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Al prossimo presidente degli USA: sull'Iràq

di Flynt Leverett* - 14/07/2007

Gennaio 2009. Un democratico è appena divenuto presidente degli Stati Uniti e si trova ad affrontare il seguente rompicapo: qual è il modo migliore per andarsene dall'Iràq? La risposta a questa domanda tutt'altro che ipotetica prova a darla Flynt Leverett in quest'articolo pubblicato sul numero di giugno 2007 de “The American Prospect”, rivista liberal statunitense (http://www.prospect.org/).

Destinatario: il nuovo Presidente
Mittente: il Consigliere per la Sicurezza Nazionale
Data: 21 gennaio 2009


L'1 maggio 2003 il presidente George W. Bush si trovava sul ponte della USS Abraham Lincoln, sotto uno striscione recante la scritta “Mission Accomplished. Missione Compiuta”; da là, trionfalmente proclamava l'inizio d'una nuova era nelle relazioni degli USA col Medio Oriente. Lavorando alla definizione di questa nuova era, Bush ed i suoi consiglieri avevano scartato la strategia regionale lanciata da un altro presidente statunitense, dal ponte di un'altra nave da guerra: in effetti, Bush ripudiò come un errore sessantennale lo scambio “petrolio per sicurezza”, concluso da Franklin Delano Roosevelt col re arabo-saudita Abd al-Aziz ibn Saud a bordo della USS Quincy, il 14 febbraio 1945. La strategia alternativa di Bush statuiva che un Iràq “liberato” grazie alla forza militare statunitense, avrebbe funto da faro nel cuore del Medio Oriente, favorendo lo sviluppo di regimi liberali – e dunque filostatunitensi – in tutta la regione.
Oggi, quasi sei anni dopo l'invasione dell'Iràq, il fallimento della strategia Bush è fin troppo evidente, nel paese mediorientale come, più in generale, nell'intera regione. Questo fallimento ha perseguitato i candidati repubblicani alla presidenza per tutta la campagna elettorale, risultando decisivo per l'arrivo d'un democratico alla Casa Bianca. All'inizio della Sua presidenza, la sfida più grande che l'attende è l'elaborazione di un nuovo “contratto” in Medio Oriente, capace d'affrancare gli Stati Uniti dal pantano iracheno, nel contempo rimodellando gli equilibri geopolitici regionali in maniera favorevole agl'interessi nordamericani.

Peccati originali

La ragione principale per cui il progetto iracheno di Bush è fallito, non va cercata in qualche errore tattico occorso in fase di pianificazione prebellica, o in quella postbellica d'occupazione, bensì in fondamentali vizi strategici. Bush credeva che la nostra decennale attenzione per la stabilità, cui corrispose la tolleranza di regimi autoritari in Medio Oriente, avesse incubato la minaccia jihadista incarnata da al-Qaeda. L'obiettivo primario della sua campagna post-undici settembre (con la Guerra all'Iràq quale fiore all'occhiello) era il rifacimento della regione – sia per quanto riguarda gli equilibri di potere tra gli Stati, sia per i modelli di governo prevalenti.
Ma Osama bin Laden ed i terroristi dell'11 settembre non attaccarono gli Stati Uniti a causa dell'autoritarismo in Arabia Saudita, né per odio verso il nostro stile di vita. Piuttosto, attaccarono – come documentato in modo convincente da Robert Pape nel suo studio Dying to win: the strategic logic of suicide terrorism, zeppo di dati – in reazione al prolungato dispiegamento di truppe statunitense in paesi arabi; presenza che, ben prima dell'invasione dell'Iràq, aveva fatto identificare gli Stati Uniti come occupanti. L'invasione ed occupazione statunitense dell'Iràq ha giocato a favore di Bin Laden, aggravando ulteriormente la minaccia terrorista. E, assieme alla rinuncia di Bush a gestire il mutamento degli equilibri geopolitici per creare un ambiente strategico stabile in Medio Oriente, la Guerra in Iràq ha indebolito la posizione regionale degli USA sotto molti aspetti.
Ora che alla Casa Bianca c'è un democratico, è importante riconoscere che con troppa frequenza i Democratici hanno fatto proprie le stesse errate convinzioni strategiche dell'amministrazione Bush: che gli Stati Uniti potessero mantenere una sostanziale presenza militare sul terreno in Medio Oriente (anziché forze navali o contingenti ad ampio raggio d'azione ma posti fuori dalla regione) senza pagare costi politici e di sicurezza; che stringere alleanze strategiche con importanti Stati arabi non fosse poi così importante ai fini dell'equilibrio strategico della regione; e che le considerazioni riguardanti gli equilibri strategici non avrebbero dovuto influire sul modo in cui gli Stati Uniti si sarebbero relazionati con Stati problematici, come l'Iràn e la Siria.
Ricordiamoci che fu l'amministrazione di Bill Clinton ad introdurre la nozione di “Stati del backlash” [termine intraducibile in italiano, che sta a significare la reazione violenta contro qualcuno o qualcosa divenuto potente e popolare, NdT] (una versione ante litteram del “asse del male”) nel vocabolario della politica estera statunitense; ad imporre sanzioni economiche all'Iràn; a stabilire per prima (nel 1998) il “cambio di regime” come scopo della politica degli USA verso l'Iràq. Si consideri, inoltre, il lento declino dei rapporti con l'Egitto e l'Arabia Saudita durante gli anni di Clinton.
Nel periodo post-undici settembre, gli “esperti” di politica estera dei pensatoi e della peritocrazia [“punditocracy”] democratici hanno sostenuto entusiasticamente la facile asserzione bushiana, secondo cui gli Stati Uniti avrebbero potuto sradicare un regime autoritario che governa su un paese complesso, diviso al suo interno e posto nel cuore d'una regione strategicamente importantissima ed instabile – ed in qualche modo, nel corso di questo processo, “migliorare” la regione e rafforzare la condizione strategica degli USA. Per far sì che gli USA recuperino dalla debâcle irachena sarà necessario abbandonare i luoghi comuni dei trasformisti neoconservatori, che oggi, audacemente, si presentano come l'ala “nazional-sicuritaria” del Partito Democratico. Saranno necessari, da parte Sua, disciplinati riflessione e calcolo strategici, non solo riguardo all'Iràq ma per quanto riguarda l'intera regione.

Dure realtà

Molti osservatori, qui come all'estero, s'aspettavano che la vittoria democratica nelle elezioni legislative del 2006 avrebbe spinto l'amministrazione Bush a mutare strategia in Iràq. Senza dubbio, l'approvazione democratica alle raccomandazioni dell'Iraqi Study Group aveva fornito al presidente Bush la copertura politica necessaria a riconfigurare considerevolmente il ruolo statunitense nella regione.
Invece, Bush preferì puntare sul “picco”, aumentando la presenza militare statunitense in Iràq di quasi 30.000 unità durante la prima metà del 2007. La strategia del picco si basava su d'una proposizione di dubbio valore: che il dispiegamento d'ulteriori truppe nordamericane avrebbe assicurato sufficiente sicurezza da acquistare tempo e “spazio” perché i politici sciiti, curdi e sunniti potessero raggiungere, in pochi mesi, un compromesso sulle questioni più spinose del dopo-Saddam, che avevano diviso le loro comunità sin dal 2003.
Ma la manodopera addizionale che la Casa Bianca riuscì ad estorcere al Pentagono si rivelò troppo piccola per avere un impatto positivo e duraturo sul terreno. Alla fine del 2007, era evidente come l'Iràq continuasse a scivolare in una guerra civile – soprattutto tra Sciiti e Sunniti. Di fronte alla crescente pressione del Congresso e dell'opinione pubblica, durante il 2008 Bush ordinò ritiri simbolici, citando a giustificazione vari e dubbi indicatori statistici attestanti “progressi” a breve termine nella sicurezza di alcune parti dell'Iràq. In pratica, non mutò strategia fino alla fine del suo mandato.
Perciò, Lei è asceso alla Presidenza con circa 100.000 soldati statunitensi ancora in Iràq, bloccati in una posizione delicata e pericolosa, sempre più precaria. La strategia di Bush è stata ancor più profondamente errata – ed ha lasciato a Lei ancor più grandi sfide politiche – per quanto riguarda le dinamiche politiche irachene. La strategia poggiava su un paio d'assunti fondamentali riguardanti l'Iràq post-Hussein: che ci fosse una genuina unità nazionale forgiata a Baghdad sulle importanti questioni economiche e politiche, e che gli Stati Uniti potessero indurre le comunità sciita, curda e sunnita a rinegoziare tale unione secondo alcuni punti fermi imposti da Washington. Tali assunti erano inestricabilmente legati al fideistico sostegno bushiano alla democratizzazione della regione.
Infatti, i tre grandi gruppi etnico-settari dell'Iràq non sono riusciti a trovare un compromesso: non perché mancasse loro la volontà, ma perché non ne erano in grado. I politici sciiti, curdi e sunniti non possono riconciliare posizioni essenzialmente inconciliabili, e nessuna esortazione o coercizione degli USA potrà mutare questa realtà.
Le tendenze dominanti nella politica irachena, oggi, sono regionaliste, non centraliste. La classe dirigente curda s'è impuntata sulla creazione d'un Kurdistan autonomo, riconosciuta nella costituzione post-Hussein, ed il governo regionale curdo ha cominciato a sviluppare quella ch'è, di fatto, un'industria petrolifera separata. In seno alla Shi'a irachena, la corrente politica più forte non è oggi il populismo centralista di Muqtada al-Sadr, bensì il regionalismo.
Il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iràq (CSRII), appoggiato in modo sempre più evidente dell'Iràn, chiede la formazione d'uno “Shiastan” autonomo, composto da nove province meridionali (che comprenderebbero alcuni dei maggiori giacimenti d'idrocarburi del paese), mentre il partito Fadhila spinge per un ridimensionamento della regione autonoma a sole tre province, che i politici di Basra credono di poter dominare. Persino tra gl'Iracheni sunniti – a lungo considerati i più strenui difensori del centralismo – la realtà del regionalismo curdo e sciita, nonché la sempre più accreditata ipotesi che le province centro-occidentali contengano riserve d'idrocarburi maggiori di quelle precedentemente stimate, stanno diffondendo un certo interesse verso l'ipotesi d'una regione federale sunnita.
Chiaramente, la decisione nordamericana di favorire la riconciliazione nazionale rema contro queste tendenze, nocive alla situazione politica ed alla sicurezza. In particolare, il rafforzamento del governo centrale ha fornito agli USA un pretesto ampiamente accettato per irrobustire le forze di sicurezza “nazionali” in Iràq – impegno che l'Iraqi Study Group e la maggior parte delle personalità democratiche ritengono dovrebbe essere una priorità dei militari statunitensi. Ma la spiacevole verità è un'altra: gli Stati Uniti non stanno creando una forza di sicurezza nazionale in Iràq. Ad oggi, i programmi d'addestramento si sono rivolti principalmente verso unità monosettarie: i corpi militari iracheni sono quasi esclusivamente sciiti o curdi nella loro composizione, e questo problema delle identità settarie presenti in singole unità è ancor più accentuato nelle forze di sicurezza dipendenti dal Ministero degl'Interni iracheno.
I risultati erano facilmente prevedibili. Durante una guerra civile in corso, cercare di creare un apparato di sicurezza nazionale concedendovi posizioni privilegiate a certe comunità, non è solo un'operazione destinata al fallimento; questo genere di settarismo mascherato non farà che peggiorare drammaticamente la situazione – gettando benzina sul fuoco della già tremenda violenza intercomunitaria. L'irachizzazione è l'equivalente funzionale di quanto fatto in Bosnia un decennio fa, rafforzando le milizie musulmane perché “garantissero la sicurezza” nelle aree serbe. Il solo modo possibile per creare forze di sicurezza indigene in Iràq, è farlo su base regionale – ed apertamente settaria.
A dispetto di realtà tanto evidenti, l'amministrazione Bush, fino alla fine del suo mandato, ha portato avanti l'illusione della riconciliazione nazionale per ricostruire politicamente l'Iràq. Nel corso del 2007, il governo di “unità nazionale” del primo ministro Nuri al-Maliki fu messo a dura prova dall'uscita dei parlamentari sunniti e di quelli sadristi dalla coalizione di governo. Durante il 2008, Maliki ha faticato a reggersi in sella, sconquassato da una serie di crisi politiche e parlamentari; ma probabilmente né lui né il modello centralista sopravviveranno alle elezioni legislative in programma per la fine di quest'anno. Il risultato più probabile di queste elezioni sarà una maggioranza composta dalla Shi'a islamista (dominata dal CSRII) e dal principale blocco curdo. Questa coalizione si concentrerà sulla creazione d'uno Shiastan nelle regioni meridionali, massimizzando l'autonomia dei governi regionali rispetto a Baghdad e sviluppando l'industria energetica irachena secondo linee regionali anziché nazionali.

Opzioni e compromessi

Date le prospettive, una nuova politica nordamericana in Iràq dovrebbe mirare ad influenzare la transizione dal centralismo al regionalismo, così da raggiungere un nuovo compromesso regionale in Medio Oriente. Ciò, ovviamente, richiede un approccio differente alla ricostruzione politica dell'Iràq. Inoltre, è necessaria una diplomazia saldamente ancorata ad una corretta strategia, per convincere gli altri attori a cooperare strettamente con gli Stati Uniti, dato che, per raggiungere quegli accordi inter e intracomunitari (presupposto della pacificazione in Iràq), è necessario l'intervento di altri Stati regionalmente influenti, compresi Iràn, Siria, Turchia e Arabia Saudita.
Il mutamento d'approccio ed una più robusta diplomazia regionale saranno necessariamente legati al ritiro delle forze statunitensi dall'Iràq. Lei s'è impegnato (e si trova sottoposto ad un'enorme pressione interna) a cominciare quasi immediatamente la smobilitazione. Il ritiro militare è indispensabile pure per riaggiustare la posizione strategica nordamericana in Medio Oriente – che richiede, tra le altre cose, il ritorno al posizionamento “oltre-l'orizzonte” (a distanza), con forze navali che forniscano una presenza costante, e con equipaggiamenti preposizionati nella regione, in caso di crisi che richieda il dispiegamento di truppe terrestri.
Volendo lavorare al riposizionamento nordamericano in Iràq, quali opzioni s'hanno a disposizione? In generale, la campagna elettorale dei Democratici, nel 2008, ha evidenziato tre distinte alternative.

Ridispiegamento cadenzato. La prima opzione ricalca essenzialmente la strategia abbozzata nel rapporto dell'Iraqi Study Group: un ridispiegamento cadenzato su più fasi, che allontani le forze da combattimento statunitensi dall'Iràq lasciando solo un piccolo contingente per addestrare le forze di sicurezza indigene e colpire gli elementi di al-Qaeda che fosse possibile rintracciare. Come già fatto notare, i Democratici hanno generalmente sostenuto le raccomandazioni del gruppo di studio, e numerosi candidati alla presidenza, tra cui i senatori Hilary Clinton, Chris Dodd e Barack Obama, hanno presentato proprie versioni del “ridispiegamento cadenzato”.
Se quest'opzione sembra misurata, e non scopre più di tanto i fianchi alle accuse repubblicane di “tagliare la corda”, non è però in sincronia con le realtà regionaliste proprie della politica irachena. In teoria, un ridispiegamento cadenzato potrebbe legarsi sia ad un modello centralista sia ad uno regionalista; in pratica, le versioni presentate dai candidati democratici hanno tutte perpetuato l'attaccamento statunitense alle illusioni centraliste – in particolare, impegnano un residuo contingente statunitense a sostenere la “irachizzazione” delle forze di sicurezza indigene (sebbene ciò non farà altro che aumentare il numero delle persone uccise negli scontri etnici e settari).
Inoltre, diminuendo la presenza nordamericana in Iràq si potrebbero ridurre le nostre perdite, ma qualsiasi contingente residuo continuerà a lavorare inconsapevolmente per rimpolpare le fila jihadiste. L'opinione che le residue forze terrestri siano necessarie a colpire al-Qaeda è fuorviante. Forze convenzionali sono inadatte a compiere missioni di risposta rapida a minacce non convenzionali. Non a caso, i militari non si sono mai affidati a tali forze per condurre importanti missioni antiterroriste in Iràq o in Afghanistan; quando unità di terra sono riuscite a uccidere o catturare importanti elementi di al-Qaeda, è stato solo grazie a scontri a fuoco con i terroristi, di fatto comportatisi nell'occasione come forze convenzionali. La più efficace opzione militare contro i capi terroristi sono i sistemi aerei tattici e “d'arresto”, come i missili cruise, che possono essere impiegati da navi e forze speciali, sia dal mare sia da basi dislocate in paesi non arabi, come la Turchia, dove la presenza militare statunitense non dovrebbe generare cospicue attività terroristiche.

Ritiro e contenimento. Una seconda opzione sarebbe quella di ritirare le truppe statunitensi dall'Iràq, con la massima velocità consentita dalla prudenza tattica e dalla logistica, ridislocando quindi alcune forze di terra in basi vicine – probabilmente in Kuweit – per contenere un allargamento delle violenze intercomunitarie dall'Iràq al resto della regione. Si tratta, in buona sostanza, della strategia proposta dall'ex senatore John Edwards durante la sua campagna presidenziale.
Pur avendo il pregio di porre fine al vano sacrificio (moralmente offensivo) di soldati nordamericani in vista d'obiettivi irraggiungibili, presenta due seri difetti. Innanzi tutto, a meno che qualcuno si preoccupi d'una proiezione di forze militari convenzionali dall'Iràq – scenario davvero improbabile – piazzare truppe terrestri statunitensi in Kuweit o nelle vicinanze non conterrebbe granché. In secondo luogo, l'esperienza maturata durante la permanenza del numeroso contingente nordamericano in Arabia Saudita – dall'invasione irachena del Kuweit nel 1990 a quella statunitense dell'Iràq nel 2003 – permette di scartare l'idea che lo spostamento dei soldati dall'Iràq al Kuweit possa mitigare la percezione che i locali hanno degli USA come d'una potenza occupante. Anche ridislocati, i soldati nordamericani continuerebbero a fungere da catalizzatore per l'antiamericanismo ed il reclutamento di jihadisti.

Partizione morbida. Una terza opzione è la "divisione morbida": accettare le realtà post-Hussein e passare ad un approccio regionalista, permettendo alle tre grandi comunità d'assumere una posizione dominante (in termini politici e demografici) ognuna nella propria regione autonoma – i Curdi a nord, gli Sciiti a sud e ad est, i Sunniti a ovest – con Baghdad a fungere da capitale federale. Durante la campagna presidenziale, il più ardente sostenitore della divisione morbida è stato il senatore Joseph Biden, che già dal 2006 sostiene sia irraggiungibile una riconciliazione nazionale in Iràq. Secondo il progetto di Biden, la transizione verso un Iràq decentralizzato sarebbe coordinata col ritiro delle forze statunitensi dal paese, e comporterebbe vigorosi sforzi diplomatici degli Stati Uniti verso i vicini dell'Iràq e gli altri attori regionali, anche convocando una conferenza internazionale ed istituendo un gruppo di contatto per supervisionare l'implementazione della partizione morbida.
Biden ha ragione nel vedere in uno Stato decentralizzato con regioni fortemente autonome il solo risultato politico in Iràq sostenibile a lungo termine; giustamente nota ch'esso richiederà l'aiuto degli altri Stati nella regione. Tuttavia, quest'opzione ha due deficienze significative, una strategica e l'altra tattica, cui si deve riparare prima di metterla in pratica.
A livello strategico, la partizione morbida, così come presentata da Biden, non è di per sé un trampolino di lancio per la vigorosa diplomazia regionale necessaria ad ottenere un Iràq stabile e decentralizzato. Per dirla chiaramente, quali incentivi offrirebbe all'Iràn, alla Siria o all'Arabia Saudita, tanto da spingerli a spendersi finanziariamente e politicamente per realizzare una sistemazione dell'Iràq gradita agli Stati Uniti? Biden sostiene che l'Iràn e gli altri Stati regionali collaboreranno perché a loro volta minacciati dall'instabilità dell'Iràq. Ma questi Stati si sono già attivati unilateralmente per difendere i propri interessi in Iràq, mentre gli Stati Uniti annaspano. Biden crede che, alla fine, gli attori regionali saranno costretti a sgravare gli Stati Uniti del fardello iracheno: ma una tale politica estera fideistica è paragonabile a quella di Bush! Allo stato attuale, gli Stati mediorientali collaboreranno ad un piano statunitense di stabilizzazione dell'Iràq solo se il loro aiuto rientrerà nel quadro d'un accordo più ampio. In altre parole, gli Stati Uniti dovranno dar loro altre ragioni per cooperare.
Per incentivare la collaborazione regionale sull'Iràq, gli Stati Uniti – ancor prima di convocare la conferenza internazionale ed istituire il gruppo di contatto – dovranno avviare un aperto dialogo strategico con gli attori regionali di maggior rilievo, inclusi Iràn, Siria e Arabia Saudita.
Con l'Iràn, gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi ad una riconciliazione generale, grazie alla quale non solo l'Iràn collabori in Iràq, ma accetti anche significative restrizioni al suo programma nucleare e rinunci a sostenere le attività terroriste di Hamas e Hezbollah. In cambio, gli Stati Uniti s'impegneranno a non agire di forza contro l'integrità territoriale iraniana o la sua forma di governo. Inoltre, dovranno abolire le sanzioni unilaterali e normalizzare le relazioni bilaterali, riconoscendo all'Iràn un legittimo ruolo regionale.
Con Damasco, Washington dovrà definire una “tabella di marcia” per la ricomposizione delle relazioni siriano-statunitense, basate sull'impegno reciproco relativamente a questioni economiche, politiche e strategiche.
E con l'Arabia Saudita, gli Stati Uniti dovranno essere pronti ad una conversazione seria, in vista d'un mutamento politico in relazione alla sicurezza nel Golfo Persico ed alla pacificazione arabo-israeliana, riconoscendo gl'interessi e le iniziative saudite. A livello tattico, condurre a termine la partizione morbida, nel contempo impedendo significative violenze etniche e intercomunitarie, sarà una sfida politica e militare. L'unica soluzione potenzialmente fattibile sarebbe il dispiegamento d'una forza multinazionale – autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, organizzata dalla Lega Araba e dall'Organizzazione per la Conferenza Islamica, appoggiata dalle capacità logistiche e di trasporto degli USA – per pattugliare i confini iracheni, assicurare i corridoi di transito regionali, e fornire un ombrello di sicurezza a Baghdad. Una conferenza internazionale sulla stabilizzazione dell'Iràq servirebbe a definire la composizione di tale forza ed il suo mandato, oltre ad agevolare un accordo tra i dirigenti politici locali sui dettagli della partizione morbida.
Imbarcarsi in un piano diplomatico così ambizioso sarebbe scoraggiante in qualsiasi circostanza. Tuttavia, per avere una strategia di recupero fattibile in Iràq, Lei deve al più presto lanciare questa campagna multidirezionale. Dato il chiaro imperativo di ritirare le truppe statunitensi dall'Iràq, dovrà ottenere la collaborazione in vista d'un accordo regionale per la partizione morbida - prima che il ritiro militare sia così avanzato da aver ridotto sensibilmente l'importanza nordamericana in Iràq.
Così facendo, gli Stati Uniti non solo si districherebbero dall'Iràq, ma forgerebbero pure una nuova strategia mediorientale. Nel 1945, il presidente Roosevelt, saggiamente, ne comprese la necessità. Ancorché non perfetto, il suo scambio petrolio-per-sicurezza assicurò la materia prima necessaria a sei decenni di crescita economica senza precedenti e di prosperità diffusa in tutto il mondo; estendendo l'accordo allo scambio “pace-per-sicurezza” con l'Egitto, negli anni '70, tale struttura assicurò anche la sopravvivenza d'Israele. Il presidente Bush ha avventatamente disprezzato ed abbandonato quest'approccio dei suoi predecessori. Solo un nuovo ed ampio accordo tra gli Stati Uniti e gli Stati fondamentali del Medio Oriente può portare sicurezza e stabilità alla regione strategicamente più importante al mondo.

(traduzione di Daniele Scalea)
Articolo originale: http://www.prospect.org/cs/articles?article=to_the_incoming_president_on_iraq

* Flynt Leverett è socio anziano della New America Foundation e professore di scienze politiche al Massachusetts Institute of Technology. È stato responsabile degli affari mediorientali presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale e la sezione Pianificazione Politica del Dipartimento di Stato durante il primo mandato presidenziale di Bush. Dopo aver lasciato l'amministrazione Bush per incomprensioni politiche, è stato consigliere per la politica estera del senatore John Kerry durante la sua campagna elettorale presidenziale.