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Il libro della settimana: Serge Latouche, La scommessa della decrescita

di Carlo Gambescia - 18/07/2007

Il libro della settimana: Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli 2007, pp. 224, Euro 16,00.

Quel che è successo ieri l’altro in Giappone, in seguito a un terremoto, tutto sommato di discreta entità, dovrebbe far riflettere sulla pericolosità, anche dell’uso civile dell’energia nucleare. E invece no: i media hanno subito minimizzato la fuoriuscita di acqua radioattiva dagli impianti della centrale della Tepco a Kashiwazaki-Kariwa. E, soprattutto si è continuato a leggere della necessità di provvedere, in particolare ricorrendo al nucleare, alla crescente fame di energia del nostro sistema economico e produttivo.
Siamo, insomma, davanti all’ennesimo atto di fede, non solo nel nucleare ma nella marcia infinita del progresso economico, ovviamente in senso capitalistico. E guai perciò a parlare di decrescita, o comunque di ricorso a fonti di energia più sicure, rispettose della natura… Invece, a nostro avviso, le tesi dei teorici della decrescita non andrebbero sottovalutate. Che il modello capitalistico di produzione e consumi richieda crescenti quote di energia è un dato di fatto, perfino banale Così come lo è il deterioramento della qualità della vita civile nelle società sviluppate. Non bisogna essere sociologi, per avvertire, la crescente insofferenza delle persone verso una vita sempre più frenetica, in città dove l’aria è divenuta quasi irrespirabile.
Indubbiamente, qualcosa (per alcuni tutto) non va nel capitalismo. E i primi a capirlo, dopo Marx, furono negli anni Venti-Trenta del Novecento i cosiddetti “morfologisti” (o Cassandre) delle civiltà: Spengler, Ortega, Sombart, Sorokin, solo per fare qualche nome. I quali scorsero nel capitalismo una macchina livellatrice di ogni valore umano, lanciata a folle velocità verso il precipizio. Questi pensatori, a differenza di Marx, si limitarono ad ammonire e confidare nella natura ciclica dei processi storici e sociali. Nel senso che raggiunto un certo limite, ogni società non può non tornare, talvolta tragicamente, sui propri passi. Perciò, anche il capitalismo, volente o nolente, avrebbe dovuto, prima o poi, cedere le armi, a una società fondata sul valori meno utilitaristici.
Oggi, i teorici delle decrescita hanno ripreso queste tesi, diciamo così, in chiave progressista, evitando di citare i pensatori “spostati” a destra. Se Spengler confidava nelle leggi cicliche della storia, Serge Latouche, ad esempio, spera di affrettare i tempi del cambiamento indicando nella decrescita “lo” strumento per passare a una società post-capitalistica. Che però si guarda bene dal descrivere a fondo. Come accade in quest’ultimo suo libro, La scommessa della decrescita (Feltrinelli 2007, pp, 224, Euro 16,00). Sul quale è comunque bene riflettere, perché ha valore paradigmatico. E’ utile, infatti, per misurare, non tanto l’entità del problema ( le crescenti disfunzionalità, interne ed esterne, del capitalismo), ma di certa inadeguatezza politica della teoria della decrescita. Il che è grave, perché di decrescita, o comunque di forti correzione sistemiche, si deve comunque parlare, se desideriamo garantire un minimo di futuro a coloro che verranno dopo di noi.
Il problema di fondo dell’approccio di Latouche - e dispiace ripeterlo ogni volta - è l’assoluta mancanza di una teoria politica. O meglio di un raccordo politico tra la trasformazione individuale (che dovrebbe portare il singolo a scegliere una vita improntata alla sobrietà (e, di fatto, anticonsumistica) e la trasformazione della società capitalistica in una società a sviluppo zero. E’ l’antico problema della transizione (ieri al comunismo, oggi alla società delle decrescita), che Lenin credeva di aver risolto sul piano sociologico e politico - producendo risultati disastrosi - con la creazione del partito-guida rivoluzionario. E, che sia chiaro, non dipendeva e dipende, dal tipo sistema economico al quale eventualmente si punti, ma dagli effetti di ricaduta politica, come vedremo tra poco, dei processi di integrazione individuale e collettiva.
Ma torniamo a Latouche. Un solo esempio: la scelta di ridurre le dimensioni delle imprese, scorporandole, come sembra suggerire, richiederebbe un potere centrale e decisionale (politico) molto forte, e non quello di comunità locali, sicuramente rissose, e incapaci di usare correttamente quella stessa democrazia diretta, su cui sembra confidare eccessivamente lo studioso francese. Resterebbe poi il problema, una volta ridotte le dimensioni delle grandi imprese nazionali, di come farle interagire con quelle straniere, che potrebbero non aver scelto il “piccolo è bello”. E, dunque, fagocitare, in un lampo, le imprese minori.
E’ il vecchio problema dell’anarchismo comunista (come credenza nello spontaneo autogoverno del sociale), che sembra viziare il teorema di Latouche. Per farla breve: se i tempi di trasformazione individuale, fossero gli stessi per tutti ( e qui si pensi, per ipotesi, a un mondo che accettasse nello stesso momento di passare di colpo al sobrietà), il problema politico non sussisterebbe. E Latouche avrebbe ragione. Ma dal momento, che gli individui come le società hanno tempi di maturazione profondamente diversi, va messo in conto il rischio che qualcuno (in genere il rivoluzionario di professione), dando torto agli “automatismi” di Latouche, possa decidere, una volta giunto al comando, di accelerare i tempi, imponendo un modello politico autoritario. Né aiuta la sua idea del capitalismo, come “megamacchina”: una superstruttura, che non essendo condizionata dall’uomo come da alcun corso e ricorso storico, finisce per apparire come un’entità anonima. Ma se il capitalismo non ha volto, dov’è allora il nemico? Non si rischia così di mobilitare le persone, evocando assurde ipotesi di complotti sociali ? Latouche, purtroppo, a queste domande non risponde, se non rinnovando la sua fede nella spontaneità creativa dei processi sociali. Processi, invece, che spesso sfociano, come si insegna da Aristotele in poi, prima nella demagogia e poi nella tirannide.
Concludendo, come favorire la decrescita e salvare, o meglio, sviluppare la democrazia? Occorre, crediamo, una nuova teoria del politico, al tempo stesso realista ma aperta alla trasformazione economica e sociale. Alcuni lettori, ora penseranno, che stiamo inseguendo una specie di quadratura del cerchio. Non lo escludiamo. Ma di una cosa siamo sicuri: la fede nel partito rivoluzionario da un lato, e negli spontaneismi sociali dall’altro, può provocare solo nuovi disastri. La decrescita economica deve perciò essere preceduta, o comunque accompagnata, da una "crescita politica". Prima sul piano teorico e poi pratico.
Coraggio, al lavoro!