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La nuova cinquecento. La macchina delocalizzata per chi non ne ha bisogno

di Guido Viale - 12/07/2007

 

la nuova 500

Questa è una delle voci (non l’unica, s’intende!) che avrei voluto sentire durante i servizi fatti da tutti i telegiornali e mass media in generale, a reti unificare, per lanciare il nuovo “prodotto Fiat“. In modo che gli italiani potessero riflettere sul sistema mondiale della mobilità, su cosa ci sia dietro un automobile, e su tutti i temi toccati superbamente da Viale. E’ solo che in Italia i giornalisti (gran parte di loro) sono a libro paga dei potenti di turno. Di giorno in giorno…

Primo: si chiama «Cinquecento» ma non è una cinquecento, perché di cilindrata fa 1200, 1400 e 1600 centimetri cubi [a seconda dei gusti e delle tasche] e raggiunge i 180 chilometri all’ora; cioè 50 in più di quanto consentito in quasi tutte le autostrade d’Europa: un proiettile vagante per chi la guida e per chi la incrocia.

Secondo: non è una «macchina» per quelli che ne hanno bisogno e non possono permettersene una più grande, come sono stati per trent’anni e più i cosiddetti «patiti della Cinquecento». E’ invece un’auto per chi ne ha già almeno un’altra o per chi con l’auto nuova vuole togliersi uno sfizio da «amateur», pagando un prezzo che si avvicina a quello di un’auto cosiddetta «d’epoca»: per esempio, una vera Cinquecento.

Terzo: questo è esattamente il senso della sua presentazione al pubblico nell’orribile «notte bianca» di Torino, indetta in onore della Fiat: una festa che, mentre puntava a riconfermare l’antica identificazione della città con una fabbrica che non c’è più, ripropone in questa veste l’obiettivo del suo sindaco: rilanciare la città facendone una sorta di capitale dell’effimero.

Quarto: è stata eletta a simbolo della resurrezione della città-fabbrica per antonomasia, ma non viene prodotta nelle fabbriche della città, dove non impiega neppure un operaio; e nemmeno negli altri stabilimenti del paese, perché la Cinquecento è interamente fabbricata nella Polonia dei feroci gemelli Kaczynski e all’incasso di questo nuovo traguardo gli operai di Mirafiori riscuoteranno soltanto il rilancio dell’immagine della loro azienda e del suo dinamico manager: il cavaliere bianco dell’ultima industria rimasta al paese.

Certo, ribattono i tifosi del rilancio della Fiat; ma questo nuovo management – succeduto a personaggi che erano stati chiamati solo per liquidare l’azienda e permettere alla sconfinata prole del suo fondatore di scappare con i soldi – offre comunque, se non una garanzia, per lo meno una speranza di stabilità ai pochi operai italiani rimasti in forza nell’azienda; e ai molti che ancora lavorano per la Fiat: sia nell’indotto cresciuto nel corso del tempo intorno alla fabbrica madre, sia in quello creato da un giorno all’altro, attraverso tanti moderni e dinamici processi di «esternalizzazione».

Ma la catena che lega l’avvenire dei lavoratori all’immagine della loro azienda, e questa al futuro dell’industria automobilistica, e l’industria automobilistica mondiale, attanagliata da un eccesso di capacità produttiva, alla rincorsa ai programmi di motorizzazione di paesi [Cina, India e Brasile] che contano metà della popolazione del pianeta, è un sistema senza futuro, che davanti a sé ha solo una più o meno vicina resa dei conti. Perché prima o dopo, senza il retroterra di un progetto di riconversione, quella corsa dovrà arrestarsi. E se a fermarla non sarà il prezzo del petrolio di nuovo in ascesa, ed esposto sempre più al risiko della geopolitica e della guerra e ai problemi di un’offerta che non tiene il passo con la domanda indotta dai nuovi protagonisti dell’economia globale, la fermerà, quella corsa, la necessità di fare i conti con l’effetto serra, a cui la motorizzazione privata contribuisce in misura maggiore di qualsiasi altra fonte. Con l’aggravante di essere diffusa, dispersa su tutto il pianeta tra centinaia di milioni di scappamenti: non tutti «euro cinque» come quelli della Cinquecento, dato che a garantire il rinnovo del parco automobilistico dei paesi ricchi provvede la vendita del loro «usato» nell’Est europeo, in America latina, in Africa e nel Medio oriente.

In attesa dell’idrogeno, che non sarà a portata di mano, se mai lo sarà, prima di venticinque-trent’anni – a sentirli, gli apologeti dell’auto a emissioni zero, ricordano da vicino gli aedi della fusione nucleare «pulita», che quasi cinquant’anni fa ci era stata promessa per la fine del secolo [scorso] – il pianeta dovrà comunque fare i conti con tutti quegli scappamenti nelle città invase dal traffico: per esempio Pechino, dove, dopo aver cacciato dalle strade le biciclette per far spazio al nuovo ceto rampante dei motorizzati, ora si pensa di vietare alle auto buona parte della città, per consentire alla vista di superare almeno cinque-dieci metri di smog.

E dovrà fare i conti anche con l’ultimo grido in fatto di «auto ecologica»: cioè i biocarburanti, che hanno già fatto salire alle stelle il prezzo dei cereali e che, sempre in Cina [è qui, infatti, che va studiato il futuro del mondo] stanno provocando la prima crisi alimentare dai tempi della del «grande balzo in avanti»...

Insomma, se il destino della classe operaia italiana è legato alla resurrezione della produzione automobilistica del paese non c’è da stare allegri: soprattutto in una fase in cui, dallo sfruttamento delle fonti rinnovabili come sole e vento al rinnovo degli impianti e delle attrezzature dei settori civile e industriale, dal trasporto pubblico alla mobilità condivisa, le opportunità di impiegare intelligenza, impianti, macchinari e maestranze dell’industria metalmeccanica in grandi progetti di riconversione produttiva non mancano certo.