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Gusto bio

di Sarah Di Nella - 18/07/2007

 

 

E' ben lontana l’epoca in cui le abitudini alimentari seguivano il ritmo delle stagioni e le particolarità del territorio. Oggi chi vuole mangiare bene deve fare scelte drastiche. A cominciare dal varcare meno spesso la soglia del supermercato sotto casa, così pronto a soddisfare qualunque sfizio culinario anche di domenica mattina, e scegliere modi diversi di approvigionamento, che garantiscano la qualità dei prodotti ma anche il loro minor impatto ambientale possibile. E quelli che possono restituire i sapori perduti sono i prodotti targati «bio», quelli che provengono direttamente dal produttore, oppure reperibili nei mercatini biologici o grazie ai 380 Gruppi di acquisto solidale [i Gas] che esistono in Italia.

Sono scelte molto diverse da quelle fatte negli ultimi anni a livello europeo e nazionale, e ribadite nell’ultimo Documento di programmazione economico- finanziaria 2008-2011. «Il sistema agroalimentare – si legge nel Dpef – ha consolidato l’affermazione di modelli di sviluppo sostenibile resi quanto mai necessari per offrire risposte efficaci ai bisogni di qualità e sicurezza alimentare dei consumatori, ai processi di cambiamento climatico e ai nuovi scenari energetici ». Giusto, non fosse che le soluzioni lo sono molto meno: «Sviluppo degli strumenti di promozione diretta e dei servizi in una prospettiva di Sistema Paese, e attraverso strumenti capaci di promuovere gli investimenti delle imprese orientati allo sviluppo internazionale [anche acquisizioni, fusioni all’estero]». È solo uno stralcio del «che fare» in campo agroalimentare, un breve paragrafo nelle oltre centosettanta pagine del Dpef. E poco significativo, che ribadisce tuttavia il modello dell’agrobusiness. «Il fatto è – spiega Antonio Onorati, presidente del Centro internazionale Crocevia – che i politici non sentano la necessità di politiche appropriate che sostengano il mercato agricolo interno, i circuiti corti, ma anche la qualità dei sistemi di produzione. Tutto molto preoccupante. È solo un’ illusione, il fatto che l’agricoltura italiana vinca sui mercati mondiali. L’Italia esporta prodotti a basso valore aggiunto, mentre nel mercato interno, dove si potrebbe realizzare un profitto maggiore, i prodotti italiani sono meno presenti, a tutto vantaggio della grande distribuzione ». Lo si vede per esempio nell’aumento di importazioni di formaggi esteri.

Almeno una buona notizia nel Dpef c’è: viene riconosciuta l’importanza delle forme di agricoltura che aumentano l’assorbimento del carbonio nel suolo. «Un riferimento all’agricoltura biologica – spiega Andrea Ferrante, presidente dell’Associazione italiana dell’agricoltura biologica [Aiab] – Era tutto nella Finanziaria 2007, ma bisogna dire che per ora non è stato fatto nulla di quello che era stato annunciato». In Italia, ci sono oltre un milione di ettari [sugli oltre 6 milioni nell’Unione europea] di terreni coltivati con metodi biologici, e 50 mila aziende bio [45 mila aziende agricole e 5 mila aziende di trasformazione e commercializzazione].

Sono dati che fanno del nostro paese è il primo produttore europeo. E il terzo al mondo, dopo l’Australia e l’Argentina. Il consumo rimane ben al di sotto di quello che potrebbe essere, ma solo nel 2007 c’è stato, secondo la Coldiretti, un aumento del 10 per cento dei consumi di prodotti biologici con alcuni picchi, per esempio per i prodotti per l’infanzia [più 51 per cento], il riso e la pasta [più 26], biscotti, dolciumi e snack [più 18], latte e derivati [più 15], l’ortofrutta trasformata [più 13].

Nonostante tutto questo l’Italia rimane undicesimo paese europeo come consumo pro-capite. Così l’Italia esporta i suoi prodotti biologici freschi verso la Germania, l’Inghilterra, i paesi scandinavi e la Francia mentre i prodotti «ad alto valore aggiunto » come l’olio, il vino e il formaggio decollano verso Usa e Giappone.

Eppure, «la frutta e le verdure biologiche – spiega Andrea Ferrante – sono più sicure dal punto di vista igienico-sanitario perché non vengono trattate con i pesticidi, oltre ad avere valori nutrizionali superiori ai prodotti convenzionali. Ma ci sono anche altri prodotti, come il pollo e le carni bianche, che non hanno nulla a che vedere con quelli convenzionali. Il sistema di allevamento biologico è talmente diverso da quello convenzionale che i prezzi possono raddoppiare, ma rispecchiano l’abisso che esiste tra i due prodotti. Da una parte c’è un animale che razzola, e dall’altra c’è una macchina che fa proteine».

Nelle aziende biologiche vengono allevati all’aria aperta e senza mangimi Ogm, antibiotici e stimolatori della crescita, quasi un milione di polli e galline, 200 mila bovini, 800 mila ovini-caprini, 30 mila suini e 70 mila alveari. «Lo stesso discorso vale per le uova e per molti altri prodotti – prosegue Ferrante – Il pane a lievitazione naturale aumenta per esempio notevolmente la sua digeribilità». Una via di fuga dalla realtà evidenziata da Legambiente nel dossier «Pesticidi nel piatto 2007», secondo i quali solo il 54 per cento dei campioni di frutta analizzati era esente da residui di pesticidi. È quello che convince sempre più scuole a scegliere il biologico per la mensa: nel 2006 erano in tutto 658, e presto anche gli ospedali potrebbero seguire la stessa via.

Le istituzioni continuano a favorire false soluzioni, come i cosidetti «biocombustibili». E con un regolamento che ammette una soglia di contaminazione accidentale da Ogm dei prodotti biologici allo 0,9 per cento, il consiglio dei ministri dell’agricoltura europei ha inferto un duro colpo al settore. Si spera che il disegno di legge sull’agricoltura biologica, in discussione alla commissione agricoltura della camera, e che dovrebbe essere approvato entro l’anno prossimo, tuteli – a livello nazionale – il biologico dalla normativa europea che dovrebbe entrare in vigore il primo gennaio 2009. Ma la legge non prevede nessun finanziamento per il settore. E che il biologico sia la risposta più immediata ai cambiamenti climatici, lo dice anche la Commissione del Codex alimentarius della Fao: «L’agricoltura organica è un sistema di produzione al suolo che evita l’impiego di fertilizzanti sintetici, di pesticidi e di organismi geneticamente modificati, che minimizza l’inquinamento dell’aria, del suolo e delle risorse idriche ed ottimizza la salute e la produttività delle comunità interdipendenti di piante, animali e persone», afferma la Commissione.

Il rapporto della Fao del maggio 2007, dedicato ad «Agricoltura organica e sicurezza alimentare », afferma inoltre che l’agricoltura organica non è un fenomeno che riguarda solo i paesi del nord del mondo, ma «è oggi praticata in 120 paesi», e permette di rompere il «circolo vizioso dell’indebitamento a cui sono costretti i piccoli agricoltori per acquistare mezzi di produzione agricoli, che ha causato un allarmante numero di suicidi».

Nel sud del mondo la maggior parte della produzione certificata viene però destinata all’esportazione e riguarda soprattutto prodotti come il caffè e il cotone. Ma, oltre ai 31 milioni di ettari certificati biologici nel mondo, esistono anche coltivazioni organiche non certificate. «L’agricoltura organica – conclude il rapporto – ha il potenziale per assicurare cibo a tutta la popolazione mondiale, come l’agricoltura tradizionale fa oggi, con un minore impatto ambientale».