “philopsichia”, ovvero: “il dio del piacere”, è un’illusione: non c’è nessuna salvezza “fuor di sé”... e ognuno è salvatore di se stesso: "Cristo ha salvato se stesso poiché della sua vita mortale ha saputo creare il dio: l'individuo", ma "nessuno è salvato da lui". Amen...

Su questa via, il persuaso non chiede né altra vita-dopo-la-vita né una “vita migliore” ...e la morte non si teme né si desidera: la si affronta, virilmente, liberi dalla paura che qualcosa, essa: la morte, possa togliere o donare all’istante in cui, finalmente, con-sistiamo in noi stessi...

...

Vita, morte
la vita nella morte
morte vita
la morte nella vita.
Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte
filammo a questa morte.


(Così, Carlo Michelstaedter, nella sua poesia: “Il canto della crisalide”).

Ecco, la tesi è quasi conclusa. E la discussione che lo laureerà alla carriera, quindi: alla rettorica, è prossima... Bisogna trascrivere solo gli ultimi appunti... Ha vissuto gli ultimi mesi in contatto diretto con la contraddizione fra quello che sta scrivendo, quindi: pensando, e quello che l’aspetta dopo... Per sfuggire alla rettorica che seguirà al bacio accademico, sogna d’imbarcarsi, di fare il marinaio su un vascello, NON fantasma... Accarezza, sotto il cuscino, la pistola che ha sequestrato di prepotenza ad un suo amico sospettato debole alla tentazione del suicidio... L’accarezza e ci pensa: al suicidio... Nella soffitta dove si è rintanato per scrivere (e pensare...) arriva la madre che lo rimprovera per essersi dimenticato del suo (di lei...) compleanno... “Fammi il regalo di non arrabbiarti”, le aveva scritto in un bigliettino affettuoso, nemmeno un mese prima... Il rimprovero della madre lo tocca al fondo della sua inadeguatezza a ricordare perfino le ricorrenze più care... La madre lo lascia... Viene Emilio, il cugino, che lo sta aiutando nella trascrizione della tesi... Non è il caso - gli dice - e lo manda via... Resta solo con la persuasione di non poter più scendere a patti con la rettorica... Resta solo lui... Lui e la pistola...

...

Tra poesie, epistolario e tesi, il tema della morte torna spesso alla mente e nella penna di questo ragazzo precocissimo e geniale. Quasi mai, invece, appare il tema del suicidio. Una rimozione o una omissione, chillosà? Ma, ho detto: quasi mai... Tra il “quasi” e il “mai” ci sono queste due annotazioni:

in una recensione del 1906 a “L’età critica di Max Dreyer” (von Schlettow), a proposoito del suicidio dell'infelice votato all'autoannientamento, annota: “Che c’importa?”. Per contrappasso, sempre nello stesso anno, ad una specie di test che domanda: “a quale età vorreste morire?”, risponde: “Subito!!!”...

L’interpretazione che do io è questa: quando si sceglie di andare “ai ferri corti con la vita”, ogni soluzione è un’incognita... Non è più né questione di “debolezza” esistenziale, né di coraggio “metafisico”: nell’attimo di vita sospeso fra l’hic et nunc ed il nihil: “La salvezza cresce dove cresce il pericolo” (F. Hölderlin).