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Lettere a “La Stampa” sul cosiddetto negazionismo

di redazionale - 19/07/2007

Fonte: clubtiberino.blogspot.com

 


1.
Prologo


Benché finisca in -ismo il cosiddetto negazionismo non ha la stessa valenza scientifica di idealimo (dottrina e movimento filosofico da Hegel in poi, passando per il marx-ismo fino ai nostri Gentile e Croce con innumerevoli diramazioni), o di platoni-smo, o kanti-smo, positivi-smo, e simili. La storia della filosofia è tutto un succedersi di ismi, ma non basta attaccare il suffisso -ismo ad ogni cosa per farne una dottrina filosofica. Confrontato a questi -ismi ho sostenuto che il cosiddetto negazionismo non ha nessuna valenza scientifica o filosofica. Direbbe Benedetto Croce si tratta di uno “pseudoconcetto” forgiato con intenti pratici, e cioè specificamente rivolto a screditare, denigrare, diffamare quanti nell’immane tragedia che non solo ha distrutto l’Europa nel 1945 nelle sue fondamenta materiali, ma ha anche steso una cappa sopra le intelligenze, per cui nella patria dell’Illuminismo un tranquillo e pacifico cittadino non è più libero di pensare, se ciò si trova in contrasto con gli interessi e gli equilibri politici sorti dalle disfatte belliche che l’Europa ha subito nel 1945. Si badi bene: qui non si tratta di pronunciarsi sull’accertamento dei fatti materiali che potrebbero venir condotti con la stessa tecnica delle istruttorie processuali. Si tratta invece di una ben precisa ideologia con la quale si intende colpire sul piano morale persone, spesso innocue ed inoffensive, alle quali in fondo viene imputato un reato di pensiero. Sul piano della gravità morale siamo ai livelli più bassi immaginabili. Insomma, per chi vuole onestamente capire basta leggere libri come quelli di Tom Segev o di Norman G. Finkelstein per apprendere quali immensi interessi politici, ideologici, economici, finanziari si celino dietro. Per chi non vuol capire a rivolgersi loro è lo stesso che parlare con il muro.

Per quello che mi riguarda personalmente vado ripetendo che non sono né un negazionista nel senso che “nego” i fatti storicamente accertarti della seconda guerra mondiale né un “antisemita” allo stesso modo di come non sono contro nessun essere vivente umano, animale, vegetale. Trovo del tutto estranei questi termini se mi vengono attribuiti. Normalmente, basterebbe prendere atto di una smentita. Ma qui sembra che nessuna smentita possa essere fatti. Qualcuno ha programmato che io debba essere diffamato come “negazionista” ed “antisemita” e sembra una fatica di Sisifo scrivere ai giornali che continuano a pubblicare simili diffamazioni.

Evidentemente, ciò che ha imbestialito i miei detrattori è il non volermi essere unito al coro di quanti si stanno adoperando per introdurre anche in Italia leggi liberticide destinate a cancellare di fatto le protezioni degli art 21 e 33 della costituzione. Mi rimproverano il fatto che io definendo il cosiddetto negazionismo niente altro che una dottrina denigratoria e diffamatoria costruita per fini politici darei a mia volta dei diffamatori a quanti attaccano quegli autori che peraltro non si sono mai loro stessi definiti “negazionisti”. Gli “idealisti” non hanno mai rifiutato di riconoscersi come tali e non hanno mai considerato infamante esser definiti tali. Chiaramente non è la stessa cosa a sentirsi dire “negazionista” nell’accezione che correntemente è data al termine. Quindi, anche per questa ragione non può attribuirsi senso scientifico al “negazionismo” allo stesso modo in cui non se ne doveva attribuire al “razzismo” che era diventata materia insegnata nelle università.

A dimostrare il contenuto “denigratorio” e “diffamatorio” connesso all’uso det termine “negazionismo” sono propri quei detrattori che di concerto si sono dati la mano in una campagna, i cui autori ed obiettivi diventano via via sempre più manifesti. Vale la pena stenderne l”elenco:
1.
2.
3.

Seguono alcune delle principali mie lettere a “La Stampa”, quotidiano torinese dal quale è partita la caccia alle streghe. In altri miei articoli possono essere ricostruite nei dettagli le singole vicende, la tempistica, i soggetti.

2.
Mia ultima lettera a “La Stampa”

LA STAMPA
All’attenzione del Direttore
Rif.: Rubrica Lettere

e p.c.
- Comitato per la libertà di pensiero

Premetto che le mie precedenti due lettere sono state da voi pubblicate in modo mutilo e quindi manipolate rispetto al loro contesto. Se veramente vi sarà un’azione legale, pare qui utile una ricostruzione dei fatti nella loro successione cronologica: 1°) In data 11 luglio 2007, p. 37 de “La Stampa”, il giornalista Marco Ventura pubblicava un articolo dove io insieme ad altre persone venivamo chiamati in causa e a me veniva attribuito mio malgrado la patente di “negazionista” e di riflesso quella di “antisemita”, qualificazioni respinte anche dalle altre persone che avevo conosciuto nella famosa “cena” in cui il giornalista Ventura aveva attinto le sue informazioni.
2°) Ritenevo doveroso da parte mia intervenire il più tempestivamente possibile mandandovi una prima lettera che da voi veniva pubblicata solo in parte.
3°) Quel che è peggio è che non solo non prendevate semplice atto della mia smentita alle attribuzioni a me fatte, ma di converso pubblicavate una replica dello stesso Ventura che insisteva nelle sue tesi per me infamanti, introducendo un’espressione a me attribuita e male interpretata. L’espressione è «cosiddetto Olocausto» esibita da Ventura come prova irrefutabile del mio essere "negazionista” e “antisemita”. Si tratta di un equilibrismo linguistico ancora più assurdo del famoso “parlar male di Garibaldi”. A mio avviso, da un punto strettamente linguistico l’espressione “cosiddetto Olocausto” è del tutto neutra e non può esservi attribuito alcun senso penalmente rilevante. Quanto alla mia interpretazione di cosa è negazionismo trattasi appunto di interpretazione analoga, per esempio, alla critica del concetto di eguaglianza fatta nel Settecento dal filososo calabrese mio conterraneo Francescantonio Grimaldi.
4°) Scrivo una seconda lettera dove rigetto tutti i punti a me addossati. Ma voi anche di questa seconda lettera pubblicate solo una parte, laddove intervengo in merito all’espressione «cosiddetto Olocausto».

Consideravo tuttavia chiusa questa incresciosa polemica, quando in data odierna vengo informato circa un intervento del figlio dello scomparso storico ebreo, il quale se intendo il senso del suo scritto mi verrebbe a contestare il diritto di citare ed interpretare un articolo del padre apparso sul vostro giornale nell’anno 1994. Al di là del merito delle esigue e fragili argomentazioni di Emanuel Segre trovo ciò allucinante. In questo Paese il diritto di citazione di opere a stampa è un normale procedimento scientifico per quanti scrivono libri ed articoli. Non si potrebbe scrivere nulla, se non fosse consentito citare ed interpretare scritti altrui.

Sul merito ho da dire che il Segre figlio non ha inteso ciò che suo padre ha scritto e sul quale per il solo punto specifico da me citato mi trovo in piena sintonia. Del resto, si tratta di cose normalissime da pensare, non certo della teoria della relatività. La non accettabilità della connotazione religiosa dell’evento Auschwitz era da sempre una mia normale acquisizione concettuale. Mi è stato di conforto apprendere in epoca recente le posizioni espresse autorevolmente da Sion Segre Amar sullo stesso oggetto, ma non è certo stato lui la fonte di ciò che pensavo autonomamente. Nella maggior parte della sua lettera il Figlio riporta assai malamente l’articolo del padre, il cui testo è a me ben noto ed è stato perfino da me integralmente pubblicato e commentato (con diritto di citazione scientifica, ma se il figlio lo desidera posso ben eliminarlo dai miei testi ed ignorarne l’esistenza). Inoltre Emanuel dimostra gravemente di ignorare il contenuto della lettera del prof. Francesco Coppellotti senza il cui ruolo l’articolo di suo padre non sarebbe stato scritto ed il suo contenuto resterebbe privo di senso. Al testo di Coppellotti dell’8 maggio 2007, apparso su “La Stampa”, seguivano infatti due righe del Padre con le quali si componeva la discussione, dove i due contendenti si trovano per lo meno d’accordo sull’uso infelice dell’espressione “Olocausto”, ormai divenuta canonica. Conosco questi due testi in quanto si trovano qui davanti a me e sono stati da me letti attentamente. Osservo che né allora né oggi il prof. Francesco Coppellotti – ch’io sappia – non ha mai dichiarato o accettato di essere qualificato come un negatore di Auschwitz. Quel che è più grave e mi indispone è però il fatto che Emanuel Segre Amar insista nel chiamarmi “negazionista”, qualificazione da me ripetamente respinta. Pur non amando le aule dei tribunali, sono propenso a credere che debbano rispondere lui ed altri in sede giudiziaria per questa ostinazione volta a diffamare quanti esercitano legittimamente il loro mestiere di filosofi della storia o del diritto.

Con viva preghiera di pubblicazione integrale ai sensi di legge.

Antonio Caracciolo
Filosofo del diritto

3.
Lettera a La Stampa
di
Emanuel Segre Amar


Il senso di Olocausto secondo Segre Amar

La Stampa del 3 maggio 1994 pubblicò un articolo di Sion Segre Amar che scriveva testualmente: "Non chiamatelo Olocausto. A quell'orrore si può dare il nome che si vuole, ma non se ne renderà mai il concetto." Per Dante, scriveva, olocausto significa l'offerta a Dio di tutto se stesso. La parola è fuorviante, nel suo significato sacrificale ed espiatorio, che nulla ha a che fare con Auschwitz e dintorni. E aggiungeva:"Io l'ho talvolta usata, quella parola, facendola però precedere dal correttivo: cosiddetto". Ma da quando lo storico revisionista Coppellotti cominciò ad esprimersi in tal modo per affermare che Auschwitz non è mai esistito, mio Padre preferì parlare per nomi geografici.
E' evidente ora il tentativo di Caracciolo (lettera sulla Stampa di ieri), e di altre persone che si occupano di storia del Novecento, di coinvolgere storici ebrei a difesa delle loro indifendibili posizioni negazioniste. Queste nulla hanno in comune con quanto spiegato da Segre Amar quando nasceva questa assurda interpretazione della Shoah. Con la presente diffido chiunque dal citare a sproposito il termine coniato da mio Padre "cosiddetto Olocausto" e faccio presente di aver già dato incarico a un legale di difenderne la memoria storica nei confronti di tutti coloro che citano a sproposito la Sua espressione.

Emanuel Segre Amar
4.
SION SEGRE AMAR
Così si tradisce lo sterminio
Ma non chiamatelo olocausto

Per aver usato l’espressione “cosiddetto Olocausto” nella sua specifica accezione religiosa, per me inaccettabile sul piano del linguaggio scientifico, mi son sentito dire: “Con uno che dice «cosiddetto Olocausto» io non parlo neppure…». Se così è, penso di essere io a guadagnarci non avendo nessun commercio umano con simili persone. E diffido la persona in questione dal minimo tentativo di contattarmi. È stato respinto il suo tentativo di accedere al gruppo “Civium Libertas. Comitato per la libertà di pensiero” in quanto le sue azioni e le sue gesta sono del tutto incompatibili con ogni idea di libertà. L’Ignorante ignorava che ad usare l’espressione «cosiddetto Olocausto» era stato il noto storico ebreo, di cui neppure il figlio (non sempre i figli sono all’altezza dei padri) comprende il testo. Nessuno mi può impedire, neppure il Figlio, di essere pienamente d’accordo con il testo qui sotto integralmente riportato, al quale segue per necessaria connessione tematica la lettera di Francesco Coppellotti, a sua volta seguita da due righe dantesche di Sion Segre Amar con le quali nel 1994 si chiudeva una polemica, ora riaperta sullo stesso termine «cosiddetto Olocausto», assunto da Marco Ventura come “prova” di posizioni cosiddette negazioniste, nelle quali non mi sono mai riconosciuto e da me sempre respinte, non già perché non abbia una mia interpretazione della storia del Novecento, ma in quanto si tratta di attribuzioni fantastiche, assurde, denigratorie, diffamatorie.
AC

*


Non so chi sia quello sprovveduto che ha usato per la prima volta la parola olocausto per indicare il genocidio nazista di ebrei e zingari durante la seconda guerra mondiale. A quell’orrore si può dare il nome che si vuole, non se ne renderà mai il concetto. Anche padre Dante, quando - credo l’unica volta nel suo poema - parla di olocausto per significare l’offerta a Dio di tutto se stesso, lo fa con quella «favella ch’è una in tutti», cioè la favella eterna, il pensiero che non viene con parole, come bene intese Alessandro Momigliano.

Di un olocausto ebraico si è così parlato con leggerezza per anni, finché ci si è accorti che la parola è fuorviante, nel suo significato sacrificale ed espiatorio che nulla ha a che vedere con Auschwitz e dintorni, salvo che con essa si volesse sottintendere che chi ad Auschwitz è stato sacrificato lo fu per espiazione di quel supposto deicidio che ora perfino la Chiesa di Roma ha rinnegato. Io stesso l’ho talvolta usata, quella parola, seppure con riluttanza, facendola però precedere dal correttivo: cosiddetto. Ma da quando ho saputo che anche lo storico revisionista Coppellotti si esprime in quel modo per affermare che Auschwitz non è mai esistito, preferisco usare il semplice nome geografico di quella città, per sintetizzarne il funesto significato.

D’altra parte, se si vuole che quella memoria non venga cancellata, per dovere verso chi ne è stato vittima, e come impegno salvifico nei confronti delle generazioni future, di Auschwitz si deve pur parlare. Ma come, se la parola di per sé è incapace di rendere il concetto?

C'è chi ritiene che ad Auschwitz solo il silenzio si addica, e tutti sappiamo come il silenzio talvolta dica più delle parole. Ma col silenzio non si etema la memoria. C’è anche chi ha creduto di affidarsi al video, della televisione o del cinematografo, ma con risultati inadeguati, e spesso fuorvianti. Salvo in quei documentari girati al momento dell’entrata delle truppe alleate nei campi di sterminio, che hanno rivelato al mondo incredulo che ciò che sembrava impossibile era vero. Ma quegli spezzoni di film ora giacciono per lo più dimenticati in qualche cineteca, e un celebre regista per ricrearne la tenebrosa atmosfera per il film La lista di Schindler ha preferito ricorrere alla finzione scenica. E lo ha fatto con gusto americano, con quel finale, pur di intenso effetto emotivo, che lascia allo spettatore impreparato l’impressione, e forse la convinzione, che con un po’ di fortuna da quell’inferno si potesse salvare. Un Auschwitz caramellato che può offuscare l’opera di quegli eletti, come Primo Levi, Giuliana Tedeschi e Liana Millu che all’Auschwitz vero hanno avuto la forza di sopravvivere, per raccontare...

Altri, la quasi totalità dei perseguitati, compresi parenti miei, non ne hanno avuto la possibilità perché stroncati prima di essere incanalati al macello. Come Abraham Lewin, il combattente del ghetto di Varsavia che tenne un diario ritrovato dopo la guerra tra le macerie di quel monumento dell’orrore e dell’eroismo, e le cui pagine - queste sì legittraie e sacre - si interrompono bruscamente il 16 gennaio ’43, con la frase presaga: «Nelle vie oggi si sta svolgendo una ulteriore azione...» (A. L., Una coppa di lacrime, Il Saggiatore, 1993). E come Anna Frank, il cui diario pure è stato portato sulla scena, ma con quel rigore etico e religioso che la sacertà della vicenda imponeva.

C'è un altro aspetto del problema. Milioni di persone sono state trasportate per centinaia e centinaia di chilometri, e poi eliminate, in regioni a fitta concentrazione abitativa, e nessuno ha visto, nessuno ha saputo? In certi casi, come a Mauthausen, il campo di sterminio era vicino alla città, e i suoi abitanti cooperavano talvolta alle operazioni di morte. Di questa condizione, dei loro silenzi e della loro apatia, ha parlato sulla Stampa del 2 aprile Mirella Serri, recensendo il libro dell’americano Horwitz, All’ombra della morte (Marsilio).

Solo dunque la testimonianza dei sopravvissuti e le documentazioni storiche avrebbero legittimità nella letteratura su Auschwitz? No, c'è un’eccezione: la poesia. La poesia, che come la musica raggiunge direttamente l’anima attraverso vie misteriose e pure, si serve anch’essa della parola per esprimersi. E se Auschwitz almeno per noi italiani fino ad ora non ha trovato il suo cantore ebreo, il suo Bialik di Nella città del massacro evocativo del pogrom di Kishinev del 1903 (Il Melangolo, 1992), è uscita in questi giorni l’opera di un non ebreo italiano che attraverso la poesia, questa crociana «prima operazione della mente umana», come ricorda il prefatore M. Graziano Farri, «perpetua la commozione, così da rendere viva la concitazione della verità». Ed è, la poesia, «una messa in scena interiore in cui si attua la sopravvivenza dopo la morte, e in cui si salva in perpetuo il canto che muore».

Da Dante ai nostri giorni, ciò che non si può «significar per verba» si può dunque esprimere, oltreché col silenzio, solo con la musica e con la poesia, e chi non sia terrificato dall’argomento, dovrebbe leggere queste epiche trecento pagine di verità storiche su Auschwitz cantate, prima che il tempo e l’incoscienza dell’uomo le offuschino, da un non ebreo (Lorenzo Albertinelli, I Lager, Giuntina, 1994).

Sion Segre Amar

5.
FRANCESCO COPPELLOTI
Lettera pubblicata
su La Stampa, domenica 8 maggio 1994

Olocausto e sfruttamento

Ho appena letto l’articolo «Ma non chiamatelo Olocausto – Così si tradisce lo sterminio», di Sion Segre Amar, pubblicato il 3 maggio su La Stampa. Constato che, secondo la sua autorevole opinione, 1) premettere l’aggettivo «cosiddetto» al termine «Olocausto» (antonomasia introdotta nell’uso linguistico dalla stampa angloamericana nel ’42-43, come risulta tra l’altro dall’Oxford Dictionary) non costituisce di per sé un’offesa alla memoria dello sterminio degli ebrei; 2) che Schindler’s List è un film di (discutibile) «gusto americano», «inadeguato» a rappresentare lo sterminio degli ebrei in Europa.

Ciò che non risulta affatto perspicuo è il motivo o la fonte da cui Sion Segre Amar ha tratto la convinzione che il sottoscritto, quando usa l’espressione “cosiddetto Olocausto”, intende negare addirittura l’esistenza di Auschwitz. Non da miei scritti sull’argomento, che compariranno in libreria solo tra qualche giorno (ho curato una raccolta di saggi noltiani intitolata Dramma dialettico o tragedia? per l’editore «Settimo sigillo»); non dagli articoli dei giornalisti che mi attribuiscono quell’intenzione e secondo i quali Schindler’s List è una lezione di storia indiscutibile, la parola «Olocausto» sacra e intoccabile. Presumo dunque che Lei abbia tratto questa Sua convinzione da un mio articolo pubblicato nel numero di Italia settimanale che conteneva anche le cosiddette e ormai famigerate «liste di proscrizione» (articolo che aveva per tema non lo sterminio, ma la vicenda di Oskar Schindler, così come è stata interpretata dal suo biografo Keneally e dal cineasta Spielberg) e precisamente dalle poche righe introduttive all’articolo, nelle quali esponevo le due concezioni generali dello sterminio e affermavo che la concezione detta «funzionalista» è inadeguata; ma quando sottolinea l’aspetto per cui Auschwitz fu anche e necessariamente «un gigantesco sistema di produzione», essa è «senz’altro più aderente alla verità storica» della concezione «intenzionalista», che tende a evidenziare in modo esclusivo, e quindi non scientifico, la volontà di sterminio dei nazionalsocialisti intesa come male assoluto.

Inoltre questa mia idea, espressa in termini sommari, poiché l’introduzione all’articolo fu tagliata per motivi di spazio, è tanto poco revisionista, che il principale fustigatore dei revisionisti Rassinier, Butz e Faurisson, lo storico ebreo-francese Pierre Vidal-Naquet, nel suo «libello» contro gli Assassini della memoria (Editori Riuniti 1993, ed. or. francese 1987) a p. 106 sg. scrive testualmente: «Majdanek e soprattutto Auschwitz, enormi i centri industriali, furono la prova vivente che lo sterminio poteva (io direi: “doveva”, a causa della concezione del mondo hitleriana) affiancarsi allo sfruttamento del lavoro forzato... Tra sfruttamento ed eliminazione vi fu tensione, mai rottura».

Ma, allora: unde malum?
Francesco Coppellotti, Torino

Risponde Sion Segre Amar:

Temer si dee di sole quelle cose
ch'anno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, ché non son paurose

(Dante, Inferno, II, 88)