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Il sole e la scrittura

di Francesco Agnoli - 19/07/2007

 

Galileo voleva fare il teologo

mentre la chiesa era alle prese

con la magia e l’eliocentrismo

La tattica adottata, in extremis, dal Dalle

Colombe e dai suoi alleati, perdenti

sino ad allora grazie ai gesuiti, si rivela efficace.

La polemica sulla presunta inconciliabilità

tra copernicanesimo e Scritture

esplode per motivi non facili da comprendere

del tutto. Certo non è un caso che a

prestarsi al gioco siano due dominicani:

siamo nell’epoca in cui altri domenicani,

Giordano Bruno e Tommaso Campanella,

sostengono l’eliocentrismo “copernicano”,

ma in nome delle loro convinzioni magiche

ed astrologiche, al di fuori di qualsiasi

prospettiva scientifica. Si dimentica

troppo spesso che la nascita della scienza

è contemporanea ad un grande scontro

epocale, quello tra chiesa e visione magica

del mondo. Neoplatonismo, neopitagorismo

ed ermetismo rinascimentali, infatti,

non hanno portato solo un interesse verso

visioni matematiche, per il vero molto

simboliche ed astratte, ma anche per interpretazioni

del mondo in chiave animista,

e quindi magica. La “Città del Sole” di

Campanella è costruita in modo da captare

gli influssi astrali, e il sole vi appare

quindi come una vera divinità. Come ha

notato Paolo Rossi “i primi sostenitori della

verità copernicana non sono certo facilmente

inseribili tra i moderni o tra gli assertori

di un nuovo metodo scientifico”.

Giordano Bruno nel 1585 difende la teoria

di Copernico “sullo sfondo della magia

astrale e dei culti solari”, legandola alla filosofia

di Ficino, che non disdegnava presentarsi

come un sacerdote del culto solare.

Nel 1592 il Patrizi viene condannato

per aver sostenuto sì la rotazione della

Terra, ma all’interno di una visione secondo

la quale gli astri hanno vita spirituale

e intelligenza. Robert Recorde, John Dee

e Thomas Digges, che si richiamano tutti a

Copernico, sono accesi sostenitori dell’ermetismo

e dell’astrologia. La centralità

del sole è per loro sacrale, non fisica. Non

c’è da stupirsi allora se tra gli uomini di

chiesa, che combattono il revival magico e

la rinascente eliolatria, in nome della ragione,

e quindi della scienza, alcuni finiscano

per interpretare Copernico negativamente,

a causa delle strumentalizzazioni

che tanti ne avevano fatto.

In questo clima Galilei decide di difendersi

sul piano dell’esegesi, con l’aiuto di

due sacerdoti suoi allievi, padre Benedetto

Castelli, grande scienziato, e un barnabita.

Il succo delle “lettere copernicane” è

perfettamente ortodosso: la Sacra Scrittura

e la natura scaturiscono entrambe dal

“Verbo Divino”, “quella come dettatura

dello Spirito Santo, e questa come osservantissima

esecutrice degli ordini di Dio”.

Inoltre la Scrittura non deve essere sempre

interpretata alla lettera, sia perché si

rivolge al volgo, per essere da lui compresa,

sia perché, come aveva detto il cardinal

Baronio, il suo intento non è quello di

dire “come vadia il cielo” ma “come si vadia

in cielo”. Trovandosi però ad analizzare

il miracolo narrato in Giosuè 10, 11-13,

in cui Dio ferma il sole al fine di prolungare

il giorno, Galilei, ritiene di poter

adottare una posizione concordista, ritorcendo

contro i suoi avversari l’interpretazione

letteralista. Spiega cioè che il passo

in questione è compatibile con la teoria

copernicana e non con quella tolemaica.

Si tratta di una posizione già sostenuta in

passato, e, negli stessi anni, da un frate,

Antonio Foscarini, e che trova sostenitori

accreditati anche oggi. Le prime lettere di

Galilei, lungi dal placare le polemiche, le

ampliano, sino alla richiesta da parte di

cardinali amici, di non eccedere “i limiti

fisici o mathematici, perché il dichiarar le

Scritture pretendono i theologi che tocchi

a loro”, e di trattar quindi del sistema copernicano

“senza entrare nelle Scritture”.

Di fronte a questi inviti, che se accolti

avrebbero scongiurato qualsiasi contrasto,

Galilei risponde con altre due lettere, in

cui ritorna sul rapporto tra astronomia ed

esegesi biblica. Così facendo, però, si

espone all’invasione di campo della chiesa.

Roberto Bellarmino rivolge allora al

Galilei e al Foscarini l’invito (12 aprile

1615) a considerare il sistema copernicano

solo in termini ipotetici, ex suppositione.

Molto prudentemente però aggiunge che

nel caso in cui si dimostri la validità delle

tesi copernicane “allhora bisogneria andar

con molta consideratione in esplicare

le Scritture che paiono contrarie, e più tosto

dire che non le intendiamo, che dire

che sia falso quello che si dimostra”. E

conclude: “Io non crederò che ci sia tal dimostratione,

finché non mi sia mostrata”.

Nessuna abiura

Bellarmino non si dichiara contrario

per principio al sistema copernicano, bensì

afferma di non voler che altri intervenga

nella interpretazione delle Scritture

prima che esso sia una certezza dimostrata

e non solo un’ipotesi, come era allora.

Siamo così al 1616, l’anno della convocazione

di Galilei a Roma e della condanna

del Santo Uffizio, diviso al suo interno,

della “dottrina pitagorica” della mobilità

della terra e della immobilità del sole. Tale

dottrina non viene però dichiarata “eretica”;

a Galilei non viene imputata nessuna

colpa, né richiesta alcuna abiura. In

realtà il decreto, per quanto sbagliato, col

senno di poi, dimostra che se la questione

non fosse stata portata sul terreno delle

Scritture, la chiesa non se ne sarebbe occupata:

infatti sospende la pubblicazione

di Copernico, donec corrigantur, cioè finché

non sarà corretto eliminando i dieci

versi della prefazione a Paolo III dove si

accenna alle Sacre Scritture; l’altro testo

proibito è la lettera del Foscarini, perché

“esplicitamente votata ad una difesa concordista

[cioè scritturale] della cosmologia

Pithagorica”. (3. continua)