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L'arte dell'accecamento. Virilio, contro il potere dell'occhio insonne

di Nando Vitale - 19/07/2007





 

Nel suo ultimo libro, l'urbanista francese denuncia il proliferare dei media che hanno emarginato l'arte e la possibilità stessa di vedere

Da almeno trent'anni, la riflessione di Paul Virilio ruota attorno all'idea che la velocità con cui procede l'innovazione tecnologica non consenta più alcuna possibilità di controllo da parte di un soggetto politico razionale.

Negli anni Novanta, il filosofo e urbanista francese intervenne sul «caso Berlusconi», che lesse come un incidente specifico di portata mondiale dovuto allo sviluppo esponenziale dell'informazione in quanto potere. Suscitò così un notevole interesse nel movimento cyberpunk dell'epoca, anche grazie ai suoi appelli a una specie di guerriglia mediatica e ai suoi contatti con la comunità hacker di Amsterdam.

Ora Virilio - che in Città panico, uscito nel 2004, aveva già descritto il progressivo estendersi del sentimento di paura nella metropoli contemporanea - lancia nel suo saggio L'arte dell'accecamento (Raffaello Cortina, pp. 104, euro 8,50) un nuovo appello: obiettivo dello studioso, questa volta, è mettere un freno al predominio asfissiante dell'immagine che a poco a poco ha logorato quella che Virilio definisce «l'arte di vedere».

Annegando nelle immagini televisive, osserva il filosofo, abbiamo smarrito, senza rendercene conto, la lateralità e la profondità della visione. Manca la percezione del «tempo dell'aperto» di cui parlava Rilke nelle Elegie duinesi: tempo di vita che apre allo «spazio puro dove sbocciano i fiori a non finire», ossia quella dimensione che è propria dell'arte e della poesia. Viviamo nell'illusione di vedere tutto, invece l'occhio non scorge quasi nulla: siamo transitati «dall'obiettività alla teleobiettività», in una realtà in cui la visione di ciò che è lontano nasconde la visione del prossimo, con enormi ricadute sulle relazioni intersoggettive.

Anticipato da Merleau-Ponty, che già nel 1953 constatava che «l'obbedienza cieca è l'inizio del panico», Virilio - avendo sperimentato la dittatura dell'occhio insonne di un sistema dell'informazione totalizzante - può rilanciare il suo allarme, definendo con la metafora della «teleobiettività» la condizione di chi non può che guardare «oltre l'orizzonte delle apparenze obiettive». Il superamento drammatico di «ciò che era appena abbozzato con la riproduzione industriale delle immagini analizzata da Walter Benjamin», viene evidenziato segnalando, nell'era delle webcam e della telesorveglianza, la distruzione definitiva dell'esperienza estetica costruita nei secoli dalle arti visive. Per questo motivo, nel paesaggio della distruzione provocato dalla diffusione e dallo sviluppo illimitato delle tecnologie audiovisive, «l'arte di vedere» è divenuta «l'arte dell'accecamento».

La sovraesposizione mediatica delle arti plastiche contemporanee rende ormai obsoleta perfino la critica di Marcel Duchamp, il quale denunciava i limiti dell'arte retinica, considerata insufficiente a descrivere un mondo in veloce mutazione: «In un'epoca in cui la nostra visione del mondo è divenuta più teleoggettiva che oggettiva, come persistere nell'essere?» si domanda Virilio, come «opporre una resistenza efficace alla repentina derealizzazione di un mondo in cui tutto è visto?».

Pur richiamando una critica radicale all'idea di una innovazione tecnologica ormai completamente sfuggita al controllo umano, la posizione di Virilio non gli impedisce di respingere qualunque etichetta «apocalittica». L'idea che il progresso tecnologico sia il carattere peculiare dell'attività umana entra inevitabilmente in crisi, in quanto il rinnovamento accelerato è piuttosto opera degli automatismi del sistema.

Quello che diventa veramente umano è allora la cura delle tracce del vissuto, della letteratura, dell'arte e della poesia. Qui non si tratta di preservare opere buone per un museo; è in gioco la difesa di una condizione dell'esperienza umana che rischia di essere definitivamente dissolta. Il richiamo esplicito è a una «filosofia politica» che sia in grado, oltre che di descrivere un passaggio cruciale, di individuare strategie attraverso le quali «l'insieme dei viventi riuniti davanti ai loro schermi» possano liberarsi di questa nuova versione di capitalismo globale che si avvale sempre più delle tecnologie dell'informazione e di una nuova strategia della comunicazione. I poteri che attraversano queste nuove tecnologie ne fanno ormai dispositivi centrali della biopolitica, intesa come produzione dei corpi viventi.