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Europa, ostaggio degli Usa nella “Quarta Guerra Mondiale”. Intervista con il Prof. Costanzo Preve

di Luigi Tedeschi (a cura di) - 23/07/2007

       

 

 

 

1) Dopo la vittoria di Sarkosy in Francia, della Merkel in Germania, l’annunciato declino di Blair in Inghilterra, l’affermazione della destra su scala europea è incontestabile. Tali successi sembrano tuttavia dovuti, più che alla capacità della destra di elaborare nuovi progetti politici, al declino strutturale di una sinistra che, perduta la propria identità ideologica, è dilaniata dalle proprie insanabili contraddizioni interne. La svolta a destra dell’Europa, non prelude certo a mutamenti epocali e tantomeno può determinare mutamenti culturali rilevanti nel vecchio continente. Le destre europee, pur nelle loro specifiche diversità, rappresentano tuttavia un fenomeno politico – culturale unitario nella loro natura antideologica e nella loro prospettiva politica modernizzatrice di ispirazione liberista. La destra europea si identifica infatti con una impostazione politico – economica di natura riflessiva: essa, riconoscendo il primato dell’economia di mercato, concepisce la politica quale riflesso degli equilibri economico – sociali esistenti (la concezione della politica berlusconiana del governo inteso come azienda – Italia, ne è l’esempio). Non è certo un caso che l’avvento della destra coincida in Europa con il rifiuto della politica, con l’avversione della masse nei confronti della militanza, con l’emergere di elites politiche legate agli equilibri economico – finanziari presenti nel Paese. L’odierna destra, più che identificarsi con il vecchio conservatorismo, incarna l’oggettivazione della politica nella realtà esistente. I suoi programmi, non sono propositivi, ma piuttosto interpretativi dello sviluppo delle dinamiche economiche interne al capitalismo, sia nazionali che globali. Infatti oggi la destra si accredita come interprete di una modernità progressiva contrapposta al conservatorismo ideologico della sinistra. In breve, più che voglia di destra, in Europa esiste un diffuso nichilismo culturale e politico che comporta l’emersione di classi politiche che, anziché colmare il vuoto ideale lasciato dal tramonto delle ideologie novecentesche, legittimano il nulla morale e politico della modernità tecnologico – economicista globalizzato.

 

Non c’è dubbio che in questo 2007 siamo di fronte in Europa ad un “ciclo elettorale” che sembra esprimere una “voglia di destra” maggioritaria, con un “centro – sinistra” in crisi di prospettive. Ma, appunto, i cicli elettorali sono pur sempre fenomeni superficiali, come le macchie rosse sul viso per i bambini ammalati di morbillo, e sarebbe metodologicamente sbagliato considerarli in termini di fenomeni storici strutturali. Nell’epoca post – moderna del capitalismo assoluto uscito vincitore dalla recente terza guerra mondiale (1945 – 1991), epoca caratterizzata dalla seconda grande restaurazione (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 39) e dallo svuotamento integrale della sovranità politica (cfr. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma – Bari 2003), la dicotomia bipolare maggioritaria Destra/ Sinistra, che fino a qualche decennio fa rispecchiava in qualche misura conflitti epocali reali, è oggi soltanto una protesi politologica artificiale in cui vengono incanalati conflitti simbolici largamente simulati, e simulati perché la perdita di sovranità monetaria (Banca Centrale Europea) e militare (NATO) toglie a questi conflitti ogni carattere serio e reale.

È bene allora ricordare sempre che i “cicli elettorali” hanno un carattere derivato e secondario per la comprensione del presente storico. Detto questo, non bisogna neppure esagerare e dire che sono del tutto irrilevanti. Non sono irrilevanti. L’attuale ceto politico italiano professionale è largamente unificato, e Massimo D’Alema e Gianfranco Fini sono del tutto intercambiabili, uniti come sono dal comune giuramento di fedeltà al capitale finanziario ed alle direzioni militari americane. E tuttavia hai ragione a notare che esiste ancora una piccola asimmetria fra Destra e Sinistra, in quanto la Destra è più avanti nel processo di “scarico” della precedente identità di appartenenza ideologica. I dirigenti DS ed AN sono ormai del tutto post – ideologici, ma le loro basi sociali, militanti ed elettorali, non lo sono ancora del tutto e non lo possono essere, e su questo punto il “popolo di sinistra” è in ritardo rispetto al “popolo di destra”. Mentre il tradizionalismo, il conservatorismo, lo statalismo nazionale, eccetera, non rappresentano più da tempo elementi simbolico – ideologici identitari di appartenenza per il popolo di destra, il progressismo egualitario è ancora un dato ideologico rilevante per l’appartenenza del popolo di sinistra, nonostante il corrotto circo mediatico di “sinistra” sia impegnato da almeno tre decenni a sostituirlo con identità più “innocue” (l’anticraxismo, l’antiberlusconismo, l’ideologia dei giudici onesti contro i politici disonesti, la buffoneria subalterna di Benigni, il qualunquismo mediatico di Beppe Grillo, eccetera). In definitiva, se il termine “secolarizzazione” è usato per connotare un processo di integrale e capillare adesione ai meccanismi disegualitari del capitalismo assoluto, la destra è più secolarizzata della sinistra, il cui DNA simbolico – ideologico non può essere secolarizzato oltre un certo punto, pena la integrale sparizione della sua residua identità.

Personalmente sono d’accordo con l’economista francese Pierre Noel Giraud (cfr. L’inégualité du monde, Gallimard, Paris 1997) che definisce l’economia in generale come la scienza della disuguaglianza, nel doppio senso di diseguaglianza fra popoli e nazioni e diseguaglianza all’interno di un solo territorio. Se questo è vero (e non ho lo spazio per argomentarlo adeguatamente), allora la politica può essere definita contrastivamente come la scienza del (moderato) raddrizzamento egualitario, e cosi è stata negli ultimi due secoli, nonostante alcune ovvie eccezioni. L’assorbimento ormai quasi totale della politica nell’economia, o più esattamente del moderato raddrizzamento egualitario (socialdemocrazia, populismo, fascismo popolare, socialismo, ed ovviamente comunismo storico novecentesco) all’interno delle regole di riproduzione globalizzata del capitalismo assoluto, è accompagnato da un gigantesco fenomeno di normalizzazione antropologica e culturale di tipo atomistico. Su questo terreno, la destra è avvantaggiata e vincitrice in partenza, soprattutto da quando la sua componente “liberale” ha vinto militarmente sul campo contro la sua componente fascista.

La destra si dimostra più intelligente della sinistra nel campo del costume, perché raccoglie simbolicamente (anche se in modo largamente ipocrita) la domanda popolare maggioritaria di severità verso la piccola delinquenza (l’unica visibile alla gente comune, la “grande delinquenza” finanziaria essendo invisibile), di tutela del lavoro nazionale contro l’abbassamento dei salari dovuto all’immigrazione, di mantenimento simbolico del matrimonio familiare eterosessuale, eccetera. In proposito la stupidità della sinistra sta in ciò, che continua a ritenere che le battaglie apparentemente laico – libertarie siano “progressive”, laddove sono ormai del tutto incorporate in giganteschi processi sistemici di normalizzazione individualistica ed atomistica. Siamo allora di fronte effettivamente ad uno scontro bipolare integrale fra Cinismo (di destra) e Stupidità (di sinistra). Difficile scegliere, ovviamente.

 

2) L’affermazione delle destre sia francesi, che tedesche o inglesi, coincide con la progressiva perdita di sovranità economica e politica dei rispettivi Paesi, sia all’interno dell’Europa che nei confronti degli Stati Uniti. In realtà, è la stessa destra in Europa a configurarsi oggi come la negazione di se stessa: il successo di Sarkosy in Francia coincide con la fine del gollismo, quello della Merkel in Germania con la fine del modello welfaristico del capitalismo renano creato, tra l’altro, da Adenauer, il berlusconismo italiano con la fine di ogni forma di politica sociale solidaristico, già patrimonio del sindacalismo cattolico e della destra sociale partecipativa missina, per non parlare dell’Inghilterra, la cui politica filoatlantica (sia conservatrice che laburista), ha condotto il Paese fuori dalla area geopolitica europea. L’Europa della destra si ricompatta quindi nella solidarietà atlantica, nella subalternità alla politica imperiale americana e nell’omologazione al modello liberista assoluto estraneo alla cultura e alla politica sociale europea. La cultura della tradizione identitaria, dell’organicismo sociale già patrimonio delle destre, pur nella marcate differenziazioni nei vari Paesi europei, erano i punti di riferimento irrinunciabili su cui si è costruito ogni progetto di unificazione europea. La scomparsa di tali fenomeni, sia dal punto di vista culturale che politico, ha trasformato le destre nel loro esatto contrario e pertanto, è stata stravolta nelle sue basi fondamentali l’unificazione europea. La UE infatti è una unione monetaria governata dal dirigismo bancario e tecnocratico, volto a sradicare le culture europee in vista di una assimilazione agli USA in funzione del mercato globale. La stessa costituzione europea, già naufragata per volontà dei popoli francese ed olandese, oggi si vuole imporla all’Europa contro e al di là della volontà popolare, che in Europa non è davvero sovrana. Imporre una costituzione è demagogico e assurdo: i Paesi europei hanno fondato le loro plurisecolari istituzioni su eventi epocali quali le rivoluzioni, le guerre di indipendenza, guerre civili e religiose che hanno coinvolto i popoli e generato le loro identità comunitarie. L’odierna UE è solo un patto economico – monetario tra elites spesso eterodirette dall’occidente americano. L’Europa è un corpo estraneo a sé stesso, ma funzionale all’occidente imperialista. Il successo della destra in Europa, rappresenta oggi l’adeguamento da parte dei paesi fondatori al modello liberista – coloniale imposto ai Paesi dell’est europeo, già succubi dell’Unione Sovietica e ora neofiti dell’americanismo.

 

In questa mia seconda risposta mi permetterai di “allargarmi” maggiormente rispetto alla precedente ed alle successive, perché qui siamo veramente vicini al cuore del problema. Ed il cuore del problema sta nel fatto che “l’Europa è un corpo estraneo a sé stesso, anche se funzionale all’occidente imperialista”. Non si poteva dire meglio. La UE infatti “è una unione monetaria governata dal dirigismo bancario e tecnocratico, volto a sradicare le culture europee in vista di una assimilazione agli USA in funzione del mercato globale”. È proprio così. Bisogna allora chiedersi in che periodo storico siamo, perché se non ci mettiamo d’accordo sulla natura politico – sociale e culturale di questo periodo storico è difficile proseguire sensatamente la discussione. A mio avviso siamo ormai da un quindicennio circa (1991 – 2007) all’interno della Quarta Guerra Mondiale. Intendendo “guerra” alla Clausewitz non tanto e non solo come scontro di eserciti organizzati in terra, in mare e nel cielo, ma come confronto globale (global confrontation) fra gruppi strategici che conservano pur sempre una base statale e territoriale, e non sono dunque del tutto “cosmopoliticizzati”, come opina (erroneamente) la teoria della natura deterritorializzata della cosiddetta “globalizzazione”. Ma se siamo nella Quarta Guerra Mondiale, quali sono state le prime tre? Una brevissima ricostruzione storica non sarà del tutto inutile.

La Prima Guerra Mondiale è quella solitamente periodizzata come la guerra del 1914 – 1918. Questo non è del tutto esatto, perché per i turchi la guerra durò ininterrottamente dal 1911 al 1922 (dalla guerra di Libia contro l’Italia giolittiana all’espulsione dell’esercito greco da Smirne), e per i russi durò ininterrottamente dal 1914 al 1921 (dallo scoppio della prima guerra mondiale alla fine della guerra civile fra Rossi e Bianchi). Per lo storico Mario Silvestri (cfr. La decadenza dell’Europa Occidentale 1890 – 1945, Rizzoli, Milano 2002) essa fu in quanto tale un crimine inaudito, il suicidio geopolitico dell’Europa, e il suo semplice scatenamento fu un crimine storico superiore a tutti quelli che possono essere attribuiti a Mussolini, Hitler, Stalin, eccetera. Sono pienamente d’accordo con Silvestri, anche se con la postilla per cui Lenin fu più che giustificato a fare la rivoluzione del 1917 (su questo punto il tecnocrate liberale Silvestri è ovviamente più cauto). Personalmente sono d’accordo con Gramsci sul fatto che la rivoluzione russa del 1917 fu una rivoluzione contro il Capitale (nel senso che fu contro la lettura deterministica della storia del capitalismo – ancora una volta, viva Georges Sorel ed abbasso Karl Kautsky!). La sua legittimazione non sta a mio avviso nella teoria marxista in quanto tale, ma nell’assoluto diritto naturale dei popoli a ribellarsi in armi contro una guerra infame e fratricida. So che alcuni lettori non saranno d’accordo, ma non vedo perché dovrei tacere un mio profondissimo e consolidato convincimento maturato in decenni.

La prima guerra mondiale fu vinta dai peggiori. Con tutti i loro difetti i due imperi multinazionali austro – ungarico e ottomano non erano ormai da tempo delle “prigioni dei popoli” (lo erano stati in passato, ma nel 1914 non lo erano più), anche se avevano colpevolmente ritardato la loro integrale trasformazione federale. Essi garantivano, sia pure in modo imperfetto, una convivenza multinazionale, convivenza interrotta con i trattati di Versailles, Trianon e Sèvres, con l’inferno delle rivendicazioni centro – europee (cechi e tedeschi, ungheresi e romeni, italiani e slavi, eccetera) e con la criminale Dichiarazione Balfour del 1917, in cui veniva semplicemente tolta la terra al popolo arabo – palestinese in favore di coloni stranieri che agitavano rivendicazioni mitico – religiose vecchie di duemila anni.

La Seconda Guerra Mondiale è quella solitamente periodizzata come la guerra 1939 – 45. Questo non è del tutto esatto, perché per i cinesi durò dal 1937 al 1949 ininterrottamente (dall’invasione giapponese alla fine della guerra civile nel continente), le espulsioni di milioni di tedeschi da territori che abitavano da un millennio continuarono per tutto il 1946, le resistenze partigiane lituane e lettoni durarono fino al 1953, e per i greci la guerra durò ininterrottamente dal 1940 al 1949 (dall’invasione italiana alla fine della guerra civile). La seconda guerra mondiale è talmente nota che non ha senso qui entrare nei dettagli. Non entro qui neppure nella vexata quaestio se sia corretto o meno proporre paragoni bipolari (fascismo – comunismo) o tripolari (fascismo – liberalismo – comunismo). Sono temi interessantissimi per almeno tre categorie di persone (politici, storiografi ed infine amici al bar con velleità culturali), ma non li discuterò qui (ma altrove l’ho fatto con numerosi dettagli). Ciò che conta per il nostro discorso è che questa seconda guerra mondiale finì con l’integrale perdita della sovranità e dell’indipendenza dell’Europa. Tutte le sincere motivazioni ideologiche fasciste e/o antifasciste, con le reciproche giustificazioni e/o demonizzazioni soggettivamente sincere, meritano rispetto e studio, ma non possono evitare che questa conclusione disincantata venga tratta.

La Terza Guerra Mondiale, erroneamente connotata come “guerra fredda” (fu forse fredda in Europa, ma a livello geografico mondiale fu “calda” esattamente come la prima e la seconda), può essere periodizzata fra il 1945 e il 1991, anche se gli storici propongono datazioni leggermente diverse (1946, 1947, 1989, eccetera). Questa terza guerra mondiale presentò aspetti particolari rispetto alle due precedenti, anche se cumulò in una certa misura l’elemento geopolitico della prima (USA contro URSS, così come nella prima c’era stato il confronto Inghilterra – Germania) e l’elemento ideologico della seconda (liberismo contro comunismo, così come nella seconda c’era stato il confronto fascismo – antifascismo). Ed infatti l’elemento specifico e caratteristico della terza guerra mondiale è proprio questo intimo incrocio di elemento geopolitico e di elemento ideologico. Non posso per ragioni di spazio soffermarmi sui momenti di scontro militare e geopolitico diretto (Corea, Vietnam, Angola, eccetera), e devo giungere subito alla conclusione, peraltro ben nota, per cui dopo quasi mezzo secolo di confronto globale in uno dei due contendenti (l’URSS comunista, ovviamente) crollò il “fronte interno”, con la controrivoluzione di massa delle nuove classi medie sovietiche in via di graduale americanizzazione ideologica da almeno vent’anni circa, ed in cui però la vera e propria restaurazione ultracapitalistica di classe passò attraverso un’alleanza fra settori maggioritari della nomenklatura di partito (i vari Dalemov, Dalemescu, Daleminsky, Da Le Minh, eccetera, un tipo umano clonato senza differenze importanti) e dirigenti delle grandi imprese di stato. Già il teorico della guerra cinese Sun Tzu aveva affermato che il modo migliore di vincere una guerra è vincerla senza combatterle. E così è stato. Se la fine della prima guerra mondiale aveva comportato soltanto la decadenza irreversibile dell’Europa e la fine della seconda la perdita della sua sovranità (prescindo qui – ed il lettore non me ne voglia e non faccia pettegolezzi – sui torti e sulle ragioni specifiche dei contendenti), la fine della terza fu direttamente e senza interruzioni l’inizio della quarta in corso. Sul piano ideologico essa terminò con una crisi strutturale (irreversibile? Non lo so!) dell’ideologia comunista, mentre sul piano geopolitico essa terminò con gli USA rimasti unica potenza militare geopolitica mondiale, con basi terrestri, aeree e navali in tutto il mondo (e non solo in una parte).

E siamo ora in presenza di una vera e propria Quarta Guerra  Mondiale, anche se il pur (talvolta) apprezzabile pacifismo testimoniale a base morale e religiosa rilutta a definirla in questi termini. E tuttavia l’atteggiamento del nobile animale chiamato “struzzo”, che mette la testa sotto la sabbia di fronte ad uno sgradevole pericolo, non deve sostituire la tradizione che va da Erodoto a Marx passando per Machiavelli, per cui le guerre vengono chiamate “guerre” e non equivoci malintesi, esagerazioni, errori, fissazioni ideologiche, eccetera.

La Quarta Guerra Mondiale è in corso da tempo. L’unica possibilità di evitare che essa assuma un pericoloso aspetto termonucleare diretto (Dio ce ne scampi!) sta nella possibilità che essa sia perduta dagli USA, in quanto la somma dei suoi oppositori statali, geopolitici, nazionali, sociali, religiosi, eccetera, può forse costituire una massa critica tale da far “retrocedere” il progetto imperiale americano. Il solo “pacifismo” sensato è questo, e non certo l’infinita cerimonia ostensiva di pecoroni belanti che portano suppliche e petizioni ai potenti, generalmente accompagnate da incappucciati in passamontagna che spaccano vetrine ampiamente assicurate, nutrendo cosi sia il capitale finanziario assicurativo sia il circo mediatico sempre avido di automobili bruciate e di poliziotti catafratti che caricano culi fuggenti di adolescenti disoccupati e/o precari.

L’Europa è schierata in questa quarta guerra mondiale a fianco degli USA, e le sue truppe difendono i confini dello stato sionista ed ingaggiano battaglia nell’Asia Centrale (lo heartland geopolitico mondiale) per garantire meglio gli interessi geopolitici USA in vista di futuri conflitti con la Russia e con la Cina. In questo senso hai ragione nel dire che ormai “l’Europa è un corpo estraneo a sé stessa”. È vero che i suoi politici di professione ogni tanto squittiscono che vorrebbero “rinegoziare” su basi più “paritarie” la partnership strategica con gli USA nella direzione del cosiddetto (ed inesistente) “multilateralismo”, ma non bisogna credere ad una sola parola di questa retorica alla Barbara Spinelli. Non ci può essere alleanza “alla pari” fra USA ed Europa satellite, così come non c’era nella terza guerra mondiale alleanza “alla pari” fra l’URSS ed i paesi dell’Europa Orientale.

In questo momento tutti i popoli europei sono “ostaggi” di questa subalternità chiamata sfacciatamente “alleanza per la democrazia ed i diritti umani”. Ed è per questo che per ora non possiamo che sperare che gli USA perdano questa quarta guerra mondiale e l’Europa non perda completamente sé stessa. Se devo dire la verità, nutro in proposito un certo pessimismo.

 

3) Queste nuove destre sono europeiste nella misura in cui l’Europa si identifica con il primato dell’Occidente americano. Riconoscere il primato americano significa implicitamente qualificarsi come parte integrante dell’impero USA. In tale contesto, l’Europa assume il ruolo di potenza locale volta a salvaguardare gli interessi occidentali in Eurasia. In tal modo, l’Europa, oltre a sostenere, quale potenza di supporto dell’occidente, Israele, le guerre imperialiste americane in Iraq e Afghanistan, l’espansione capitalista globale, si fa portatrice dei valori morali dell’impero americano quali l’esportazione della democrazia su scala planetaria, i diritti dell’uomo, la negazione della sovranità degli Stati nei confronti dell’ordinamento internazionale. Le prospettive delle destre europee sono quindi intimamente connesse con le basi ideologiche – tecnocratiche della globalizzazione. Non a caso l’ideologia che accomuna tutte le destre occidentali è quella della espansione modernizzatrice tecnocratico – finanziaria senza confini. Si riscontra però una evidente contraddizione tra le visioni globaliste delle elites e le idee professate dal popolo degli elettori delle destre. Infatti i motivi generatori del consenso a destra sono legati invece alla difesa individualistica del proprio status economico – sociale, della propria attività professionale contro la presenza invasiva dello Stato, del particolarismo localistico – provinciale (che ha sostituito l’originario radicamento identitario che si riassumeva nei valori del sangue e della terra). Il valore specifico in cui si riconosce l’attuale popolo di destra è costituito dalla difesa del particolarismo atomistico di una società frantumata in milioni di egoismi individuali e locali. La destra ha fatto dell’antipolitica la propria politica, dell’orizzonte individuale – localistico il principio e la fine di tutte le cose: apparentemente, nulla di più estraneo e incompatibile con il mondo globalizzato. In tale contesto, è riscontrabile la crisi endemica della partecipazione politica, dal momento che l’individualismo e il particolarismo sono germi che hanno l’effetto di distruggere progressivamente l sfera sociale della persona umana. La politica si identifica dunque con una forma di rappresentanza – delega che precede e va oltre il voto politico. Infatti, l’economia non può subire alcun controllo perché il suo sviluppo è delegato alla dinamica dei mercati, le scelte politiche sono deleghe per la difesa di interessi particolari, l’educazione, la cultura, la morale corrente, sono soggette all’adeguamento ciclico allo sviluppo della società dei consumi. La crisi della partecipazione politica genera un società eterodiretta dalla industria virtuale dei media che impone le sue scelte negli stessi rapporti familiari ed interpersonali. In realtà la globalizzazione è fondata sull’individualismo e l’egoismo localistico, che non si contrappongono al globalismo, ma ne costituiscono l’humus embrionale, perché solo la legittimazione dell’egoismo atomistico può costituire la giustificazione morale e politica dell’egoismo grande, planetario e globale. Salvo poi il verificarsi l’annientamento dell’ egoismo piccolo piccolo che, al pari di un maldestro apprendista stregone, viene logicamente fagocitato dall’egoismo grande.

 

È assolutamente vero che l’attuale strategia ideologica della destra è l’antipolitica. Questa antipolitica ha due dimensioni fondamentali. Da un lato, a livello comunitario, si basa sull’enfatizzazione artificiale dell’egoismo “piccolo piccolo” delle comunità, per cui il comunitarismo diventa localismo egoistico e razzisteggiante, e la filosofia politica di Aristotele diventa la pratica politica di Calderoli. Dall’altro a livello individuale, intercetta la mutazione antropologica di massa promossa dal capitalismo assoluto post borghese e post proletario. Se tutto questo è chiaro, e chiaro perché visibile ad occhio nudo, è forse necessario un maggior approfondimento a livello sociale e soprattutto culturale.

In primo luogo, la riconversione antropologica antipolitica di massa riguarda l’intera popolazione, e non soltanto i “popoli elettorali” di destra e di sinistra. E tuttavia la riconversione antipolitica del popolo elettorale di sinistra appare più difficile, per ragioni che a suo tempo ha chiarito il filosofo Ernst Cassirer in un suo magistrale studio su Rousseau. La sinistra è infatti nata più di due secoli fa, sostituendo alla religione tradizionale una nuova religione della politica, basata sul fatto che tutti i mali del mondo non sono dovuti al peccato originale o all’intervento del diavolo nei fatti umani, ma sono dovuti all’ingiustizia nella distribuzione dei beni necessari alla vita, ingiustizia di cui è colpevole una determinata struttura della società (prima signorile - feudale, poi borghese – capitalistica). Per cercare di distruggere progressivamente questo consolidato DNA ideologico di sinistra vecchio di più di due secoli, e quindi rafforzato dalla “lunga durata” (Braudel), il circo ideologico – mediatico di sinistra ha cercato di sviluppare strategie di demonizzazione personalizzata (i forchettoni DC, il cinghialone Craxi, il Paperone Berlusconi, i corrottoni puniti dai magistrati onesti, eccetera), distruggendo cosi soprattutto la tradizione marxista, che con tutti i suoi difetti aveva pur sempre cercato di promuovere una visione strutturale, sistemica, anonima ed impersonale delle cause dell’ingiustizia umana. E tuttavia questo DNA non è ancora del tutto distrutto, il che rende impossibile quel punto di vista “antipolitico” cui la destra può invece giungere più facilmente.

In secondo luogo, la tradizione dello statalismo interventistico redistributore (Giovanni Gentile, Ugo Spirito, eccetera) è sempre stata minoritaria all’interno della destra italiana. Non ne nego ovviamente l’esistenza, ma insisto sul fatto, peraltro ormai storiograficamente documentato ed ormai addirittura “assodato”, che la destra italiana dopo il 1945, pur conservando per ragioni identitario – strumentale residui ideologici gentiliani, ha compiuto una scelta strategica di subalternità agli USA (cfr Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia 1943 – 1948, Il Mulino, Bologna 2006). Quando Almirante preferì il cinico nichilista Fini all’intellettuale confusionario ma inquieto Tarchi ci si trovò di fronte ad un fatto strutturale e implacabile, del tutto parallelo a quanto avveniva negli stessi anni negli apparati politici PCI e PSI, quando baffetti cinici e polivalenti erano preferiti a gente che mostrava di prendere sul serio Marx e Lenin, e di non considerarli solo testimonial ideologici per discorsi della domenica davanti a babbioni fideisti e decerebrati. Anche qui, siamo di fronte ad un fenomeno che per un allievo di Marx come io sono non presenta alcuna difficoltà: la struttura determina la sovrastruttura, le salmerie seguono le truppe, e non viceversa.

In terzo luogo, è stato facile riciclare il vecchio individualismo eroico preborghese della destra classica (alla Evola, per intenderci) nel nuovo individualismo finanziario ed imprenditoriale (alla Berlusconi ed alla Montezemolo, per intenderci). Si tratta pur sempre di una dialettica interna alla figura filosofico – hegeliana dell’individuo dominatore, che passa dallo spadone al libretto degli assegni. Qui il disinteresse pittoresco e suicida della cultura di destra (ivi compresa la migliore e la più inquieta) verso il  metodo dialettico di Marx è stato francamente negativo, perché troppo spesso questa cultura ha confuso il grande Marx con il miserabilismo economicistico e straccione della concezione sindacalistica del mondo (abbasso i meriti e gli individui, colpiamo tutti coloro che si distinguono, livelliamo tutti in modo che si conformino tutti allo straccione analfabeta che grida più forte di tutti!).

E per finire, il solo problema veramente interessante e decisivo sta in ciò, e cioè nel sapere se questa indiscutibile voglia antipolitica di destra è un fenomeno che coprirà un intero periodo storico, nell’ordine per capirci di decenni, oppure se si tratta solo di un fenomeno tattico – congiunturale, “drogato” dal circo mediatico e dal ceto politico che intende accelerare i processi di privatizzazione non solo dei complessi statali ma della stessa vita quotidiana (TFR, master universitari privati a pagamento, assicurazioni mediche, anziché mutua universalistica, eccetera). Su questo varrebbe la pena discutere meglio in futuro.

 

4) Il valore fondamentale della destra è storicamente identificabile con il primato dello Stato. Oggi è invece proprio la destra ad invocare l’anti – stato ed in un certo senso rivela una sua vocazione “rivoluzionaria” proprio nel suo messaggio liberatorio dell’individuo dallo Stato, dai suoi doveri civili, dalla comunità originaria. Insieme con l’ideologia dell’anti – stato si sviluppa necessariamente quella dell’anti – patria e quindi la genesi di una destra che sradicato dal suo patrimonio ideale il culto della religione civile, dell’indipendenza nazionale, a favore di un surrogato di patria costituito dal regionalismo (anche nazionale), inteso come luogo di incontro di interessi locali. In realtà la destra europea non propone un modello sociale definito, ma è protesa a recepire spazi di consenso all’interno delle forze emergenti di volta in volta nell’economia al fine di creare un’immagine di efficienza da contrapporre all’inefficienza statale e all’ordinamento burocratico della sinistra. Quella della destra è una ideologia riflessa: essa non è portatrice di valori autonomi, ma piattaforme politiche pragmatiche da contrapporre di volta in volta alla sinistra. Nella prospettiva della destra, è scomparsa la visione della società intesa come comunità organica strutturata sulla ripartizione delle funzioni da contrapporre all’egualitarismo ideologico della sinistra. E’ infatti il mercato a creare sempre nuovi equilibri sociali, in sostituzione di quelli già regolamentati dallo Stato. L’avanzata della destra coincide sol diffondersi dell’anti – politica. E’ questa una tematica assai diffusa nell’attuale pubblicistica, con particolare riguardo alle denunce contro l’inefficienza e la corruzione dello Stato, i costi parassitari della casta politica. Pur prendendo spunto da problematiche reali, tali invettive sono strumentali ad obbiettivi estranei (al pari di tangentopoli), ad una pretesa moralizzazione della vita pubblica. Infatti, la diffusione mediatica di tali denunce ha scopi ben diversi. Si vuole da più parti essere interpreti di un diffuso malcontento ed intercettare il sentimento popolare di rigetto nei confronti della politica. Si ignora, però, fraudolentemente che questa anti – politica indotta può essere superata solo nell’ambito politico, con la creazione cioè nella società attuale di nuovi soggetti politici. Si vuole in realtà dimostrare che l’inefficienza e la corruzione della vita pubblica e una classe politica parassita sono fenomeni riconducibili allo statalismo. Pertanto, se tali mali sono geneticamente riferibili al primato dello Stato nella società politica, essi possono essere eliminati con lo Stato stesso. Ma insieme con la corruzione ed il parassitismo verrebbero meno, in ogni caso, anche le funzioni e le prerogative istituzionali dello Stato in tema di garanzia di diritti sostanziali e di equilibri sociali determinati dal primato statuale. Per raggiungere tale scopo, occorre dunque promuovere riforme di ispirazione liberale che delegittimino le funzioni primarie dello Stato, quali la riforma pensionistica, la devoluzione del Tfr ai mercati finanziari, la privatizzazione progressiva dell’istruzione e della sanità. Infatti, uno Stato non più sovrano né autoreferente, avrà solo la funzione di salvaguardare la compatibilità dell’assetto politico interno con l’economia globale. Quindi l’economia e  i suoi poteri forti sono i sostenitori dell’anti – politica, quali motori di uno sviluppo capitalistico che la politica non è in grado di realizzare. Da questo panorama politico emerge l’avanzata di una destra il cui ruolo è quello di creare i presupposti per l’avvento di una società non politica, in quanto dilaniata dai poteri economico – finanziari globali.

 

All’interno dell’interminabile simulazione ciclica Destra/ Sinistra/ Destra/ Sinistra (la ripetizione è necessaria per esprimere meglio il concetto) all’attuale “voglia di destra” succederà inevitabilmente ed infallibilmente fra qualche anno un’analoga e complementare “voglia di sinistra”. Avremo allora identici caroselli post elettorali di giovani fighetti spiritati per le vie di Roma, Parigi e Madrid che agitano ridicole bandiere di partito, in un identico contesto strutturale di mancanza di sovranità finanziaria, diplomatica e militare. Avremo allora semplicemente le sezioni europee dei due partiti americani, l’Asinello democratico e l’Elefante repubblicano. In un simile contesto, l’astensione dal voto sarà ovviamente l’unica azione etica possibile, come lo era nei tempi ellenistici il ripiegamento nel privato epicureo e stoico. Ma già il grande Hegel aveva connotato questo tipo di libertà coincidente con l’astensione come una libertà inautentica, insufficiente e falsa. E allora, come evitare di oscillare fra lo Scilla della partecipazione ciclico – manipolata dell’impotente pendolarismo omologato Voglia di Destra/ Voglia di Sinistra ed il Cariddi dell’altrettanto impotente secessione?

Questo non è uno dei problemi, ma è a mio avviso l’unico vero problema dei tempi della Quarta Guerra Mondiale in cui stiamo vivendo. Ammetto di non sapere assolutamente come risolverlo, anche se sono fiero di saperlo almeno impostare, laddove la stragrande maggioranza di chi mi circonda è ancora del tutto interna al ruotare ciclico interminabile della voglia di destra contro la voglia di sinistra. Il nostro colloquio (intendo ovviamente il colloquio Preve – Tedeschi) si caratterizza per il fatto che entrambi, pur provenendo da (ed in parte mantenendo) tradizioni politico – culturali diverse ed anzi opposte, dialoghiamo sulla base imprescindibile di una comprensione strategica preliminare, che compendierò qui per brevità in due soli punti (ma sarebbero molti di più).

In primo luogo, bisogna trasformare i contenziosi politico – simbolici pregressi della prima, seconda e terza guerra mondiale in contenziosi puramente culturali, togliendo loro ogni veleno politico – identitario di appartenenza. Se crediamo di poter vivere il presente attraverso lo schermo ideologico del confronto fra interventisti e neutralisti (prima guerra mondiale), del confronto fra fascisti ed antifascisti (seconda guerra mondiale), ed infine del confronto fra comunisti ed anticomunisti (terza guerra mondiale), noi resteremo sempre impotenti e neutralizzati di fronte alla quarta guerra mondiale in corso. So bene che un gigantesco apparato culturale di tipo simbolico – identitario (opinionisti politici, chiacchieroni dei talk show televisivi, animatori urlanti di centri sociali, professori antifascisti di storia contemporanea, eccetera) vuole inchiodarci a questo triplice contenzioso, e so bene che ci riusciranno ancora a lungo. Ma ci riusciranno, appunto, solo fino a quando l’Europa resterà un corpo estraneo a sé stessa, come hai detto bene in precedenza. Il giorno in cui questo triplice contenzioso sarà ritradotto nei termini del contenzioso dialogico – filosofico (come avviene oggi per contenziosi un tempo sanguinosi, come quello fra cattolici e protestanti nel cinquecento o fra monarchici e repubblicani nell’ottocento) allora l’Europa comincerà a prendere coscienza di sé stessa, il gossip demonizzatore e malevolo sparirà, e le “parole” cominceranno a corrispondere ai concetti, ed i concetti cominceranno a corrispondere alle realtà. Non penso però che questo avverrà già nel corso della nostra vita terrena, se appena prendiamo spregiudicatamente in considerazione la vischiosità inerziale delle identità culturali consolidate di massa, specialmente quando esse vengono continuamente “innaffiate” da giganteschi apparati mediatici, politici ed editoriali.

In secondo luogo, bisogna attrezzarsi a combattere una guerra che si preannuncia di lunga durata, e cioè l’attuale Quarta Guerra Mondiale. Non bisogna essere in proposito “schizzinosi”, facendo esami del sangue interminabili a sunniti e sciiti, talebani barbuti e nazionalisti baffuti, giunte militari birmane e dinastie dispotiche comuniste coreane, nuove borghesie cinesi che si fingono virtuosamente neoconfuciane e sono in realtà schifosi modelli clonati di capitalisti di Wall Street e ceti politici autoritari russi prodotti dalla dissoluzione del precedente baraccone burocratizzato, eccetera. Non dobbiamo mica sposarli! Non dobbiamo mica “ideologizzarli” virtuosamente! È sufficiente per ora che, in questa fase storica di morte apparente dell’Europa, tutta questa Armata Brancaleone si opponga all’impero di questa quarta guerra mondiale. Ma questo è solo l’aspetto geopolitico. L’aspetto geopolitico è necessario, ma non sufficiente. Ci vorrà infatti una nuova cultura, che per il momento non è ancora visibile. Siamo infatti, per cosi dire, nel 1720, non certo nel 1789, nel 1848, eccetera. Ma chi riesce ad afferrare il bandolo della matassa è già a metà dell’opera.