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Il «mal di patria» nella storia degli italiani

di Sergio Romano - 12/07/2007

 
Le domando: ma la Patria esiste tuttora in Italia?
Innanzitutto l'unica menzione del termine Patria nella Costituzione è contenuta nell'articolo 52 ed è collegata alla difesa della medesima, in rapporto però al servizio militare obbligatorio, poi abolito. Per quanto mi riguarda continuo a rispettare e amare la Patria, ma ho l'impressione di appartenere a un ristretto numero di vecchietti un po' rimbambiti, e la cosa mi rattrista ma non modifica assolutamente i miei sentimenti. Riterrei interessante un'indagine statistica per conoscere la percentuale di cittadini che sanno in che cosa consista la Patria, e di quelli che la onorano.

Carlo Cito Filomarino

Caro Cito Filomarino, al momento della formazione del Regno, nel 1861, il concetto di patria italiana era minoritario, estraneo alle grandi masse rurali della penisola e alle aristocrazie locali, generalmente devote al papa o ai sovrani degli Stati preunitari. Sappiamo che l'idea di patria nasce e si rafforza sui campi di battaglia. Ma le molte guerre italiane, dopo l'Unità, si lasciarono spesso alle spalle una lunga scia di polemiche, tensioni sociali, recriminazioni. Vi furono alcuni momenti di grande entusiasmo nazionale - la conquista di Tripoli nel 1911, Vittorio Veneto, e l'ingresso ad Addis Abeba nel maggio del 1936 - ma preceduti e seguiti da vicende che dimostrarono quanto la patria italiana fosse ancora una costruzione fragile e delicata. Non conosco altri Paesi europei in cui le sconfitte (Adua nel 1896, Caporetto nel 1917, l'armistizio dell'8 settembre 1943) siano state festeggiate con altrettante manifestazioni di rabbioso piacere. Ancora oggi mi capita di leggere articoli e libri in cui le pagine peggiori della storia nazionale — Custoza, Lissa, i rovesci africani della Seconda guerra mondiale e la malaugurata guerra contro la Grecia nell'ottobre 1940 — sono commentate con un visibile compiacimento. La fine del sogno risorgimentale (la «morte della patria », come la chiamò Ernesto Galli della Loggia) ha avuto l'effetto di una carica di esplosivo. La storia nazionale che avevamo faticosamente cominciato a costruire nella prima metà dell'Ottocento è andata in pezzi. Sulle sue macerie sono riapparse le molte storie regionali, municipali, ideologiche, confessionali o dinastiche di cui si compone la penisola. Non abbiamo una festa nazionale, capace di unire gli italiani intorno a uno stesso sentimento, perché il giorno del Palio a Siena, la Festa del Redentore a Venezia, San Gennaro a Napoli o Sant'Ambrogio a Milano sono infinitamente più importanti di qualsiasi giornata collettiva. Non abbiamo una memoria condivisa perché abbiamo tante memorie quante sono le diverse identità storiche della penisola. Per qualche tempo fu possibile sperare che gli italiani si sarebbero uniti nella costruzione di un Paese moderno, prospero, educato, e che in questo sforzo comune avrebbero creato una nuova identità. Ma anche la storia degli ultimi cinquant'anni purtroppo ha avuto le sue battaglie perdute. Penso, in particolare, a quelle contro la mafia, contro la corruzione, contro il regime oligarchico dei partiti e dei notabili. Anche se il fenomeno è particolarmente visibile in Italia, non siamo i soli tuttavia, caro Cito Filomarino, che soffrono di «mal di patria». Anche gli Stati più antichi dovrebbero avere capito ormai che nessuna nazione europea è in grado di esercitare alcuna influenza sugli affari del mondo e che soltanto l'unità dell'Europa può salvarci dall'irrilevanza. Credo che questo valga in particolar modo per gli italiani.