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Mutamenti climatici, la Rivolta di Gaia? Intervista con il Prof. Carlo Bertani

di Maria Carotenuto (a cura di) - 23/07/2007

  

Intervista con il Prof. Carlo Bertani autore del libro “Mutamenti climatici, La Rivolta di Gaia?”

 

Fonti rinnovabili

Secondo i dati dell’AEA, l’Agenzia Europea per l’Ambiente, la percentuale di fonti energetiche rinnovabili sul totale dei consumi energetici è cresciuta nell’Europa dei 25 soltanto dal 4.4% al 6.3% tra il 1990 e il 2004, ben lontana dall’obiettivo UE, fissato al 12% per il 2010. Anche se l’incremento maggiore si è avuto per l’eolico e il solare, quest’ultimo non arriva all’1% del totale delle energie rinnovabili, mentre l’eolico è intorno al 19%.  Forse perché si pensa al solare e all’eolico come modalità poco efficienti e poco affidabili in termini di produzione energetica, ritenendo che ci sia comunque un impatto sull’ambiente, specialmente per i grossi impianti. E’ davvero così ?  Ritiene che le politiche europee siano appropriate?

 

Questo balletto di cifre nasce dalla confusione che regna a Bruxelles, laddove non si chiarisce mai abbastanza – e non si tratta di una “svista” – che nelle energie rinnovabili viene conteggiata anche la quota idroelettrica. Da un punto di vista teorico, l’energia idroelettrica è un’energia rinnovabile, ma presente da più di un secolo e non sostanzialmente incrementabile.

Un ragionamento serio prenderebbe invece in considerazione la quota delle energie ricavate dai fossili, e dovrebbe indicare le percentuali di riduzione su quella quota. Quanto, dell’80% circa dell’energia ricavata dai fossili e dall’atomo, siamo in grado di ricavare dalle fonti rinnovabili?

Ha poca importanza stabilire se si è passati dal 4 al 6%; fra 40 anni, non ci saranno più né petrolio e né gas: dove prenderemo il 75% che manca?

Il solare termodinamico e l’eolico sono in grado di soddisfare ampiamente le nostre necessità: l’Università di Stanford (USA) ha dichiarato che, secondo recenti ricerche, l’intero fabbisogno USA potrebbe essere ricavato, con la sola fonte eolica, in tre soli stati: Kansas, Texas e North Dakota.

Enelgreenpower (ENEL) ha accertato che, la stessa fonte, è in grado di fornire 4 volte l’intero fabbisogno mondiale del 1998.

Le prospettive del solare termodinamico, comunicate dall’ENEA, indicano che è possibile ricavare 1 KW elettrico al costo di 6,5 euro/cent nelle aree meridionali europee e di 4,5 euro/cent nelle aree tropicali, contro i 7 del petrolio/gas, i 6,5 del nucleare ed i 4,5 del carbone (al quale, però, vanno aggiunte le cosiddette “carbon tax”). Cosa aspettiamo?

Siamo, sostanzialmente, nella stessa situazione di metà Ottocento, quando la ferrovia sostituì la trazione animale. La risposta? A quel tempo, costruirono strade ferrate. Oggi? Costruiamo aerogeneratori ed impianti solari.

La differenza, rispetto all’800, è rappresentata dal diminuito potere decisionale degli stati nazionali e dall’accresciuta potenza delle holding finanziarie: ieri, i Rothschild – in accordo con re ed imperatori – furono gli “alfieri” dello sviluppo ferroviario, oggi, le grandi holding finanziarie sono legate a doppio filo al sistema dei combustibili fossili. 

Le “politiche europee” sono le direttive di un’entità che non può nemmeno dirsi una Confederazione di Stati: con quale autorità, Bruxelles, può stabilire la direzione da prendere? La crisi evidente è di tipo politico: al minor potere degli stati nazionali, non corrisponde un maggior potere delle istituzioni sopranazionali. Siamo, nonostante le tante, roboanti affermazioni, prigionieri di un’impasse che richiederà probabilmente decenni per avere soluzioni. Il pianeta saprà aspettarci?

 

Protocollo di Kyoto

Durante il recente vertice del G8 il cancelliere tedesco Merkel ha salutato come una grande vittoria l’accordo sulla riduzione delle emissioni di gas-serra, raggiunto dopo anni di boicottaggio del protocollo di Kyoto da parte degli USA. Ritiene che questo accordo, che non fissa le percentuali di riduzione (comunque molto poco consistenti in base al protocollo di Kyoto), ma coinvolge anche gli Stati Uniti, possa essere più proficuo dei precedenti, considerando anche le politiche della Unione Europea orientare alla riduzione unilaterale delle emissioni?

 

Il protocollo di Kyoto fu, è stato ed è un sostanziale fallimento. Mentre la maggior parte degli scienziati chiede riduzioni del 70% delle emissioni, si discute all’infinito sul misero 5% di Kyoto.

In realtà, la classe politica mondiale – poco avvezza a confrontarsi con la scienza, più abituata a foraggiarla ed a piegarla a suoi voleri – non si rende conto che stiamo scherzando con il fuoco.

La Corrente del Golfo sta rallentando paurosamente: dei 12 “camini” conosciuti d’approfondimento della Corrente – ossia i punti (Nord Atlantico) dove le acque scendono in profondità per ritornare nel Golfo del Messico – ne restano soltanto 2. Gli oceanografi inglesi (che studiano la Corrente del Golfo dal 1950 circa) affermano che l’apporto di calore verso le isole britanniche è già diminuito, negli ultimi dieci anni, del 30%.

Appassionarsi o disperarsi per il Protocollo di Kyoto, equivale a svalutare od a celebrare l’accordo di Monaco del 1938 fra Gran Bretagna e Germania. I giochi, in entrambi i casi, erano e sono segnati.

 

Quote di emissione

Il meccanismo delle cosiddette “quote di emissione”, previsto dal protocollo di Kyoto, consente ai paesi più industrializzati (e quindi maggiori emettitori di gas-serra) di acquistare dai paesi poveri le quote di emissione spettanti, cioè le quantità di gas-serra che ad ogni paese “è permesso” rilasciare in atmosfera. Inoltre, una Direttiva Europea del 2003 regolamenta la vendita delle quote tra gli impianti industriali, e prescrive agli Stati Membri di tenere un registro nazionale informatizzato delle transazioni (in Italia è presso l’APAT, l’Agenzia italiana per l’Ambiente). Nonostante il costo delle transazioni, complessivamente in UE si sono iscritti al registro oltre 10.000 impianti industriali per una capacità di emissione totale pari a quasi 2 miliardi di tonnellate equivalenti di anidride carbonica (dati 2006).  Cosa ne pensa?

 

Il meccanismo delle “quote” è quanto di più perverso si riesca ad immaginare.

Sostanzialmente, venne assegnata ad ogni paese del pianeta una quota d’emissione di gas serra, anche a quelli che non ne producevano affatto. I paesi che “sforano” la quota loro assegnata, non fanno altro che acquistare le quote dei paesi che non le utilizzano: una perfida moltiplicazione dei pani e dei pesci. Così, paesi come il Ciad o la Repubblica Centroafricana – che non hanno centrali termoelettriche e non viaggiano in SUV – “vendono” ai paesi industrializzati le loro “quote” che, però, non esistono realmente! Emetto io, al posto tuo, gas serra! In altre parole, essi continuano a non produrre gas serra, mentre i paesi industrializzati aumentano le emissioni: ovviamente, il pianeta si fa un colossale “baffo” dei nostri “giochetti”, ed il clima muta. Basti riflettere che l’Italia, a fronte di un impegno preso con Kyoto di diminuire in un decennio circa le sue emissioni del 6,5% le ha, nello stesso periodo, aumentate della stessa percentuale: insomma, un trucchetto contabile.

 

Trasporti

L’Italia si trova al secondo posto tra i paesi europei, dopo il Lussemburgo, per il numero di autovetture circolanti in relazione alla popolazione residente, ma è prima se si tiene conto anche dei motocicli e dei veicoli commerciali (dati ACI  ed Eurostat). A livello mondiale, solo gli USA hanno un tasso di motorizzazione più alto. Al di là delle minacce di ponti sullo Stretto e/o varianti autostradali e dei cosiddetti eco-incentivo, i politici italiani sembrano assolutamente incapaci di porvi rimedio. Eppure esistono tecnologie alternative al motore a scoppio, che oltre ridurre la nostra astronomica bolletta petrolifera, potrebbero minimizzare le emissioni di gas-serra colpevoli dei cambiamenti climatici e ridare “ossigeno” alle nostre città. Quanto sono mature le iniziative in tal senso?

 

Il problema del trasporto, in Italia, è un “buco nero” del quale non si vuole prendere coscienza.

A differenza di molte nazioni europee, l’Italia perse con l’unificazione il suo modello di trasporto che era, prevalentemente, un modello marittimo. Venezia era la capitale del trasporto verso Oriente, Genova e Napoli nel Mediterraneo Centrale e verso Occidente, il Po l’asse centrale dello spostamento delle merci nella Pianura Padana. Perché, intorno a Milano, esisteva il “Sistema dei Navigli”?

I paesi dell’Europa centrale spostano sulle acque interne il 30% dei volumi di trasporto: in Italia, meno dell’1%. Potremmo pensare: non abbiamo vie d’acqua utilizzabili. Falso: nessuna via d’acqua (nemmeno il grande Danubio!) è utilizzabile per la navigazione senza interventi per renderla usufruibile ed una costante manutenzione (chiuse, passaggi obbligati, scavo di fondali, ecc).

A fronte di tutto ciò, però, il sistema di navigazione fluviale è il più economico, quello che consuma meno energia a fronte di tonnellata spostata, e richiede meno personale: una nave fluviale trasporta l’equivalente di 85 autotreni, ha un equipaggio di poche persone e consuma il 30% dell’energia rispetto al sistema stradale.

L’Unione Europea ci “tirò le orecchie” per lo scarso utilizzo delle vie fluviali: era disposta a finanziare il 50% delle spese di progettazione ed il 10% di quelle di realizzazione per rendere il Po navigabile fino a Pavia, per le nuove navi fluviali/marine europee del tipo V° (circa 110 metri di lunghezza e 11 di larghezza). Quanto ci sarebbe costato l’intervento? Considerando il contributo europeo, dai 100-150 milioni di euro. Riflettiamo sulle nostre miserie: erano pochi soldi, pochi rispetto ai 6,5 miliardi del Ponte sullo Stretto o sulla cifra – grosso modo di pari entità – della TAV. In Italia, la prima cosa che si guarda, in questi casi, è se “tangenziale” fa rima con “tangente”.

Proviamo ad immaginare, invece, un sistema di trasporto integrato che usi la navigazione di cabotaggio con quel tipo di nave – che pesca poco, e può quindi utilizzare la “rete” dei porti minori (almeno una trentina in Italia) – e le acque interne. Immaginiamo la produzione agroalimentare del Sud che giunge con un solo trasporto fino al Lago di Garda, ad un passo dai mercati dell’Europa Centrale: in Germania, il passaggio dalla produzione all’ingrosso delle merci costa circa il 2% in meno, perché hanno un sistema più efficiente. Il 2% non è poco: equivale ad un rinnovo contrattuale (pubblico e privato), sul quale imbastiamo, ogni due anni, delle “Disfide di Barletta” che infiammano gli animi per mesi. Invece di risolvere i problemi, noi ci affanniamo a dare all’uno od all’altro la colpa per quel che non si è fatto: così, continuiamo a non far nulla.

 

Emissioni, PIL e modelli socio-economici

Secondo il modello dello sviluppo sostenibile, la crescita indefinita del PIL è comunque un obiettivo, in quanto misura del progresso (sviluppo) di un paese. Dovendo però scongiurare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici, quello che si può ragionevolmente fare è impedire che le emissioni di gas-serra aumentino di pari passo con il PIL. A salvarci basteranno tecnologie più efficienti e un po’ di risparmio energetico (mettendo i doppi vetri alle finestre….). Ma è veramente questa l’impostazione più giusta per consentirci di preservare alle future generazioni un mondo ancora vivibile ? Non sarebbe il caso di considerare modelli economici e sociali alternativi, come la decrescita?

 

Ho un telefonino del 1999 perfettamente funzionante: non lo posso più utilizzare perché non si trovano in commercio le batterie di ricambio. Dovetti – a malincuore – abbandonare la mia amata Lancia Fulvia HF perché non c’erano ricambi. Non scattavano fotografie e non avevano il climatizzatore, ma entrambi quegli oggetti soddisfacevano le mie necessità.

La durata dei beni – la cosiddetta “obsolescenza programmata” – viene decisa a tavolino dalle aziende produttrici; e non si venga a raccontare che esiste la concorrenza: tutte, sotto questo aspetto, fanno parte di un ferreo “cartello”.

Per produrre un mobile, riduciamo i tronchi in trucioli, poi li componiamo in pannelli con colle che – sappiamo prima – non dureranno più di trent’anni. I mobili in legno durano secoli.

La formidabile moltiplicazione degli utili del capitalismo – la “Mecca” dove tutti, o quasi, s’arricchiscono – viene pagata con una perversa moneta: il prosciugamento di tutte le risorse naturali. I perfidi alieni che passano da un pianeta all’altro (se potessero…) per prosciugare tutte le ricchezze – quelli del film “Independence day” – siamo noi. Non stupiamoci, allora, se stiamo asfissiando coperti dai nostri rifiuti.

Perché avviene questo obbrobrio? Per la necessità d’incrementare il PIL, quel numero che ci dice – ogni anno – se siamo stati buoni o cattivi. E chi lo decide? Degli organismi che non sono stati democraticamente eletti, ossia il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, le agenzie di rating. Tutta gente che manco sappiamo chi è.

Sulla base di un numero che ha sostituito qualsiasi seria teoria del valore delle merci, noi pianifichiamo le nostre vite, i nostri stili di lavoro e di consumo, la gestione ecologica del pianeta.

Quando si obbedisce ad un’entità senza conoscerne gli attributi, senza avere nessun controllo su di essa quando – sostanzialmente – ci si affida ciecamente ad essa, questo comportamento ha un nome: idolatria. Il nomade africano che s’inchina di fronte al Sole, adorandolo, è più serio di noi: almeno, il Sole è puntuale nel levarsi ad ogni nuovo giorno.

Chiariamo che non si tratta assolutamente di un problema scientifico o tecnologico: saremmo in grado di produrre automobili che durano trent’anni: i mobili che duravano secoli, già li sapevamo costruire. La tecnologia sforna ogni giorno nuove soluzioni: il problema è che ogni incremento tecnologico produce materiali e beni potenzialmente più efficienti e, se lo desiderassimo, più duraturi. Una disgrazia, per chi guadagna 1 euro il pezzo.

Vorrei, per concludere, credere che l’umanità riesca a svegliarsi da questo perfido incubo – ossia che passasse dalla produzione di ricchezza a produrre quel che serve, e basta – ma non ci credo: correremo come un treno sul binario morto, fino al respingente finale.

 

Cambiamenti climatici e scarsità d’acqua

Forse prima ancora dell’inabissamento delle nostre città costiere, simboleggiato dalla terribile immagine del Campanile di S. Marco affondato nella laguna, che campeggia sulla copertina del suo libro, dovremo fare i conti con un altro effetto negativo dei cambiamenti climatici: la mancanza d’acqua. Nella Conferenza Europea, organizzata dalla UE in occasione della giornata mondiale dell’acqua il 22 marzo scorso, il tema centrale è stato proprio la siccità e il rischio di inondazioni, entrambi in aumento come effetto dei cambiamenti climatici. L’Europa non è il continente più colpito e ci sono differenze tra aree diverse, ma anche per noi l’acqua è un bene scarso e conteso tra gli usi civili, quelli industriali e l’agricoltura. Mentre nei contesti istituzionali il rimedio proposto consiste nell’aumentare le tariffe dell’acqua, il presidente di EUREAU è stato molto chiaro: le aziende private che la sua associazione rappresenta (e traggono enormi profitti dalla vendita dei servizi idrici), non hanno alcuna intenzione di accollarsi l’onere degli interventi necessari, ad esempio, a diminuire le perdite d’acqua delle reti di distribuzione. Cosa ne pensa ?

 

Quello dell’acqua è forse il dramma più pericoloso che ci attende: paradossalmente, invece, è proprio il meno conosciuto e dibattuto. Non starò a ripetere dati che molti conosceranno – 2 miliardi di persone soffrono e spesso muoiono per mancanza d’acqua o per malattie direttamente provocate dalla pessima qualità del rifornimento idrico – e ciò dimostra che una piccola variazione negli equilibri della biosfera ha, per la specie umana, effetti devastanti.

Ampie aree del continente africano si stanno desertificando, eppure non siamo nemmeno in grado di governare i flussi migratori che questo mutamento, non eclatante – considerando gli enormi mutamenti che ha subito il pianeta in ere lontane – sta generando. E poi, ci riteniamo in grado di fronteggiare un aumento del livello dei mari di un metro? Con la sparizione dei Paesi Bassi, di Manhattan, del Bangladesh?

Se questi aspetti del “problema acqua” dovrebbero mettere in guardia, non possiamo dimenticare quelli più legati alla vita di tutti i giorni. L’Italia, sotto questo aspetto, è un paese fortunato: abbiamo parecchia acqua, anche nel Sud, dove sembrerebbe mancare.

In realtà, è il nostro disinteresse a creare i problemi: da anni si preannunciano, ad ogni stagione, disastri per l’agricoltura padana, preda della sempre maggior siccità e della poca acqua disponibile per l’irrigazione. Ogni anno, vanno perduti miliardi di euro, cifre da legge finanziaria.

Qualcuno fa qualcosa? Chiacchiere, e basta. In parecchi articoli – comparsi sul Web – ho lanciato una semplice proposta. Se costruissimo tre semplici chiuse allo sbocco dei laghi Maggiore, di Como e di Garda, per mantenerli al livello di massimo invaso primaverile (quando si sciolgono le nevi o ci sono maggiori precipitazioni) otterremmo – calcoli alla mano – di trattenere una quantità d’acqua sufficiente per raddoppiare la portata del Po per circa 40 giorni, ossia per il periodo di maggior siccità. Ovviamente, la stessa acqua potrebbe essere indirizzata verso l’irrigazione od altri usi: sono convinto che, se al posto degli italiani ci fossero stati degli olandesi, avremmo quelle chiuse già da un secolo.

Il rifornimento al Sud – pensiamo alla Puglia – fu assicurato dai grandi acquedotti costruiti dopo l’unificazione: dopo, cosa è stato fatto? La crisi dello stato nazionale – e il suo “ritiro” dalle attività imprenditoriali – causa una pericolosa impasse: l’UE raccomanda, lo Stato non riesce ad intervenire per la complessità delle norme (pensiamo ai problemi giuridici causati dalla riforma del Titolo V° della Costituzione) e gli Enti Locali non hanno sufficienti fondi. La risposta? I privati.

L’imprenditoria, però, guarda al profitto e – ogni anno che passa – al profitto sempre più a breve termine. Sono lontani i tempi nei quali un imprenditore investiva oggi per raccogliere dopo un decennio: le previsioni di bilancio, oggi, si fanno a sei mesi. La vicenda della privatizzazione dell’acqua a Latina è un esempio lampante.

Per non finire come con il classico “l’operazione è riuscita, ed il paziente è morto”, sarebbe almeno necessario passare alla gestione del “Sistema acqua” – intendendo nel termine la fornitura, la depurazione e la navigazione delle acque interne – che in altri paesi europei non è drammatica come in Italia, anche in presenza di minori risorse. Per intervenire, bisognerebbe varare un “Testo Unico” per la gestione delle acque: una legge chiara, che abolisse tutte le precedenti norme in materia ed alla quale tutti i soggetti dovrebbero attenersi. Sarebbe già un primo passo. L’alternativa? Iniziamo a stivare in cantina le taniche d’acqua.

 

GAIA

L’ipotesi di GAIA vede la Terra come un organismo vivente, risultato complessivo dell’interazione tra tutte le creature che la abitano  (vegetali e animali) ma anche con i sistemi fisico-chimici che ne influenzano le condizioni. Per un organismo vivente o per un ecosistema, a fronte di fenomeni di “rottura di equilibrio” in genere si ha spontaneamente una reazione di “aggiustamento”, per cui l’eco-sistema si adatta alle mutate condizioni, trovando un nuovo equilibrio. Ritiene possibile che GAIA (e il genere umano) riesca ancora una volta ad adattarsi alla rottura del complesso equilibrio climatico, oppure sarà inevitabile la “rivolta di GAIA”, ipotizzata nell’ultima parte del suo libro, che ne espone in forma di racconto ma in modo davvero realistico un possibile “day after”?

 

Premetto che un conto è presentare degli scenari, un altro mettersi a fare degli aruspici: non era mia intenzione, nel libro, essere profeta bensì, semplicemente, mettere in guardia contro dei rischi che sono reali, e non sono fantasticherie.

Le ipotesi che considerano Gaia alla stregua di un essere vivente e quelle che, invece, ritengono il pianeta il più straordinario e complesso sistema chimico, fisico e biologico conosciuto, sono soltanto in apparente contraddizione.

Per capire meglio l’apparente contraddizione, dovremmo definire meglio la diversità fra i termini vivente e senziente. Gaia è senz’altro un essere vivente, se assegniamo questo attributo ad un sistema che risponde agli stimoli seguendo le cosiddette “leggi di natura”, ossia l’infinita serie di reazioni biochimiche che regolano la vita. Sulla qualifica di senziente, ho dei dubbi che sono più d’ordine filosofico che strettamente scientifico. Isaac Asimov affrontò l’argomento con grande sagacia nella postfazione della sua “Trilogia galattica”, giungendo a concludere che non si potevano definire non viventi le rocce giacché, nelle lunghissime ere geologiche, possono entrare nel ciclo vitale come sali, per poi ri-diventare nuovamente rocce. Sull’altro fronte, potremmo chiederci se un nematode (un comune verme di terra) sia senziente, e quali attributi assegnare al termine.

Per quanto riguarda la salute del pianeta, però, non ha soverchia importanza distinguere i due termini: la Terra, o Gaia – che comprende anche la specie umana – reagisce alle mutazioni per ritrovare un equilibrio, come qualsiasi sistema chimico, fisico o biologico. Purtroppo, non siamo in grado di sapere in anticipo quali saranno gli scenari dei futuri equilibri: possiamo tracciare delle ipotesi, ma nulla più. Non dimentichiamo, però, che la specie umana – sotto l’aspetto prettamente biologico – è una delle più fragili: mal sopporta sbalzi di temperatura assai contenuti ed ha bisogno di costanti rifornimenti di acqua e di cibo, più della maggior parte delle altre specie viventi. La prudenza nel modificare quegli equilibri, se fossimo saggi, dovrebbe quindi regnare sovrana.