Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La redenzione del passato, culmine dell'"eterno ritorno" di Nietzsche

La redenzione del passato, culmine dell'"eterno ritorno" di Nietzsche

di Francesco Lamendola - 14/07/2007

 

 

Friedrich Nietzsche scrive di getto la prima parte di Così parlò Zarathustra, a Nizza, fra il principio di febbraio del 1883 e il 13 dello stesso mese; la seconda a Sils-Maria, in Engadina, dal 26 giugno al 6 luglio; la terza nuovamente a Nizza e ad Eze, nell'autunno: dieci giorni al massimo per ciascuna delle tre. Scriverà poi la quarta parte, più lentamente, in luoghi diversi, fra l'Engadina, Zurigo, Mentone, l'anno seguente; la quinta e la sesta, in cui avrebbe dovuto sviluppare compiutamente la teoria del superuomo e quella dell'eterno ritorno, finora solo accennate, come è noto resteranno allo stato di semplice progetto e non verranno mai scritte. Le prime due parti vengono pubblicate a Chemnitz nello steso 1883; la terza, sempre a Chemnitz, nel 1884; la quarta a Lipsia, nel1885; infine le quattro parti riunite, a cura di Peter Gast (perché il povero Nietzsche è già in preda ala follia), ancora a Lipsia, nel 1892.

L'esposizione della teoria dell'eterno ritorno è principalmente esposta nel secondo capitolo della terza parte, intitolato Della visione e dell'enigma; e la riportiamo qui di seguito, nella splendida traduzione di Liliana Scalero, che rende magnificamente anche l'altissimo valore letterario di questa superba opera filosofica che è, al tempo stesso, una delle opere più ispirate della poesia tedesca moderna.

 

N. B. Ci siamo serviti dell'edizione di Così parlò Zatathustra della casa editrice Longanesi & C. di Milano, in due volumi, del1972.

 

DELLA VISIONE E DELL'ENIGMA

 

1

 

Quando fra i marinai si sparse la voce che Zarathustra era sulla nave (giacché s'era contemporaneamente un uomo che veniva dalle Isole beate), si levò una grande curiosità e sorpresa. Ma Zarathustra tacque per due giorni, ed era così freddo e sordo per la tristezza che non rispondeva alle domande né ricambiava gli sguardi. Tuttavia alla sera del secondo giorno le sue orecchie si aprirono di nuovo, sebbene egli continuasse a tacere; poiché c'erano molte cose strane e pericolose da udire su quel battello  che veniva di lontano e sarebbe andato oltre. Zarathustra tuttavia era un amico di tutti quelli che fanno lunghi viaggi e cui non piace vivere senza pericolo. E guarda un po'!, alla fine, mentre stava ad ascoltare, la sua lingua si snodò e il ghiaccio del suo cuore si sciolse: e cominciò a parlare così:

 

«A voi, arditi cercatori e tentatori, e a tutti coloro che mai si siano imbarcati con vele prudenti sul terribile mare, a voi, ebbri di enigmi, amanti del crepuscolo ,la cui anima viene attratta dal suono dei flauti verso ingannevoli abissi;

(poiché non vorrete già andar tentoni seguendo un filo con mano vile, e dove potete indovinare,  sdegnate di comprendere),

a voi soltanto narro l'enigma che ho veduto, la visione del più solitario fra gli uomini.

Cupo me ne andavo recentemente nel crepuscolo spettrale, duro e cupo, con le labbra serrate. Non un sole soltanto era tramontato in me.

Un sentiero che saliva quasi con sfida fra pietre ruinate, un sentiero solitario, cattivo, cui non s'addicevano né erbe né cespugli; un sentiero di montagna scricchiolava sotto la rabbiosa fida del mio piede.

Camminando in silenzio sul beffardo scricchiolare dei ciottoli, calpestando la pietra che lo faceva scivolare: così il mio piede si apriva a forza la via verso l'alto.

Verso l'alto: a dispetto dello spirito che lo tirava in basso, giù nell'abisso, a dispetto dello spirito di gravità che è il mio demonio, o il mio arcinemico.

Verso l'alto: benché egli stesse seduto su di me, metà nano, metà talpa; paralitico e paralizzante, versando gocce di piombo nel mio orecchio, pensieri di piombo nel mio cervello.

«O Zarathustra - bisbigliava beffardamente scandendo sillaba su sillaba -, o pietra della saggezza! Ti sei lanciato molto in alto, ma ogni pietra lanciata deve ricadere!

Condannato a te stesso e alla propria lapidazione; oh Zarathustra, tu hai gettato lontano la pietra, è vero, ma essa ricadrà su di te

Detto ciò il nano tacque; e ciò durò a lungo. Ma il suo silenzio m'opprimeva; e a trovarsi così in due, ci si sente veramente più solitari che ad esser soli!

Io salivo, salivo, sognavo, pensavo, ma tutto mi opprimeva. Somigliavo ad un malato stanco del suo martirio, che venga risvegliato da un sogno malvagio proprio mentre sta per addormentarsi.

C'è tuttavia in me qualcosa che io chiamo coraggio, che finora ha ucciso in me ogni malumore. Questo coraggio alla fine di intimò di fermarmi e di dire: «Nano! O tu o io!».

Perché in realtà il coraggio è il miglior assassino, il coraggio che attacca: perché in ogni attacco c'è una musica squillante.

L'uomo tuttavia è l'animale più coraggioso; è col coraggio ch'egli ha vinto ogni altro animale. Con musiche squillanti egli ha superato ogni dolore; ma il 'dolore dell'uomo' è il dolore più profondo

Il coraggio abbatte anche la vertigine e la stende morta presso gli abissi; e quando mai l'uomo non si trova davanti agli abissi? Il vedere non è in se stesso, propriamente, che vedere abissi?

Il coraggio è il migliore assassino; il coraggio uccide anche la pietà. Ma la pietà è l'abisso più profondo. Più l'uomo vede a fondo nella vita, più vede a fondo nel dolore.

Ma il coraggio è il migliore assassino. Il coraggio che attacca abbatte anche la morte, poiché esso dice: «Questo era la vita? Ebbene! Ancora una volta!».

In questo motto c'è in verità molta musica squillante. Chi ha orecchi, ascolti.

 

2

 

«Ferma, nano! - dissi.- Io o tu! Sono io il più forte di tutti e due: tu non conosci il mio abissale pensiero! Quello non potresti sopportarlo!».

Allora avvenne una cosa che mi rese più leggero; perché il nano saltò giù dalla mia spalla, il curioso! E si accoccolò davanti a me su di una pietra. Ma ecco sorgere davanti a noi una porta davanti alla quale ci fermammo.

«Guarda questa porta, nano! - ripresi. - Essa ha due volti. Due strade convergono qui, nessuno ne è mai giunto al termine.

Questa lunga strada che conduce all'indietro è lunga un'eternità. E quest'altra che conduce fuori, laggiù,  essa è un'altra eternità.

Esse si contraddicono, queste strade: esse battono insieme la testa, ed è qui, davanti a questa porta, che esse si incontrano,. Il nome della porta è scritto su in alo: l'Istante.

Ma chi continuasse a percorrere una di queste strade, sempre camminando, andando sempre più lontano: credi tu, nano, che queste strade si contraddicano eternamente?».

«Tutto ciò che è diritto mente -, mormorò il nano in tono di spregio. - Ogni verità è curva, il tempo stesso è un circolo».

«Spirito della gravità! - dissi corrucciato. - Non risolvere il problema con tanta facilità! Altrimenti ti lascio lì accoccolato dove stai ora, storpio che non sei altro, e ti ho pure portato in alto!

Vedi questo Istante! - ripresi a dire. - Da questa porta che si chiama Istante una lunga strada che non finisce mai corre all'indietro; dietro a noi scorre una eternità.

Non credi tu che tutte le cose che possono correre abbiano dovuto passare già una volta per questa strada? E tutte quelle  che possono accadere debbano essere già accadute, fatte, trascorse una volta?

E se tutto è già stato una volta, cosa ne pensi, nano, di questo Istante? Non deve, questa porta, esserci già stata?

E non sono forse tutte le cose legate insieme l'una con l'altra in modo che questo Istante trascini con sé tutte le cose avvenire? Quindi anche se stesso?

Giacché tutto ciò che delle cose può correre, correre giù lungo questa cupa strada, deve pur correre una volta o l'altra!

E questo ragno che striscia lentamente nella luce della luna,, e questa luce lunare stessa, e io, e tu, che bisbigliamo insieme davanti alla porta, parlando di cose eterne: non dobbiamo esser già stati tutti una volta? E  tornare, e correre all'aperto dinanzi a noi per quell'altra orribile piccola strada: non dobbiamo, dico, eternamente tornare».

Così parlai io, sempre più piano: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e di ciò che stava dietro di essi. Quando, all'improvviso, udii urlare vicino a me un cane.

Ho mai sentito un cane urlare così? Il mio pensiero corse all'indietro. Sì! Quand'ero fanciullo, nella mia fanciullezza più remota:

allora sentii un cane urlare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa volta all'insù, tutto tremante, nel silenzio più cupo della mezzanotte, dove anche i cani credono agli spettri;

tanto che mi fece pietà. In quello stesso istante la luna piena passò in un silenzio di morte sopra la casa, e si fermò silenziosa, un disco rotondo di brace, silenziosa sopra il tetto piatto come su una proprietà che appartenesse ad altri:

e di questo ebbe paura il cane: perché i cani credono ai ladri e agli spettri. E quando udii urlare di nuovo a quel modo, ne ebbi di nuovo pietà.

Dov'era ora il nano? E la porta? E il ragno? E il sussurro? Sognavo forse? O mi stavo svegliando? Ad un tratto mi ritrovai fra scogli selvaggi, solo, squallido, nella più squallida luce della luna.

Ma lì c'era un uomo steso a terra! Ed ecco che il cane, vedendomi arrivare, si mise di nuovo a ululare, saltando, piagnucolando col pelo irto. Poi gridò: ho forse mai udito un cane gridare così al soccorso?

In verità non avevo mai visto nulla di simile a ciò che vidi allora. Vidi un giovane pastore che si contorceva convulsamente come se stesse per soffocare, il viso stravolto, mentre dalla bocca gli pendeva un pesante serpente nero.

Quando mai avevo visto tanto ribrezzo, tanto pallido orrore dipinto su di un volto? Forse egli s'era addormentato. E il serpente gli era penetrato in gola e vi si era attaccato coi denti.

La mia mano afferrò il serpente tirandolo a sé, invano! Essa non riuscì a strappare il serpente dalla gola! E allora sentii in me qualcosa che gridava: «Mordi! Mordi!

Staccagli la testa! Mordi!» così gridava qualcosa in me; il mio ribrezzo, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto ciò che vi era in me di Bene e di Male uscì con un grido dalle mie  viscere.

O voi audaci che mi state intorno! Cercatori, tentatori e tutti voi che vi siete imbarcati con vele prudenti per il male inesplorato! amanti degli enigmi!

Scioglietemi l'enigma che ho visto quel giorno, interpretatemi la visione del più solitario fra i solitari!

Perché è stata una visione e una previsione: cosa ho visto allora nel simbolo? E chi è colui che deve ancora venire? Chi è il pastore cui il serpente strisciò così nella gola? Chi è l'uomo cui striscerà così nella gola tutto ciò che v'è di nero, di più nero?

Ma ecco che il pastore dette un morso, come gli aveva consigliato il mio grido; un morso dato bene! Sputò via lontano la testa del serpente: e subito balzò in piedi.

Non più un pastore, non più un uomo, ma un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai sulla terra nessun uomo rise come egli rise!

O fratelli miei, allora udii un riso che no era più un riso umano, ed ora mi divora una sete, una nostalgia che non può trovar pace.

La nostalgia di questo riso mi rode l'anima: mi domando come posso vivere ancora! D'altro canto, mi rassegnerei ora morire?».

 

Così parlò Zarathustra.

 

Qui noi abbiamo un'esposizione abbastanza organica, sia pure per mezzo di simboli di non facile interpretazione, della dottrina dell'eterno ritorno, a Nietzsche peraltro già nota da font greche che egli, come filologo classico, doveva conoscere piuttosto bene. Già abbastanza nota perché, mentre passeggiava lungo i sentieri boscosi attorno al lago di Silvaplana a Sils-Maria, in Engadina, quell'agosto del 1881, egli avesse non già la rivelazione di un'idea totalmente nuova, l'intuizione di come un'idea antichissima, presente nelle civiltà dell'India e anche in quella della Grecia dei primi secoli, potesse fornire il perno sul quale far leva per innalzare la sua concezione filosofica al rango di una compiuta visione del mondo, radicalmente alternativa rispetto a quella di origine giudaic-cristiana.

In effetti, la prima formulazione dell'idea dell'eterno ritorno si trova già, prima dello Zarathistra, nell'aforisma numero 341 de La gaia scienza (del 1882: la prima opera in cui Nietzsche mostra l'ambizione di poter creare un nuovo destino per l'umanità), nei seguenti termini:

 

"Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai in essa niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!»? Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta:«Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?». Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più  alcun'altra cosa che quest'ultima, eterna sanzione, questo suggello?"

 

Dunque, il serpente che si attacca alla gola del pastore, mordendola, mentre questi giace addormentato e indifeso, è il pensiero dell'eterno ritorno: pensiero terribile, capace di provocare il disgusto più insopportabile, le contorsioni più disperate e rabbiose. Però, secondo Nietzsche, "il coraggio è il migliore assassino", "il coraggio che attacca": ed ecco allora l'eroica decisione di mordere a fondo quel pensiero, di staccargli la testa di netto, per liberarsene e per accedere a una radicale trasformazione interiore: la trasformazione da uomo a superuomo. Il serpente che si morde la coda, il serpente che si avvolge su sé stesso è, nelle culture antiche, simbolo della circolarità del tempo; dunque mordergli la testa e sputarla, dopo esserne stati morsi a propria volta sin nel più profondo dell'anima, significa letteralmente risorgere da morte e trasfigurarsi (le analogie col detestato pensiero cristiano si sprecano addirittura; ma nessuna meraviglia: tutto lo Zarathustra ne è pieno, così come sovrabbonda di metafore e immagini di ispirazione vetero-testamentaria: ambivalente è l'atteggiamento di Nietzsche di fronte al suo "arcinemico", la morale giudaico-cristiana e, in particolar modo, la figura di Gesù Cristo).

Il pensiero dell'eterno ritorno dell'uguale è, di primo acchito, sconvolgente e repulsivo, addirittura orribile; ma se si spinge l'amor fati fino d accettarlo, ecco che il "sì" alla vita ne risulta infinitamente potenziato e tutto ciò che, prima, appariva privo di senso, ne acquista uno ben preciso. Nietzsche, dunque, rifiuta il nichilismo non perché non sia vero che tutti i valori "forti" dell'esistenza siano morti o debbano morire, ma perché quelli condannati a scomparire sono i valori della trascendenza. La vita deve riscoprire in se stessa il proprio valore, rifiutando ogni ricerca di senso che sia al di fuori di sé stessa: questo è il dionisiaco messaggio di Zarathustra agli uomini. La dottrina dell'eterno ritorno, pertanto, lungi dall'essere una sorta di "eccentricità" del pensiero nietzschiano, una reminiscenza della sua formazione filologica o un indovinello poetico, è la pietra del paragone della raggiunta condizione di superuomo: superuomo è solo chi è in gradi di introiettare il pensiero dell'eterno ritorno, di vincerne la ripugnanza istintiva, di dire ad esso un "sì" integrale e senza riserva alcuna. Non a caso Zarathustra lo chiama, come abbiamo visto, il più abissale dei suoi pensieri: in esso culmina tutta la filosofia del pensatore di Röcken, ed è impensabile accostarsi ad essa pensando di poter prescindere dalle questioni che esso pone.

Certo, non tutto è chiaro nella dottrina dell'eterno ritorno. Il tempo circolare (di origine indiana, greca ed etrusca) che Nietzsche contrappone a quello lineare (di origine ebraico-cristiana) potrebbe essere- come suggeriscono Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero - una certezza scientifico-cosmologica, oppure un'ipotesi etica (bisogna vivere come se ogni cosa ritornasse), o anche una possibilità esistenziale che l'uomo può scegliere, diventando, appunto, un superuomo; ciò non si può decidere in maniera univoca.  Ma il senso complessivo di tale dottrina è abbastanza chiaro: se accettiamo una concezione lineare e progressiva del tempo, siamo condannati a vivere in un presente che viene continuamente divorato dal futuro e diventa passato (cfr. la teoria del tempo esposta da S. Agostino nelle Confessioni), ossia in un istante che non ha mai il proprio significato in sé stesso, ma in qualcosa che sta fuori di esso: il passato (la memoria)  o il futuro (l'attesa). Solo accettando integralmente l'idea che ogni cosa ritorni infinite volte, sempre identica a sé stessa, possiamo riappropriarci del nostro è presente e della nostra vita: perché, a quel punto, è chiaro che ogni istante può essere vissuto come un valore autosufficiente, poiché in un cerchio ogni punto è ugualmente importante di ciascun altro, mentre in una retta solo le estremità (inizio e fine) hanno veramente una meta e uno scopo.

È chiaro che l'interpretazione nietzschiana del tempo circolare potrebbe essere agevolmente rovesciata: se ogni istante è destinato a ritornare, identico a sé stesso, esso non è più realmente un istante, ma una eternità: nell'eterno e nell'infinito, infatti, le parti non sono minori del tutto: l'infinita serie di un singolo istante non è meno infinita della serie di tutti gli istanti che formano la  nostra vita.

Se ne potrebbe anche trarre la conseguenza che, intensive se non extensive, l'istante unico e assolutamente irripetibile della concezione lineare del tempo (ebraico-cristiana) non è meno prezioso ed "autonomo", anzi, potrebbe esserlo assai di più, proprio per il suo carattere di radicale non ripetibilità; ma non è questo che ci interessa al presente. A noi basta, per il discorso che ci accingiamo a sviluppare, aver mostrato come, per Nietzsche, l'affermazione della concezione di un tempo ciclico e circolare, quindi infinito (o, più propriamente, come direbbe un matematico, illimitato, come la superficie di una sfera che è  finita, ma illimitata) è condizione inderogabile per l'affermazione suprema del "sì" alla vita, dell'amor fati, della realizzazione dell'uomo del domani: il superuomo.

 

 

&    &    &    &    &

 

Noi, però, in questa sede, non vogliamo soffermarci oltre sulla dottrina dell'eterno ritorno in sé stessa, quanto sulle sue implicazioni riguardo a un aspetto specifico, e - a nostro parere - un po' trascurato del pensiero di Nietzsche: la redenzione del passato.

Dobbiamo tornare nuovamente allo Zarathustra e fare un passo indietro, verso la fine della seconda parte, fino al terzultimo capitolo, intitolato semplicemente Della redenzione. Già il titolo suona un po' strano nel contesto dell'universo nietzschiano, intriso com'è di valenze religiose e, specificamente, ebraico-cristiane (abbiamo visto, peraltro, che la cosa non deve poi sorprendere più di tanto; senza dimenticare l'educazione ricevuta dal giovane filosofo, figlio com'era di un pastore luterano). La parola redenzione viene dal latino redemptio-redemptionis e significa liberazione, riscatto, ad es. di uno schiavo; ma nel cristianesimo acquista un significato particolare, che finisce per diventare quello principale, di liberazione del genere umano dalle conseguenze del peccato originale, operato per mezzo dell'Incarnazione e, quindi, della passione di Gesù Cristo. Pertanto Gesù diventa il Redentore per antonomasia, e il cristianesimo si fonda più sulla sua figura di Redentore che su quella di Messia  (parola che proviene dall'ebraico mascî ah, cioè unto)  e che indica l'eletto dal Signore per soccorrere il popolo d'Israele. Il cristiano, a sua volta, è il redento, cioè il riscattato dal peccato; e redimere è l'azione salvifica di Dio, letteralmente il ri-comperare colui che è caduto in schiavitù (del peccato, del demonio). Il verbo, poi, ha acquistato anche un significato riflessivo e, ovviamente, secolarizzato: perché redimersi non è cosa che richieda un Salvatore esterno all'uomo, né suggerisce tanto l'idea del ri-comperarsi, quanto del riscattarsi in un senso morale meno forte, come potrebbe essere riconquistare la propria integrità, il proprio onore, la propria dignità: azione puramente umana e non necessariamente connotata in senso religioso. Raskolnikov, che in Delitto e castigo finisce per confessare il proprio crimine, si redime da sé: e se pure Dostojevskij ha inquadrato il suo travaglio in una dimensione genericamente religiosa, è certo che si tratta dell'umano pagamento di un debito umano.

In che senso, dunque, adopera Nietzsche il termine "redenzione"? E da cosa vuole redimere gli uomini, Zarathustra? Si tratta di una redenzione del passato: più precisamente, in una trasformazione di ciò che è stato, dunque del passato, in ciò che noi abbiamo voluto che fosse, dunque della nostra volontà. Per Nietzsche, tutto al contrario, la volontà non è affatto il male e il dolore insito nella vita, e non è affatto un impulso incosciente: la volontà, per lui, è un atto assolutamente cosciente mediante il quale l'essere umano si emancipa dal passato, col suo peso estenuante, e celebra la vittoria sul tempo, sul tempo lineare, trasformandolo in tempo circolare ove ogni cosa ritornerà perché così essa vuole. Nietzsche, adoperando un linguaggio esplicitamente cristiano, si spinge fino ad affermare che "volontà" è il nome del liberatore: come dire che l'uomo deve diventare il redentore di se stesso, ma non deve redimersi dal peso del peccato, bensì da quello di un passato subito e non intimamente voluto, di una vita accettata con rassegnazione e non con gioia dionisiaca.

Si potrebbe obiettare che la trasvalutazione di tutti i valori, da lui predicata, finisce per diventare -comunque - una nuova tavola di valori, e che se il bisogno di redenzione nasce in lui da una schiavitù che non è storica - legata, cioè, a determinate circostanze -, ma strutturale, allora non si vedere come egli possa trovare in se stesso la forza di spezzare le proprie catene. Nietzsche risponde: la volontà sola è in grado di dargli questa forza, ma non la piccola volontà delle piccole situazioni, bensì la volontà radicale, la volontà di potenza. Ma noi possiamo sempre chiedere: se l'orizzonte di senso di colui che vuole redimersi, di colui che vuol realizzare in se stesso il superuomo, non eccede né deve eccedere una radicale fedeltà alla terra e ai valori immanenti, donde e in che modo egli potrà forgiare con le proprie mani un tal genere di volontà radicale? La vita terrena non può dare altro che vita terrena, l'immanenza non dà altro che immanenza: se l'uomo è strutturalmente schiavo, come potrà liberarsi, o anche solo concepire l'anelito verso la propria liberazione? Donde lo avrà appreso, chi glielo avrà insegnato? Si potrebbe rispondere, con Nietzsche, che l'ebraismo e il cristianesimo hanno introdotto nel mondo la morale degli schiavi, basata sull'impotenza, sul risentimento e sulla falsificazione dei valori autentici, quelli di matrice aristocratica; ma, se è così, bisognerebbe dedurne che, prima dell'ebraismo e del cristianesimo, la morale dei signori aveva già creato le condizioni per la realizzazione del superuomo. Perché dunque non è comparso?

La realtà è che la necessità della redenzione di cui parla Zarathustra non si riferisce ad una redenzione storica, dalla morale giudaico-cristiana, bensì metafisica, da una condizione strutturale di schiavitù rispetto al proprio passato, alla propria storia, al tempo in quanto tale. Se questo è vero, allora l'idea dell'eterno ritorno non si colloca sul piano di una verità scientifica, bensì su quello di un poter-essere: e il passaggio nella sua dimensione corrisponde a un atto della volontà, un po' come nel passaggio ai successivi stadi della vita per Kierkegaard (l'estetico, l'etico e il religioso). Dunque l'eterno ritorno corrisponderebbe  a una circolarità del tempo per coloro che sono in grado di accettarla, realizzandola in sé stessi (il pastore che morde la testa del serpente e la sputa lontano da sé), e non per tutti: il che, del resto, è perfettamente coerente con l'aristocraticismo di fondo di tutta la concezione filosofica di Nietzsche. Possiamo pertanto avanzare l'ipotesi che siano possibili due realtà temporali differenti, e che esse esistano contemporaneamente, come due universi paralleli che si sfiorano e a volta si toccano, ma restano nettamente distinti: quella del tempo lineare, in cui giace la massa degli esseri umani; e quella dell'eterna circolarità, in cui si muove, danzando, l'umanità dionisiaca, quella di coloro che hanno accettato la profondità abissale di un tale pensiero, e ne sono stati redenti e trasformati in esseri di luce, in superuomini.

Notiamo, per inciso, che alcuni teologi - non solo cristiani - sono giunti a ipotizzare qualche cosa di analogo per l'idea di Inferno e di Paradiso. Si tratterebbe, in sostanza, di due dimensioni oltre-mondane determinate essenzialmente dall'attitudine dell'anima umana nei confronti della realtà post-mortem: l'Inferno sarebbe, allora, la dimensione della disperazione, e il Paradiso quella della fede e dell'amore; in altre parole, saremmo proprio noi, con le nostre aspettative nei confronti di ciò che ci attende al termine della vita, a costruirci letteralmente, con le nostre stesse mani, il nostro Inferno oppure il nostro Paradiso. La realtà della vita dopo la morte sarebbe né più né meno quella che noi ci aspetteremmo di trovare, sulla base del livello da noi raggiunto in fatto di evoluzione spirituale, di apertura coscienziale, di capacità d'amore.

 

Ed ora torniamo a Nietzsche e alla sua dottrina della redenzione del passato.

Ci serviamo ancora della stupenda traduzione di Liliana Scalero (ripubblicata nella edizione di Così parlò Zarathustra della Casa editrice Tea di Torino, a cura di Gianni Vattimo, del 1992: trenta anni giusti dopo l'edizione della Longanesi).

 

DELLA REDENZIONE

 

Un giorno che Zarathustra passava sopra il grande ponte, fu circondato dagli storpi e dai mendicanti, e un gobbo così gli parlo:

«Vedi, Zarathustra! Anche il popolo impara qualcosa da e e acquista fiducia nella tua dottrina: ma perché ti creda interamente, occorre una cosa: devi ancora persuadere noi storpi! Qui ce n'è una bella scelta, e francamente, quest'è un'occasione con più di un ciuffo! Puoi guarire dei ciechi e far correre dei paralitici; e a chi ha qualcosa di troppo dietro la schiena, potrai anche toglierne un po': ecco, mi pare, il metodo migliore per far credere in Zarathustra!».

Ma Zarathustra così rispose a chi gli parlava: «Se al gobbo gli si prende la gobba, gli si prende anche il suo spirito: così ci insegna il popolo. E quando si rendono gli occhi al cieco, vedrà troppe cose brutte sulla terra, così da maledire chi lo ha guarito. Chi poi fa correre il paralitico, gli procura il più gran danno: perché appena potrà correre, i suoi vizi se ne scapperanno con lui; così dice il popolo a proposito degli storpi. E perché Zarathustra non dovrebbe anche imparare dal popolo ciò che il popolo impara da Zarathustra?

Ma dacché sono fra gli uomini, mi sembra un nonnulla vedere che ad uno manca un occhio, ad un altro un orecchio, al terzo una gamba, e che ve ne sono anche altri che han perduto la lingua o il naso o la testa.

Io vedo e in passato ho veduto cose peggiori, cose tanto orribili che non vorrei parlare di tutte, e di qualcuna neanche tacere: voglio dire gli uomini. Uomini cui manca tutto, salvo che hanno una cosa di troppo: uomini che non sono niente altro che un grande occhio o una gran boccaccia o una grande pancia o qualcosa di grande in genere. Io li chiamo storpi a rovescio.

E quando uscii dalla mia solitudine e passai per la prima volta su quel ponte: allora non credetti ai miei occhi e dopo aver guardato, e ancora guardato, dissi: «Questo è un orecchio! Un orecchio grande come un uomo!». Guardai meglio: e veramente, sotto l'orecchio si muoveva qualcosa di così piccolo, povero e debole da far pietà. in verità, l'enorme orecchio era messo su di un piccolo stelo sottile, e quello stelo era un uomo! Chi poi avesse messo un occhiale avrebbe potuto riconoscere perfino un piccolo visetto invidioso; e anche una fanciulla flaccida e gonfia che pendeva dallo stelo. Il popolo tuttavia mi disse che quel grande orecchio non era soltanto un uomo, bensì un grande uomo, un genio. Io peraltro non ho mai creduto al popolo quando parlava di grandi uomini: continuai quindi a credere che fosse uno storpio alla rovescia, che aveva troppo poco di tutto, e troppo di una sola cosa».

Dopo che Zarathustra ebbe così parlato ai gobbi e a coloro di cui era l'interprete e il patrocinatore, si volse pieno di cruccio ai suoi discepoli e disse:

«In verità, amici miei, io cammino fra gli uomini come fra rimasugli e ammassi di membra umane!

Ciò che più mi riesce terribile all'occhio è il vedere gli uomini dilaniati e sparsi qua e là come in un mattatoio o un campo di battaglia.

E se il mio occhio balza dall'Oggi al Tempo passato, sempre vede la stessa cosa: frammenti di carne e membra sparse e orribili casi, ma uomini no!

Ahimé, amici miei! Per me la cosa più insopportabile sulla terra è l'Oggi e il Passato; e non potrei vivere se non fossi anche un veggente che vede ciò che deve accadere.

Un veggente, un creatore, un uomo che vuole un avvenire per se stesso e un ponte che conduce verso l'avvenire: e ahimé, in certo modo anche uno storpio su questo ponte: tutto ciò è Zarathustra.

E voi stessi, vi siete sovente domandati: "Cos'è per noi Zarathustra? Che nome deve avere per noi?". E, come sono solito a fare io, invece di darvi delle risposte vi siete fatti delle domande.

È uno che promette? O uno che mantiene? Un conquistatore? Un erede? Un autunno? O un aratro? Un medico? O uno che sta guarendo?

È egli un poeta? Uno che dice la verità? Un liberatore? O un domatore? Un cattivo? Oppure un buono?

Io mi aggiro tra gli uomini come tra i frammenti dell'avvenire: di quell'avvenire in cui io vedo.

E questo è il mio poetare, il mio tendere: condensare in un'unità poetica e riunire insieme ciò che è frammento ed enigma e lugubre caso.

Come potrei esser uomo, se l'uomo non fosse anche poeta, scioglitore di enigmi e liberatore di tutto ciò che è Caso!

Redimere il passato e ogni "così fu" in un "così volli"! Questo soltanto sarebbe per me redenzione!

Volontà, questo  è il nome del liberatore, dell'apportatore di gioia: questo vi ho insegnato, amici miei!

Ma ora imparate anche questo: la stessa volontà è ancora una prigioniera.

Il volere libera:  ma come si chiama ciò che stringe in catene perfino il liberatore?

"Così fu": ecco il digrignar di denti della volontà, la sua pena più solitaria. Impotente contro ciò che è fatto, essa è un cattivo spettatore di tutto ciò che è passato.

La volontà non può volere all'indietro: che essa non possa spezzare il tempo e il desiderio del tempo, ecco la pena più solitaria della volontà.

Il volere libera: cosa escogita esso dunque per liberarsi della sua pena e prendersi beffe della sua prigione?

Ahimé, ogni prigioniero diventa un pazzo! E anche la volontà prigioniera si libera in modo pazzo.

Che il tempo non torni indietro ,ecco ciò che la fa fremere d'ira; e il masso ch'essa non può rovesciare si chiama: "ciò che fu". E così essa rotola massi per rabbia e disdegno e si vendica di ciò che non sente come lei sdegno e rabbia.

In tal modo la volontà, la liberatrice, è diventata causa di dolore: e si vendica di tutto ciò che può soffrire per non poter ritornare nel passato.

Sì, perché questo solo è la vera vendetta: la ripugnanza che prova la volontà verso il tempo e verso il suo "fu".

In verità, nella nostra volontà alberga una grande follia, che questa follia abbia imparato ad aver uno spirito ,ecco ciò che si è mutato in maledizione per tutta l'umanità.

Lo spirito della vendetta: questa, amici miei, è stata finora la miglior conclusione cui è giunto l'uomo quando medita: dove c'è stato dolore, là dovrebbe sempre esserci castigo.

"Castigo", cioè il nome che la vendetta dà a se stessa ,procurandosi ipocritamente, con una parola menzognera, una coscienza tranquilla.

E poiché in chi vuole c'è sempre dolore per il fatto di non poter volere all'indietro, così lo stesso volere e tutta la vita dovrebbero essere castigo!

E allora sullo spirito si addensò nube su nube; finché alla fine la follia predicò: "Tutto perisce, quindi tutto è degno di perire!".

E anche quella legge che impone al tempo di divorare i propri figli, è giustizia": questo predicò la follia.

"Le cose nel mondo della morale sono ordinate secondo il diritto e il castigo. Ahimé, dove è mai la liberazione dal flusso delle cose e dal castigo dell'esistere?". Così predicò la follia.

"Può esservi redenzione, se vi è un diritto eterno? Ahimé, la pietra che si chiama "fu" non può essere rimossa; tutti i castighi debbono essere eterni": così predicò la follia.

"Nessuna azione può essere annullata: come potrebbe esser resa come non avvenuta per mezzo del castigo? Questo è il castigo eterno insito nel fatto di "esistere": che cioè l'esistenza debba essere eternamente azione e castigo!

Ameno che la volontà si liberi finalmente da sé, e il volere diventi un Non-volere: ma voi, fratelli miei, conoscete questa favola cantata dalla follia!

Lontano da simili canzoni e da simili favole io vi condussi, quando vi insegnai che "la volontà era qualcosa di creativo".