Ecologia e cristianesimo, convergenze e divergenze
di La Civiltà Cattolica/Il Sole 24 ore - 13/12/2005
Fonte: ariannaeditrice.it
Il problema ecologico si può considerare sotto due aspetti. Sotto quello dell’«ecologia» esso riguarda lo studio della situazione ambientale del nostro pianeta, il degrado ecologico a cui vanno incontro, le cause di tale degrado, gli interventi che bisogna porre in atto sia per non aggravarlo ulteriormente, sia per cercare di migliorare la situazione, l’incidenza economica e sociale di tali interventi, le autorità che devono realizzarli. Sotto l’aspetto dell’«ecologismo» esso riguarda l’ideologia o le ideologie che sono alla base dei movimento ecologici, ambientalisti e «verdi». Nel precedente editoriale ci siamo soffermati su alcuni problemi dell’«ecologia», presentando i dati essenziali dell’attuale degrado ecologico, indicandone le cause e la responsabilità che nei confronti di esse ha l’attuale modello, consumistico e individualistico, di sviluppo, e suggerendo alcune indicazioni di ordine morale perché gli interventi tecnici proposti da molte parti siano efficaci. Vogliamo ora soffermarci sull’«ecologismo» e sui rapporti tra ecologismo e cristianesimo, dato che l’ideologia ecologista pone oggi al cristianesimo alcuni problemi che meritano una particolare attenzione.
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Non è facile definire o almeno descrivere l’ecologismo, sia perché non ha avuto ancora il tempo di prendere una forma chiara e dai contorni precisi, sia perché i «padri» dell’ecologismo sono molti e di diverse tendenze, cosicché non è agevole ridurre ad unità il loro pensiero, fatto spesso più di intuizioni e di «sentimenti» che di concettualizzazioni razionali e coerenti. In ogni caso si può cogliere l’ideologia ecologista nei suoi tratti essenziali scorrendo le opere pubblicate recentemente: F.Capra – C.Spretnak, La politica dei Verdi, Feltrinelli, Milano 1986; F.Giovannini (ed.), Le culture dei Verdi. Un’analisi critica del pensiero ecologista, Dedalo, Bari 1987; J.Jacobelli (ed.) Il pensiero verde tra utopia e realismo, Laterza, Roma-Bari 1989. In breve si può dire che l’ecologismo, nelle sue varie espressioni, è l’ideologia che postula, come assoluta «priorità», un «rapporto nuovo» tra uomo e natura, tra uomo e ambiente e, dunque, investe direttamente l’intero modello di produzione e di vita delle società industrializzate. E’ in realtà una ideologia propriamente europea e americana, poiché è in Europa e nell’America del Nord che l’industrialismo è maggiormente sviluppato e ha provocato i guasti maggiori all’ambiente.
A questo proposito, è importante rilevare che l’ecologismo si pone come una delle ideologie proprie del nostro tempo di capitalismo avanzato e di superindustrialismo. Come il marxismo fu l’ideologia critica del primo capitalismo, perché da una parte se ne svelava i meccanismi di sfruttamento dell’uomo e dall’altra ne proponeva il superamento, così l’ecologismo è l’ideologia critica del capitalismo maturo e superindustrializzato, in quanto da un lato svela i danni che esso infligge all’uomo mediante lo sfruttamento selvaggio del suo ambiente di vita e, dall’altro, indica i «limiti» oltre i quali la società industriale non può andare e le iniziative da prendere perché quei limiti non siano superati. L’ecologismo potrebbe perciò essere considerato come la continuazione e insieme il superamento del marxismo, o meglio, l’allargamento della sua prospettiva.
Questo, infatti restringeva la lotta di classe al binomio «borghesia-proletariato» e aveva, tutto sommato, una visione parziale della realtà economica, perché non voleva distruggere l’industrialismo, ma consegnarlo nelle mani del proletariato. Invece l’ecologismo è contro l’industrialismo nella sua forma attuale – non importa se è realizzato da società ad economia di mercato (capitaliste) o a economie pianificate (socialiste) – e allarga il concetto di lotta di classe dallo sfruttamento dei proletari da parte della borghesia allo sfruttamento delle risurse naturali, che assicurano la vita di «tutti» gli uomini: questi, cioè vengono defraudati non del frutto del loro lavoro, come lo erano i proletari, ma della base stessa della vita. E’ il significato di quanto scrive il prof. G. Nebbia:
«la contestazione ecologica indica proprio le contraddizioni fra la sopravvivenza del pianeta e le attuali regole della tecnica e dell’economia. Sul piano etico-filosofico la salvezza va cercata nel coraggio di dire “no” all’attuale società dei consumi, del “di più”, del possesso dei beni materiali fine a se stesso, nel nome della vita della collettività umana, della possibilità di lasciare al “prossimo del futuro” terre fertili, acque bevibili, aria respirabile. La salvezza presuppone il rigetto delle regole della società capitalistica – uguali nei Paesi a libero mercato e a economia pianificata – le quali sono intrinsecamente incompatibili con la realizzazione di forme di equilibrio e di convivenza fra gli esseri umani e la natura. La contestazione ecologica indica così un nuovo volto della lotta di classe fra oppressori e oppressi, in cui la violenza degli oppressori consiste oggi nello sfruttamento degli altri esseri umani anche attraverso la distruzione della natura, base fisica della vita» (Contro il consumismo, in J.Jacobelli [ed.], Il pensiero verde tra utopia e realismo, cit. 141)
L’ecologismo, per il suo anticapitalismo e per il suo antindustrialismo, può, dunque, essere considerato come una forma modernizzata del marxismo, applicato non più al paleocapitalismo dell’epoca di Marx, ma al capitalismo maturo del nostro tempo: questo potrebbe spiegare le simpatie che l’ecologismo incontra negli ambienti della sinistra marxista e spiegare anche perché i «verdi» tendano a tingersi di «rosso». Ma sarebbe riduttivo collocare il movimento ecologista nell’ambito marxista, anche perché non pochi «verdi» rifiuterebbero tale collocazione, tanto più che il movimento ecologista tende a porsi, nel dibattito sullo sviluppo, sia in contrapposizione con lo schema neo-liberista, proprio del capitalismo avanzato, sia in contrapposizione con lo statalismo pianificatore marxista, poiché insiste sul decentramento delle decisioni e sulla partecipazione. In realtà, quello che contraddistingue l’ecologismo in tutte le sue tendenze e sfumature è la necessità di realizzare un rapporto «nuovo» tra l’uomo e la natura. Un rapporto diverso, quindi, tanto dallo schema liberista-capitalista, che ha portato all’attuale degrado ecologico, quanto dallo schema marxista-statalista che tale rapporto nuovo di «umanizzazione» della natura, di cui parlava il giovane Marx, non è stato capace di realizzare. Rapporto nuovo, che è di natura epocale, nel senso che non può consistere nell’apportare alcuni correttivi all’attuale sistema di produzione, nell’imporre maggiori vincoli , nell’aumentare le pene e i controlli per gli inquinatori. Si tratta, per l’ecologismo, di apportare cambiamenti profondi e radicali.
Anzitutto, un cambiamento culturale, che metta in discussione sia il paradigma dell’industrialismo, il quale privilegia sopra ogni altra cosa la produzione della maggiore quantità di beni materiali, sia la convinzione che il benessere consista nel consumo più grande possibile di beni, anche se ciò avviene a danno di quei beni che assicurano una migliore qualità della vita: un ambiente più sano e più pulito, la minore congestione del traffico, la diminuzione del rumore e via dicendo. Del cambiamento culturale fa parte anche la presa di coscienza dei «limiti dello sviluppo», cioè dei «limiti» che alla crescita indefinita della produzione dei beni pongono sia il fatto che le risorse energetiche non sono inesauribili, sia il fatto che l’ambiente non può sopportare una tale crescita senza esserne danneggiato gravemente. Il cambiamento culturale richiesto dall’ecologismo esige, dunque, che la categoria della «quantità» venga sostituita dalla categoria della «qualità» e che alla categoria della «crescita» indefinita sia sostituita quella del «limite dello sviluppo».
Ma, per l’ecologismo, al cambiamento culturale deve tener dietro un cambiamento del modo di produrre. Non si tratta solo d’imporre «vincoli» allo sviluppo – ciò che fa anche il Rapporto Meadows al Club di Roma, che pure proviene da ambienti industriali e rappresenta gli interessi e le esigenze del moderno capitalismo - , ma d’intraprendere vie nuove nel modo di produrre, ricorrendo alle forme di energia rinnovabili e non inquinanti (energia solare, eolica, geotermica e marittima) e diminuendo il consumo di energie non rinnovabili e altamente inquinanti, come il petrolio e il carbone; abolendo l’impiego in agricoltura di pesticidi, erbicidi e antiparassitari; riciclando i rifiuti.
Più profondamente, per l’ecologismo si tratta di passare - come si esprime il prof. G.Nebbia - «dall’attuale “società paleotecnica” a una “società neotecnica”, in cui vengano usati nuovi materiali, vengano scelte nuove forme della casa e della città, nuovi modi di trasporto e di comunicazione, nuove forme di agricoltura, progettati con l’obiettivo di soddisfare più equamente i bisogni umani di tutti con minore sfruttamento delle risorse naturali scarse, con minore inquinamento» (ivi, 140).
Di qui il carattere propriamente «rivoluzionario» dell’ecologismo, che anche nella sua tendenza riformista presenta riforme di così ampia portata da rivoluzionare non solo i modo di produzione, e quindi il sistema produttivo, ma anche tutto l’assetto sociale, e quindi la vita e i comportamenti della società e degli individui. Solo che non potrà essere, quella ecologista, una rivoluzione nel senso tradizionale, poiché i radicali mutamenti che essa impone non potranno essere rapidi e immediati, ma richiederanno molto tempo, tanto che c’è chi prevede che la questione ecologica sarà la grande questione del secolo XXI.
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Il secondo aspetto dell’ecologismo è il suo carattere totalizzante. Certo, quando si parla di ecologismo, non bisogna pensare che esso sia un blocco unico di pensiero, un «sistema». Infatti, ci sono in esso due tendenze essenziali: quella fondamentalista e quella riformista, oltre a tendenze meno importanti, poiché l’ecologismo è un «arcipelago» di movimenti, uniti più da un comune «sentimento» che da un «pensiero» da tutti condiviso. Prima di accennare alla tendenza fondamentalista, che ci sembra meglio caratterizzare l’ecologismo, soffermiamoci sulla tendenza riformista.
Questa tendenza rifiuta le due alternative proposte per risolvere la crisi ecologica: sia quella d’impedire autoritativamente - usando la forza dello Stato e le leve del mercato – l’ulteriore crescita, comprimendo la domanda di beni sempre più abbondanti (la cosiddetta «crescita zero», prospettata dal Rapporto Meadows al Club di Roma ne I limiti dello sviluppo), sia quella di fare macchine indietro e di tornare al buon tempo antico e in tal modo ridurre la complessità e con essa la gamma delle scelte.
Se la prima alternativa, per l’ecologismo riformista, è inaccettabile perché col suo autoritarismo comprime la maggiore domanda di beni comprimendo le persone che esprimono tale domanda, la seconda non è solo impossibile ma anche indesiderabile, perché non solo si regredirebbe a livelli tecnologici ed economici insopportabili, ma si ridurrebbe l’ampiezza delle opzioni di vita che lo sviluppo ha reso possibile e quindi si ridurrebbe la libertà, se è vero che la libertà è soprattutto opzione per la differenza. In particolare l’ecologismo riformista rifiuta i cinque assiomi che sono alla base della «crescita» che ha portato all’attuale situazione di degrado ecologico: 1) il benessere è costituito dalla crescente disponibilità merci per il consumo; 2) la massimizzazione della crescita economica è quindi il massimo dei fini della politica; 3) la crescita si misura con il PIL (Prodotto interno lordo); 4) le risorse materiali per sostenere la crescita sono fisicamente e tecnologicamente inesauribili; 5) i bisogni sono fondamentalmente acquisitivi e inesauribili.
E’ chiaro, infatti, che il benessere è più legato alla qualità della vita che alla quantità dei beni che si consumano; il PIL non può essere il solo indice di misura della crescita, perché, se tiene conto del valore «aggiunto», non tiene conto del valore «sottratto», cioè del costo, in termini di minore qualità della vita e di «erosione» del patrimonio naturale, che la crescita del PIL ha comportato; le risorse materiali non sono inesauribili; i bisogni sono insaturabili non per se stessi, ma a motivo della pubblicità che li fa crescere indefinitivamente e ne crea sempre di nuovi.
Che cosa propone allora l’ecologismo riformista? Si noti che, a differenza dell’ecologismo fondamentalista che intende mantenersi estraneo al «sistema», quello riformista si propone di lavorare all’interno di esso, per ottenere cambiamenti significativi in senso ecologico, chiedendo interventi per limitare, anche con l’ausilio di leggi adeguate, i danni del sistema industriale e militarista e per riconvertire gradualmente alcuni settori di esso. Punto di partenza dell’ecologismo riformista è la contrapposizione tra la «crescita» quantitativa e lo «sviluppo» qualitativo, e dunque la necessità di passare dalla «crescita» allo «sviluppo», riconoscendo che la crescita ha «limiti» materiali e fisici (possibile esaurimento di alcune risorse, aumento dell’inquinamento), ma soprattutto sociali ed etici.
In altre parole, la «crescita» deve restare stazionaria, mantenendo a livelli sufficienti lo stock dei prodotti (certamente con modalità diverse, perché i Paesi in via di sviluppo devono avere un periodo di crescita prima di modellarsi sui ritmi dello «stato stazionario»), mentre lo «sviluppo», cioè la qualità della vita, deve migliorare. Come sarà possibile ottenere questo risultato? Lo spiega il più noto degli ecologisti riformisti, Barry Commoner: «Se vogliamo sopravvivere tanto economicamente oltre che biologicamente, l’industria, l’agricoltura e i trasporti dovranno soddisfare le ineluttabili esigenze dell’ecosistema. Ciò comporterà lo sviluppo di nuove importanti tecnologie che comprenderanno: i sistemi di restituzione diretta al terreno dei liquami e della spazzatura; la sostituzione di molte sostanze sintetiche con quelle naturali; l’inversione dell’attuale tendenza a sottrarre terreno alla coltivazione e ad aumentare la resa per acro con un’intensa applicazione di fertilizzanti; la sostituzione di pesticidi sintetici, il più rapidamente possibile, con mezzi di controllo biologici; un’azione di scoraggiamento verso le industrie che consumano energia; lo sviluppo del trasporto via terra che operi con la massima resa del carburante a basse temperature di combustione e con il minimo impiego di territorio; un contenimento sostanzialmente completo dei rifiuti e il ricupero dei rifiuti dai processi di combustione, fusione e operazioni chimiche (le ciminiere devono diventare delle mosche bianche); un riciclo sostanzialmente completo di tutti i prodotti riutilizzabili come metalli, vetro, carta; una pianificazione ecologicamente sana nell’amministrazione del terreno, comprese le aree urbane» (Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano 1972, 263)
Come si vede l’ecologismo riformista non si oppone alla tecnologia in se stessa, ma solo alla tecnologia attuale, la quale opera dividendo e suddividendo il lavoro, senza tener conto dell’insieme: per esempio produce automobili senza tener conto degli effetti che tale produzione ha su altri settori tecnologici e sull’intero ecosistema. Si tratta, allora, non di rigettare la tecnologia, ma di guidarla, affinché tenga conto dell’insieme dell’ecosistema.
Afferma B.Commoner: «la tecnologia, opportunamente guidata da una giusta conoscenza scientifica, può avere risultati positivi nell’ecosistema» (ivi, 113). Sulla stessa linea si poneva E.F.Schumacher, per il quale è necessario ricercare sistemi tecnologici intermedi, capaci cioè di conciliare il rispetto dell’ambiente con le enormi possibilità che il progresso scientifico ha messo a disposizione (cfr Piccolo è bello, Mondadori, Milano 1978) realizzando in tal modo una tecnologia «a misura d’uomo».
In Italia colui che meglio incarna l’ecologismo riformista è Giorgio Ruffolo con la sua opera La qualità sociale (Laterza, Bari 1985). In genere i movimenti «verdi», sia in Europa (in particolare i Grünen tedeschi, dei quali si occupa l’opera citata di F.Capra e C.Spretnak, con l’intenzione di farli conoscere e, possibilmente, trapiantarli negli Stati Uniti), sia in Italia (dove formano un «arcipelago» con tendenze diverse, pur predominando i verdi del «Sole che ride» e i verdi «Arcobaleno») s’ispirano all’ecologismo riformista.
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Un’avversione alla tecnologia esprime invece l’ecologismo fondamentalista. Tra i suoi rappresentanti va ricordato Ivan Illich (La convivialità, Mondadori, Milano 1974), per il quale la crisi moderna sta nel fatto che la macchina si è sostituita all’uomo e gli strumenti, cioè i mezzi per soddisfare i bisogni umani, si sono sostituiti ai fini: la conseguenza è stata un «implacabile processo di asservimento del produttore e di intossicazione del consumatore» (ivi, 29).
Egli ritiene che certi strumenti, come le fabbriche, i macrosistemi, per loro intrinseca natura non possono cambiare la loro funzione nefasta, anche se mutano «padrone»: «La dittatura del proletariato e la dittatura del mercato sono due varianti politiche che celano lo stesso dominio da parte di un’attrezzatura industriale in costante espansione» (ivi, 30). Ci si può servire degli strumenti «solo ribaltando la struttura profonda che regola il rapporto tra l’uomo e lo strumento»: solo quindi creando «strumenti conviviali» e realizzando un’economia conviviale; in pratica realizzando un reticolo di piccole e «semplici» unità di produzione, le quali si servano di attrezzature poco complesse, facilmente impiegabili e di basso contenuto energetico, in relazione armonica e non conflittuale con l’ecosistema.
Altri rappresentanti dell’ecologismo fondamentalista sono Rudolf Bahro, Edward Goldsmith e Fritjof Capra.
Bahro, passato dalla Repubblica Democratica Tedesca alla Repubblica Federale di Germania, dapprima milita nei Grünen, poi se ne distacca quando i Grünen cercano di allearsi con la socialdemocrazia e subordinano il proprio programma economico di azione per combattere la crisi ecologica alla lotta contro la disoccupazione intesa come principale scopo operativo. Per lui la crisi ecologica è e deve restare il problema prioritario e non può esserci «programma comune» con i partiti della sinistra europea, che non hanno come priorità l’ecologia, anche se mostrano simpatia per i problemi ecologici. In realtà, alla centralità del lavoro Bahro sostituisce l’ecocentrismo: egli ritiene che nei Paesi industrializzati ci siano troppo lavoro e troppi lavoratori e perciò alla domanda del pieno impiego contrappone la necessità di ridurre almeno di metà il lavoro attualmente svolto nei Paesi industrializzati. Il Nord lavora, produce e consuma troppo; da una de-industrializzazione del Nord trarrebbe vantaggio il Sud che potrebbe usare le materie prime, che ora vengono usate dal Nord, per risolvere i suoi problemi economici, sanitari e ambientali.
Per Goldsmith «il principale difetto della società industriale e della sua divinizzazione dello sviluppo sta nel fatto che questo tipo di società non può durare all’infinito ed è anzi destinato a finire entro il corso della vita di quanti sono già nati oggi» (La morte ecologica, Laterza, Bari 1972, 11).
S’impone quindi una svolta nel senso dell’ecotopia: l’attività produttiva privilegerà il massimo risparmio di energie e di materie prime, con il minimo impatto ambientale; la nuova società ecologica sceglierà il decentramento e la piccola impresa, creando una rete di piccole comunità alternative, mentre nelle campagne opereranno cooperative imperniate su un’agricoltura diversificata e a coltivazione intensiva. La piccola comunità renderà più facile un controllo diretto sul Governo e la partecipazione pubblica alle decisioni. Ma, per il passaggio all’ecotopia, occorreranno non solo un grande coraggio morale, bensì anche interventi assai drastici per piegare gli antiecologisti e gli inquinatori.
Capra, che è professore di fisica a Berkeley, attribuisce l’attuale crisi ecologica al prevalere, nella scienza, della visione meccanicistica del mondo di Cartesio e di Newton: personalmente egli si orienta verso il Tao, che non riduce il mondo ad un insieme di oggetti esterni all’uomo, composti di particelle fondamentali (gli atomi), ma considera la Terra come un organismo vivente e non distingue l’uomo dal mondo fisico (Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano 1984).
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La visione «olistica» (cioè complessiva, globale, «organica», che pone l’accento più sul Tutto che sulle parti) di F.Capra è comune a tutto l’ecologismo fondamentalista, che, infatti, considera la terra come un unico organismo vivente, del quale fanno parte tutti gli esseri viventi, compreso l’uomo. Questi non si distingue dagli altri, come invece avviene nella visione antropocentrica, propria del cristianesimo. A tale visione olistica s’ispira Jim Loverlock, presentando la Terra – che egli chiama Gaia, dal nome della dea greca della terra – come un «sistema cibernetico in grado di determinare un ambiente ficico-chimico ottimale per il mantenimento della vita», e quindi capace di controllare e modificare l’ambiente che la circonda.
Il realtà, per l’ecologismo fondamentalista al centro non sta l’uomo, ma la vita, la biosfera. Nella sua forma propria – il biocentrismo - esso riconosce all’interno ecosistema e a tutte le sue componenti un valore in sé, oggettivo e quindi dei «diritti» che vanno rispettati incondizionatamente, a prescindere dall’uomo e dai suoi interessi. Tale biocentrismo è la norma della morale, per cui «una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità e la bellezza della comunità bioetica nel suo complesso (= tutti gli esseri viventi e il loro habitat). Una cosa è sbagliata quando manifesta la tendenza contraria» (A. Leopold). Siamo alla visione «olistica»
A tale visione s’ispira anche quella che è stata chiamata da Arne Naess nel 1972 l’«ecologia profonda» (Deep ecology). Questa concezione – scrive S.Castignone - «ruota attorno a due idee guida: la prima è quella della piena realizzazione del Self, o dell’Io, che si attua attraverso la totale identificazione di noi stessi col mondo, con l’ecosistema globale. Il Sé comprende la “totalità delle nostre identificazioni”, le quali non devono essere limitate a noi stessi e agli altri esseri umani, sia pure in un numero sempre più ampio, ma devono tendere a diminuire il senso, talvolta lacerante, di estraneità che ci separa dall’altro da noi. Occorre arrivare a sperimentare il senso della “unità nella diversità”, vale a dire l’identificazione totale con qualsiasi cosa esistente, vivente e non vivente, in una parola, con il Tutto. E’ il problema del rapporto tra l’Io e il non-Io, che si tenta di risolvere mediante una fusione quasi mistica con la natura. Il secondo punto fondamentale è costituito dall’egualitarismo biotico: tutte le forme di vita hanno uguale diritto di esistere, di manifestarsi e di svilupparsi. E tale diritto spetta non solo agli esseri umani, agli animali e ai vegetali, ma anche agli elementi inanimati dell’ecosistema, proprio in quanto parti di un organismo globale. Il pericolo inerente a questo tipo di posizione è di esaltare l’importanza dell’ecosistema naturale nel suo complesso a scapito della posizione che in esso occupa l’uomo, il quale talvolta viene definito come un semplice fenomeno transitorio che potrebbe al limite venire soppresso se ciò fosse necessario per tutelare il mondo naturale» (La natura presa sul serio, in J.Jacobelli [ed.], Il pensiero verde tra utopia e realismo. Cit. 39).
Infatti, alcuni seguaci della Deep ecology sono giunti a vedere nell’AIDS la «risposta» di Gaia alla sovrappopolazione e all’aggressione dell’ambiente che gli esseri umani conducono con l’industrializzazione: perciò l’AIDS colpisce solo gli uomini, mirando ad una loro diminuzione, ma non tocca gli altri esseri viventi. E’ insomma, un giustiziere ecologico, a difesa degli esseri viventi che l’uomo tende a distruggere. In realtà, per la Deep ecology la sovranità spetta alla vita selvatica, per cui tutte le specie animali vanno protette: persino le zanzare portatrici di malaria devono essere ritenuta una componente vitale della biosfera e, dunque, rispettate. Del resto, le sofferenze degli abitanti del Sahel sono terribili, ma altrettanto nefasta è la sofferenza di altre forme di vita; anzi, se per salvare la vita di un orso grizzly, un raro plantigrado in via di estinzione, bisognasse sacrificare la vita umana, non bisognerebbe esitare, perché la protezione di quell’orso è immensamente più importante della vita di un uomo, la cui specie non è certo in via di estinzione.
Ma, a parte queste «pazzie» (così definite dall’ecologismo più serio) della Deep ecology, per l’ecologismo fondamentalista è essenziale l’eguaglianza di valore – e quindi l’eguaglianza nei diritti – tra uomini e animali (almeno gli animali superiori), per cui si può giustamente parlare di «diritti degli animali» a vivere, a non essere sottoposti a sofferenze, come avviene nella vivisezione e in genere nella sperimentazione medica che si compie su di essi. Ciò significa che alla visione «umanistica» e «spiritualista» - che pone l’uomo al centro della natura – si deve sostituire una visione «animalistica» e «materialista» - «Siamo tutti animali» - , che pone al centro la «vita»: tanto quella «umana» quanto quella «animale» (ma in realtà non c’è distinzione tra vita umana e vita animale).
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Di fronte all’ecologismo – di cui abbiamo cercato di tracciare fedelmente le grandi linee – come si pone il cristianesimo? Ecco quello che ci resta da vedere. Diciamo subito che il giudizio cristiano sull’ecologismo è complesso. Indubbiamente, ci sono in esso molti punti che il cristianesimo apprezza e condivide, tanto che si può – e, anzi, si deve – parlare di un «ecologismo cristiano»: ma ci sono anche nell’ecologismo globalmente considerato punti che il cristianesimo non può accettare, in quanto contraddicono la visione che esso ha dell’uomo e della natura.
Un discorso preliminare va fatto sull’ecologismo in quanto «ideologia», cioè in quanto visione totalizzante della realtà, che porta a vedere tutto sotto l’angolo ecologico e quindi ad affermare il «primato» dell’ecologismo su ogni altro valore: ciò può essere pericoloso, perché può portare a una visione «parziale» della complessa realtà naturale e umana, e quindi a trascurare o mettere da parte valori e problemi che non entrano in quella visione; può anche portare a forme radicali di lotta ecologista che sono fortemente discutibili – si pensi alla campagna contro le centrali nucleari, che sono assai meno inquinanti del petrolio e del carbone e i cui disastri sono assai più rari di quelli che avvengono nelle miniere di carbone – oppure sono assolutamente da condannarsi, come gli attentati ai tralicci dell’ENEL, fatti saltare con bombe (in Italia ce ne sono stati 13 dal 4 luglio 1987 al 6 ottobre 1989, all’insegna dello slogan: «No alle centrali nucleari e a carbone. No alla guerra. No ai padroni dell’energia e della terra»., firmati dai «Figli della terra» e dalla «Tribù in guerra per la vita»).
Anche a questa visione «ideologica» dell’ecologismo vanno attribuite certe campagne di gruppuscoli verdi contro l’installazione nella propria zona di centrali produttrici di energia, che si ritengono inquinanti, ma della cui energia non ci si vuol privare, purché siano costruite altrove. Problemi complessi, come quello dell’Acna di Cengio o quello dell’Enimont di Brindisi, dovrebbero essere risolti in senso ecologico, certamente, ma in modo ben più serio e razionale di quanto possa consentire l’«ideologia» ambientalista che di quei problemi vede un aspetto solo.
Per quanto riguarda i valori che l’ecologismo porta avanti - rispetto della natura e rifiuto del suo sfruttamento selvaggio e irrazionale, prevalenza della «qualità» della vita sulla «quantità» dei beni di consumo e quindi condanna del consumismo spinto fino allo spreco e alla dilapidazione delle risorse – si tratta di valori e di esigenze propriamente «cristiani».
Il cristianesimo infatti vede la creazione come creazione di Dio: della quale, cioè, Dio è e resta il Signore, cosicché l’uomo non ne diviene mai il padrone assoluto. La creazione è a lui «donata» da Dio perché se ne serva per il suo bene; ma è anche a lui affidata perché la porti a compimento, come collaboratore di Dio; perciò deve averne cura e custodirla con saggezza e bontà, sull’esempio di Dio che ha creato «buone» tutte le cose e le governa con saggezza e bontà. L’uomo, infatti, è «immagine» di Dio nel suo essere e dev’esserlo anche nel suo agire. Perciò non ha né può avere sulla natura un potere dispotico e distruttivo e non può, senza andare contro il disegno e la volontà di Dio, sfruttarla selvaggiamente e irrazionalmente, fino a danneggiarla e distruggerla.
D’altra parte, per il cristianesimo le cose create sono il «segno» di Dio e ne portano l’impronta, tanto che proprio da esse l’uomo conosce Dio, la sua sapienza, la sua bontà, la sua bellezza: «Dalla creazione del mondo in poi – scrive San Paolo – le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20). Così la creazione non ha solo un valore economico e utilitario, ma anche un valore simbolico, religioso ed estetico: è fatta, certo, perché l’uomo se ne serva per la sua vita e per le sue esigenze; ma è fatta anche perché, contemplandola, si elevi a Dio, e nella sua bellezza scorga un raggio dell’infinita bellezza di Dio. Perciò la devastazione e l’imbruttimento della natura sono agli occhi del cristiano una «profanazione» del grande «tempio» di Dio che è il creato. Offendere la bellezza e l’integrità della creazione è offendere Dio che di tale bellezza e integrità è l’autore e il custode.
Va ricordato, infine, che il cristianesimo propone uno stile di vita non consumista e dissipatore, ma sobrio: «Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo» (1 Tm 6,8).
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E’, invece, su tre punti che il contrasto tra ecologismo e cristianesimo è grave e sembra difficilmente sanabile. Il primo riguarda la concezione della natura che alcune forme di ecologismo non solo «mitizzano» in maniera romantica come «amica» e «benigna», propugnando un «ritorno alla natura» assolutamente utopico, ma addirittura «divinizzano», tornando così a forme di paganesimo, per il quale la natura era «piena di dèi» oppure ispirandosi a talune religioni e filosofie orientali, come il taoismo. Per il cristianesimo, la natura è creatura di Dio e ne porta il segno, ma non è divina. Infatti, l’atto della creazione pone una distanza infinita e invalicabile tra Dio e la sua opera: la natura, quindi, riceve la sua esistenza da Dio, ma non è né una sua emanazione né una sua «incarnazione». Partendo dalla contemplazione della natura, l’uomo può salire a Dio, ma Dio non è nella natura, bensì la trascende infinitamente. La natura va dunque rispettata come opera di Dio donata all’uomo, ma non può essere né adorata né assolutizzata, come se fosse Dio o qualcosa di «divino».
Il secondo punto di contrasto tra ecologismo e cristianesimo sta nel fatto che taluni presentano l’ecologismo come un messaggio messianico di salvezza, facendone in tal modo una «religione secolare», capace di salvare l’uomo dalla distruzione a cui l’odierna tecnologismo lo condanna. Per il cristianesimo la «salvezza» è di ordine religioso e chi porta e dà la salvezza, liberando l’uomo dal male e dalla morte facendolo partecipare alla vita di Dio è Gesù Cristo. Perciò, il cristiano approva, appoggia e incoraggia le proposte fatte dagli ecologisti per evitare il disastro ecologico e migliorare la condizione dell’ambiente, nella misura in cui non sono utopiche, irrealizzabili oppure tali da impedire il giusto e necessario sviluppo (e in tal senso il cristiano rifiuta di demonizzare la tecnica e lo sforzo umano per raggiungere migliori condizioni di vita; ma ripone la sua speranza di «salvezza» in Dio e in Gesù Cristo.
Il terzo – e più grave – punto di contrasto tra ecologismo e cristianesimo sta nel posto che l’uomo occupa nella natura. L’ecologismo è biocentrico, nel senso che l’uomo fa parte della natura ed è un vivente alla pari con gli altri viventi, con gli stessi diritti: è abolito, quindi, ogni dualismo tra uomo e natura. Perciò, se si parla di diritti dell’uomo, si deve anche parlare di diritti degli animali, ai quali quindi non possono essere inflitte sofferenze – in particolare con la vivisezione – perché l’uomo ne ricavi benefici per la sua salute. Il cristianesimo, invece, è antropocentrico, nel senso che pone l’uomo al «centro» e la «vertice» della creazione: certamente l’uomo fa parte della natura sotto l’aspetto biologico, ma si distacca da essa per quello spirituale. Egli, infatti, è un essere non puramente materiale, come gli altri esseri viventi, ma è un essere spirituale, dotato di coscienza, intelligenza e libertà. In lui lo spirito si incarna nella materia e, perciò, per un verso è immerso nella natura materiale, ma, per un altro verso, emerge da essa in quanto spirito. Ha dunque un carattere «personale» che gli è proprio e che non si può attribuire a nessun altro essere vivente. Ma, essendo «persona» è per ciò stesso soggetto di diritti fondamentali e inalienabili. Solo, quindi, in riferimento all’uomo in quanto «persona» si può parlare di «diritti».
Gli animali, non essendo persone, non possono essere soggetti di «diritti». In quanto creature di Dio devono essere trattati con ragionevolezza e bontà, e quindi non sottoposti a sofferenze inutili e irragionevoli. Così un cristiano potrebbe ragionevolmente essere contro la caccia, quando questa sia non un a necessità di vita, ma solo una forma di svago. Tuttavia gli animali sono «donati» da Dio all’uomo: «Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi dò tutto questo» (Gn 9, 2-3). Ciò significa che tutta la creazione è fatta per l’uomo: in quanto essere materiale, la creazione gli è «donata» perché se ne serva per la vita e le sue esigenze materiali; ma in quanto essere spirituale, tutte le creature gli sono «donate» per la sua crescita spirituale e, in particolare, per lodare e glorificare Dio. Infatti, tutta la creazione esiste per la lode e la gloria di Dio e tutte le creature raggiungono il fine per cui sono create quando lodano e glorificano Dio. Ora, le creature inanimate e animate proclamano con l’ordine meraviglioso della loro struttura e con lo splendore della bellezza di cui sono dotate la «gloria di Dio», cioè la sua sapienza e la sua bellezza: «I cieli proclamano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» (Sal 18,2). Ma non hanno la «voce» per lodare Dio. E’ l’uomo, in quanto essere spirituale, e dunque cosciente e intelligente, che si fa «voce» della creazione. Per mezzo di lui, dunque, la creazione raggiunge i suo fine, cosicché nell’uomo il cosmo trova la sua autenticità e la sua verità. E’ in questo farsi «voce» della creazione che l’homo sapiens raggiunge il punto più alto del suo essere: egli è homo faber – e quindi uomo del lavoro e della tecnica, come strumento per «dominare la terra», a lui affidata da Dio perché la porti al suo perfezionamento - , ma è anche homo contemplativus , e quindi uomo che contemplando Dio nella sua creazione lo loda e lo glorifica, facendosi voce di essa. E’ esemplare a questo proposito l’esperienza spirituale di San Francesco d’Assisi.
E’ in questo senso di perfezionamento della creazione e della glorificazione di Dio da parte dell’uomo, in quanto voce del creato, che dev’essere compreso l’antropocentrismo cristiano. Non nel senso del dominio dispotico e distruttivo dell’uomo sulla natura. Qui siamo fuori della visione cristiana del rapporto «natura-uomo» e l’ecologismo ha tutto il diritto di rigettare tale dominio, a patto che non lo attribuisca alla visione cristiana dell’antropocentrismo. Questo, infatti, inserisce l’uomo nella natura, ma, in quanto spirito, lo fa emergere da essa; lo pone al centro e al vertice della natura, ma perché ne diventi voce per lodare Dio; lo fa dominatore della natura, non perché la distrugga, ma perché, in collaborazione con Dio creatore, la custodisca e la e la perfezioni e in tal modo la conduca al suo fine, che è il bene degli uomini e la gloria di Dio.