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Ma è sempre la stessa arroganza la molla dello scientismo

di Francesco Lamendola - 16/07/2007

 

Galileo Galilei, nel Diualogo sopra i due massimi sistemi del mondo, stampato a Firenze nel 1632, faceva dire da Salviati a Simplicio che «l'intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l'intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille  rispetto all'infinito è come un zero; ma pigliando l'intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcune proposizioni, dico che l'intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n'abbia l'istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure,  cioè la geometria e l'aritmeticadelle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano  credo che la cognizione aguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la qual non par che possa esser sicurezza maggiore».

Ed al povero Simplicio - che ovviamene rappresenta (fin dal nome che Galilei gli ha appioppato) la magra parte dell'oscurantista pedante e limitato - il quale gli obietta, invero timidamente, che «Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito», Salviati (ossia, in realtà, lo stesso Galilei) ribatte con perfetta sicurezza: «Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d'ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sì come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente più eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è un semplice intuito (…)".

Galilei, astutamente, si serve di una famosa dimostrazione filosofica di San Tommaso d'Aquino che, nella Summa theologiae, aveva sostenuto non potere Iddio far sì che le cose accadute non siano accadute, nonostante la sua onnipotenza (perché ciò implicherebbe, secondo l'aquinate, contraddizione logica), per accostarla al suo ragionamento sulla perfezione delle leggi matematiche e ribadire che, in fatto di geometria, l'essere umano è in grado di sapere alcune cose esattamente con lo stesso grado di chiarezza con cui le conosce Dio.

Si potrebbe obiettare che Galilei credeva, erroneamente, che le orbite dei pianeti fossero di forma circolare, anziché ellittica; e, per giunta, non aveva alcun sentore delle geometrie non euclidee (scoperte nel XIX secolo), nelle quali la somma degli angoli di un triangolo può essere maggiore o minore di 180 gradi; ma non è questo il punto. Non è dei progressi della scienza matematica che qui si discute, ma del fatto che il pensiero di Dio debba inchinarsi a quelle forme di ragionamento che esso presuppone; e, da questo punto di vista (intensive, si capisce!) non vi sia alcuna differenza fra le certezze della mente divina e quelle della umana. In effetti, nel pensiero matematico moderno da sempre si fronteggiano due indirizzi principali, secondo uno dei quali la matematica è un prodotto della mente umana, mentre secondo l'altro essa possiede un'esistenza reale fuori di noi, nella struttura dell'universo. Galilei appartiene a quest'ultimo indirizzo: per lui, il gran libro dell'universo' è scritto in caratteri matematici, che sono cerchi, triangoli, ecc., e lo scienziato, che è in grado di leggerlo, può raggiungere in esso lo stesso grado di certezza che è proprio della mente divina.

Si confronti ora il brano sopra citato con quello di un eminente scienziato dei nostri giorni: Stephen Hawking. Secondo Hawking, titolare della cattedra di matematica lucasiana a Cambridge e generalmente considerato il maggiore cosmologo vivente, esiste oggi la concreta possibilità di scoprire la teoria definitiva dell'Universo. Essa sarebbe in grado di spiegare una volta per tutte non solo l'origine e il destino dell'Universo, ma anche di leggere, per così dire, nei pensieri di Dio, mettendoci sul suo stesso livello di comprensione cosmica. Egli enuncia senza batter ciglio questa strabiliante teoria, lasciando intendere che i tempi "romantici" della relatività sono superati e che no possediamo oggi ben più solide basi, rispetto ad Einstein, per lanciarci all'assalto dell'ultima frontiera: una teoria cosmologica unificata capace di spiegare tutte le forze fisiche fondamentali dell'Universo, il mistero della sua nascita così come quello del destino che lo attende, abbattendo una volta per tutte, a vantaggio della scienza, la tradizionale distinzione fra l'ambito di quest'ultima (il come dei fenomeni) e quello della filosofia (il perché essi avvengono).

Ma ascoltiamo tale affermazione alle sue stesse parole, così come la esprime nel suo libro La teoria del tutto. Origine e destino dell'universo (Milano, Mondolibri, 2003, pp.167-168): «Una volta, Einstein si pose questa domanda: 'Quanto fu ampia la libertà di scelta di Dio nella costruzione dell'universo?'. Se la proposta dell'assenza di confini è corretta, Egli non ebbe alcuna libertà nella scelta delle condizioni iniziali. Avrebbe avuto ancora, naturalmente, la libertà di scegliere le leggi alle quali l'universo doveva obbedire, ma questa, in realtà, potrebbe non essere stata poi una gran scelta: ci potrebbero infatti essere soltanto poche (e forse solo una) teorie complete unificate non autocontraddittorie e tali da permettere l'esistenza di esseri intelligenti.

"Ma possiamo interrogarci sulla natura di Dio anche se c'è solo una possibile teoria unificata, che si riduce a un semplice insieme di leggi ed equazioni. Che cos'è che soffia il fuoco vitale nelle equazioni, e crea un universo che esse possono descrivere? L'approccio solitamente adottato dalla scienza,  quello di costruire dei modelli matematici, non può rispondere alla domanda del perché dovrebbe esserci un universo descrivibile da quei modelli. Perché mai l'universo si dà la pena di esistere? La teoria unificata ha una forza tale da determinare la sua propria esistenza? O ha invece bisogno di un creatore? E, in tal caso, questo creatore esercita qualche altro effetto sull'universo oltre a essere responsabile della sua esistenza? E chi ha creato questo creatore?

"Fino a oggi, gli scienziati sono stati troppo occupati a elaborare nuove teorie che descrivono che cos'è l'universo per porsi la domanda del perché. D'altro canto, le persone il cui lavoro è proprio quello di chiedersi il perché delle cose - ossia i filosofi - non sono riuscite a tenere il passo con il progresso delle teorie scientifiche. Nel XVIII secolo, essi ritenevano che l'intero scibile umano, scienza inclusa, fosse di loro competenza, e discutevano su questioni come 'l'universo ha avuto un inizio?'. Nel corso del XIX e del XX secolo, però, la scienza è diventata troppo tecnica e troppo matematica per i filosofi o per chiunque altro, tranne per pochi specialisti. I filosofi hanno quindi a tal punto ridotto l'ambito delle proprie ricerche che Ludwig Wittgenstein, il filosofo più illustre del XX secolo, è venuto ad affermare che «l'unico compito che resta alla filosofia è l'analisi del linguaggio». Che declino rispetto a quella tradizione filosofica che da Aristotele va fino a Kant!

"Tuttavia, se riuscissimo a scoprire una teoria completa, col tempo tutti - e non solo pochi scienziati - dovrebbero essere in grado di comprenderla, almeno nei suoi principi generali. Saremmo quindi tutti in grado di prender parte alla discussione sul perché l'universo esiste. E, se trovassimo la risposta a quest'ultima domanda, decreteremmo il definitivo trionfo della ragione umana, poiché allora conosceremmo il pensiero stesso di Dio."

A parte la discutibile affermazione che Wittgenstein è il maggior filosofo del XX secolo, e a parte il non tanto dissimulato compiacimento circa il fatto che i rispettivi ruoli di filosofi e scienziati si sarebbero invertiti a partire da quando la scienza è divenuta troppo "tecnica" perché i filosofi possano tenere il passo con i suoi rapidi progressi, (il che implicherebbe, comunque, che il ruolo dei filosofi sarebbe quello di elaborare quanto gli scienziati vanno scoprendo), una cosa balza subito all'occhio nel brano sopra riportato. Secondo Hawking, la scoperta di una teoria scientifica unificata dell'universo sarebbe in grado di spostare l'ambito di competenza degli scienziati dal come al perché; e non - si badi - al perché di un singolo fenomeno fisico, ma al perché supremo: la ragione dell'esistenza dell'universo. A quel punto, non solo gli scienziati, ma tutti gli uomini - per merito dei primi, s'intende - sarebbero in grado di leggere le carte di Dio, di vedere nella sua mente con la stessa chiarezza con cui un gruppo di turisti guarda i pesci tropicali nella vasca d'un acquario marino.

Ma a quel punto, che differenza vi sarebbe tra le nostre menti e la Mente divina? Nessuna: perché, leggendo in essa la teoria unificata dell'universo, noi potremmo riconoscervi non solo alcune verità matematiche (il sapere intensive caro a Galilei), ma tutte le verità esistenti (sapere extensive, ossia quantitativo); e saremmo, ipso facto, promossi sul campo al rango di altrettanti dei.

Delirio di onnipotenza dello scientismo?

In realtà, lo scopo ultimo dello scientismo non è tanto quello di azzerare la differenza ontologica fra l'uomo e il suo creatore, quanto quello di scacciare quest'ultimo dal trono, farne sparire anche il ricordo, come quello di un oppressivo tiranno,  e sostituire al tempo dei "miti" quello della "scienza", ove non c'è alcun bisogno di Dio, perché l'uomo sa già tutto quanto gli occorre per sentirsi il signore dell'universo. Sa perfino, come voleva Sigmund Freud,  che l'idea di Dio è un'idea patologica, una forma di nevrosi ossessiva, della quale ci dobbiamo sbarazzare al più presto per recuperare, con la "salute", il nostro equilibrio psichico così a lungo minacciato.

 Esagerazioni? Non proprio. Scrive in proposito lo psichiatra gesuita Ignace Lepp nel suo bel libro Luci e tenebre dell'anima (Roma, Edizioni Paoline, 1959, pp.292-295):"L'atteggiamento personale di Freud nei confronti ella religione è di una netta ostilità. «La maschera è caduta - egli esclama in L'avvenire di un'illusione - , finalmente la psicanalisi conduce alla negazione di Dio!». Invece di attenuarsi col passar del tempo, l'ostilità del fondatore della psicanalisi va crescendo sempre più come risulta evidente dal confronto delle due opere da lui consacrate a questo argomento, Totem e tabù  e L'avvenire di un'illusione. Egli assimila il sentimento religioso alla nevrosi ossessiva, frutto del complesso edipico. «Quando il bambino, egli scrive, si accinge, crescendo, di esser destinato a rimanere per sempre fanciullo e di non poter mai fare a meno di protezione contro le ignote forze che lo sovrastano, presta a queste i tratti della fisionomia paterna e si crea degli dei di cui ha paura, che cerca di rendersi propizi ed ai quali attribuisce il compito di proteggerlo» (L'avenir d'une illusion, p. 64). E ancora: «Le religioni dell'umanità devono esser considerate come deliri collettivi» (Malaise dans la civilisation, p. 700).

Secondo lui non esisterebbe una differenza fondamentale tra la magia, la superstizione e la religione: tutte le credenze, comprese quelle delle religioni più spiritualizzate, sarebbero superstizioni; tutti i riti, magia. Il primitivo - sempre secondo il dottor Freud - avrebbe un'oscura paura delle pulsioni istintive che scorge in se stesso ,e non sa attribuirle che a una causa esteriore, a uno spirito, a un demone. «Per una larga parte, la concezione mitologica del mondo che anima persino le religioni più moderne, non  è altro che una psicologia proiettata sul mondo esterno…Potremmo assegnarci il compito di decomporre, mettendoci da questo punto di vista, i miti relativi al peccato originale, al paradiso, a Dio, al male e al bene, all'immortalità» (La psychopathologie de  la vie quotidienne, p. 289-299). Ancora: «La repressione o la rinunzia a certe pulsioni istintive sembra essere alla base della formazione della religione» (L'avenir d'une illusion, p. 178).

Quella che tradizionalmente viene chiamata metafisica non sarebbe adunque in realtà che metapsichica. L'inconscio che, a causa del primo delitto edipico, si sente colpevole nei confronti del padre, avrebbe fabbricato l'immagine di un dio-padre, onnipotente e capace di vendicarsi. In quanto provengono più o meno direttamente dal complesso d'Edipo,  tute le emozioni e tutti i sentimenti religiosi hanno un'origine sessuale.

Freud vede nell'arte una nobile sublimazione della sessualità rimossa e quindi la considera come legittima, mentre invece disprezza profondamente la sublimazione religiosa, la quale non creerebbe nulla di valido. Essendo una ossessione ella stessa, la religione non sarebbe qualitativamente superiore alle altre nevrosi, quindi lo psicanalista freudiano coerente non può considerare un'analisi come veramente riuscita finché non ha liquidato anche la nevrosi religiosa. Del resto il maestro stesso era fermamente convinto che con la maturità psicologica sarebbe scomparso ogni bisogno religioso!…"

A questo tende lo scientismo, frutto di quattrocento anni di arroganza intellettuale senza pari, da quando furono gettate le basi della cosiddetta "Rivoluzione scientifica" del 1600 che, separando definitivamente scienza e filosofia, ha preparato quei deliri di onnipotenza del paradigma tecno-scientifico ai quali oggi stiamo assistendo, fra clonazioni di esseri viventi, modifica genetica di organismi, fecondazioni in vitro e bio-ingegneria senza freni e senza scrupolo di sorta. Come stupirsi, a questo punto, se il più celebre cosmologo vivente profetizza ormai vicino il tempo in cui ogni uomo, grazie alle scoperte dei fisici, sarà in grado di leggere nella mente di Dio, ossia di farsi dio egli stesso? Sarà un superuomo formato tascabile, in sedicesimo; un superuomo poco nietzschiano e molto in sintonia con il consumismo usa-e-getta, con il pragmatismo utilitarista secondo il quale ogni problema esistenziale è una questione meramente tecnica e le domande metafisiche, semplicemente, non hanno un senso.

 

 

                                                                                       Francesco Lamendola