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L’uomo desacralizzato e la divinizzazione dell’umanità

di Adriano Segatori - 23/07/2007

 

 

Dall’uomo integrale

all’uomo-progetto.

 

“Il concetto di essere umano “universale”,

certamente in grado di acquisire una cultura,

considerata però come un semplice vestito – o addirittura come un ornamento – è evidentemente una pura astrazione”.

(Tobie Nathan)

 

Viviamo in un’epoca di vistosi paradossi
          e di inconcepibili contraddizioni, e una
          delle distorsioni più eclatanti è proprio quella che riguarda l’uomo. Una deformazione, per altro, che non è soltanto un punto di vista ma un vero e proprio immaginario della realtà.

A fronte di un uomo sempre più sfibrato, deculturizzato, depersonalizzato, derealizzato, sradicato e spaesato, si rivendica un’astratta umanità, flessibile, porosa, opinabile, sfumata e indistinta. Tutto ciò che ha un senso di definito e di organico viene tacciato di discriminazione e di antiquato, in nome di un relativismo che a ragione Frank Furedi definisce “filisteo”. Perché il filisteismo culturale non è solo la grettezza, la mancanza di buon gusto e l’assenza di forma che colpiscono le opere dell’uomo, ma è la deformazione dell’uomo stesso.

Del resto, l’ideale dell’uomo flessibile evocato nelle organizzazioni del lavoro altro non è che l’uomo senza dimensione, senza spessore, senza identità.

Già il vocabolo <<unificato>> non trova il corrispettivo nell’età classica, e non dovrebbe trovarlo neppure in una visione organica attuale. Un tempo venivano usati due termini antitetici per definire lo stesso soggetto: da un lato, il vir – l’uomo nella sua essenza di ordine e di principio –, e dall’altro l’homo – nella sua accezione di individuo naturale, spontaneo, genericamente vegetativo. Il primo intimamente collegato all’essere, alla virtù trascendente, alla forma superiore, allo stile responsabile; il secondo coinvolto nelle esigenze dell’esistenza, nelle limitazioni della quotidianità, nel processo del divenire. Ed in questa differenza si esplicitavano anche le disuguali particolarità dei comportamenti personali.

Il passaggio da una forma all’altra – o meglio la definizione e l’arricchimento della forma vitale rispetto alla grossolanità esistenziale – avveniva attraverso la paideía, l’educazione permanente. Educazione, non istruzione. Altra differenza da sottolineare come denuncia di quel fenomeno che Evola ha definito “sfaldamento delle parole”. L’educazione era un dispositivo permanente attraverso il quale trarre fuori, fare emergere – ex ducere – le doti e le risorse di ciascuno, per altro diverse per qualità e quantità in ogni individuo; un processo e un metodo di coltivazione della propria interiorità e di modellamento del proprio carattere – il tutto seguendo delle linee invalicabili determinate dalla personalità. Educazione, perciò, come cultura animi, come crescita interiore rispetto a tutto ciò che è esterno, contingente, provvisorio, ben diversa dalla nostra “cultura estrovertita, coincidente con gli aspetti più noti della storia civile [che] può quindi essere guardata anche come progressiva deviazione della originaria cultura dell’anima”. E cultura dell’uomo – e della comunità – come condizione identitaria ineludibile, a differenza dell’infarinatura informativa della modernità. Perché – come sottolinea in più punti e in più occasioni Salvatore Inglese: “[La cultura] è un sistema che contribuisce alla <<costruzione del mondo>> di una persona… Non può esistere alcun processo psichico senza l’esistenza di un filtro culturale che ordina, governa e fornisce i principali strumenti di integrazione della persona con il mondo… La cultura non è dunque una sorta di <<capriccio>>  un accessorio secondario all’evoluzione umana. Essa non è un abito, né un colore, ma rappresenta il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano”. Altro che istruzione globalizzata o esaltazione delle conoscenze meticcie!

La cultura – trasmessa attraverso il dispositivo della paideía – puntava trasformare l’uomo della natura istintuale e vegetativa nell’uomo padrone di sé, nell’uomo con egemonikon – con un sovrano interiore formativo e differenziante. Ciò che l’esistenzialismo sartriano considera un ente privo di essenza innata, senza radici né storia, gettato in mondo estraneo entro al quale cercare il suo senso in una continua spinta in avanti e in un estenuante inseguimento di significato, per la visione organica ogni individuo rappresentava – per dirla alla Hillman – una propria <<ghianda>>, un daimon al quale corrispondere, un carattere al quale obbedire. Nella dissoluzione di questo ideale sta - simultaneamente come causa ed effetto – la desacralizzazione dell’uomo e della natura, la riduzione dell’uomo a progetto, e il valore dell’uomo nella riuscita temporale dello stesso.

 

Naturalismo, umanesimo, materialismo.

 

“Non c’è un diritto di natura,

 né un torto di natura”.

(Friedrich Nietzsche)

 

Un altro paradosso dello sfaldamento linguistico è l’invocazione dello stato di natura in contemporanea rivendicazione dei diritti universali e dell’uguaglianza per statuto. Niente in natura corrisponde alla superstizione egualitaria né, tanto meno, a degli astratti diritti condivisi. Tutt’altro. “(…) l’essere umano è essenzialmente un essere <<differente>>. (…) l’individualità viene data insieme con la particolare miscela dell’anima, con la complessità della sua composizione” – afferma Hillman – ed è proprio la connaturata diversità tra simili che costituisce – ed ha sempre costituto – la spinta al miglioramento individuale e della comunità di appartenenza. La <<ciascunità>> – come la definisce lo stesso Hillman – è quella particolarità complessa determinata da risorse personali, costituzione genetica, struttura caratteriale, organizzazione personologica, competenze apprese, opportunità conquistate che, oltre a rendere tutti gli uomini diversi uno dall’altro, permette ad ognuno di situarsi armonicamente all’interno di un proprio destino e di qualificare il proprio progetto di vita in un senso più elevato e più definito. La paideía, in pratica, non era che l’esercizio di ricerca di un significato personale alla vita e all’essere-nel-mondo, e in una certa misura è stata sostituita dal processo di individuazione di Jung: “(…) l’idea di individuazione ha un antico e nobile antenato. (…) Se ricostruiamo l’atmosfera dei nostri antenati greci, l’ideale che tende alla realizzazione dei potenziali naturali ci apparirà come eterno universale, cioè come un’idea archetipica”.

Tutto ciò non poteva essere tollerato in una deriva omologante e indifferenziante, per cui – con un notevole contorsionismo concettuale e un contemporaneo imbonimento del pensiero – si è passati dall’idea di natura selezionante e formativa ad una opinione di umanità mescolante e approssimativa. A quel punto, il vir e la comunità venivano trasformati in homo e società, facilitando le istanze vegetative dei soci e creando le condizioni favorevoli all’atomizzazione dei singoli e alla massificazione degli individui. Da lì, da quella distorsione verbale e intellettuale, nasceva il criterio di umanità, di questa entità astratta alla quale fare riferimento per altrettanto astratte leggi di natura e correttivi arbitrari. Ne “Il contratto sociale” Rousseau specifica, in una certa misura, questa condizione di anomalia: “Ma l’ordine sociale è un sacro diritto che serve di base a tutti gli altri: tuttavia non ha la sua fonte nella natura: dunque si fonda su convenzioni”10 . Intanto l’ordine sociale fondato su convenzioni non può essere – di per sé – un ordine sacro, ma necessariamente profano: l’ordo si rifà al cosmos, mentre l’ordinamento è un rimedio del caos; il primo rimanda alla trascendenza, alla gerarchia, ad una etica divina, ad una natura sacralizzata, mentre il secondo è fissato alla contingenza, all’organigramma, ad una norma di comportamento, ad un mondo secolarizzato. Poi, il diritto non può essere inteso come valido per tutti – esattamente come non possono essere codificati in eguale portata i doveri – in quanto la natura si fonda sul criterio del suum cuique, a ciascuno il suo, secondo direttive ideali e linee-guida sovraumane. Si può ben dire che una falsificazione del naturalismo ha portato alla distorsione umanitaria fino ai concetti di umanismo generalizzato, con la conseguenza di interpretare come primarie e discriminanti le pulsioni individuali e collettive a discapito di una ricerca personale e comunitaria di vette elevate per senso e per tensione. Da qui al materialismo il passo è breve – come sottolinea Hillman: “Il naturalismo scade facilmente in materialismo”11  – con la prevaricazione dell’intimismo, del superfluo, del transitorio, dell’opportunismo individuale e della collettività sfuggente contro lo stile della riservatezza, dell’essenziale, del permanente, della coerenza – fattori distintivi dell’uomo e della comunità organiche.

 

La razza sfuggente

e la patologia della modernità.

 

“Chi in questi tramonti cerca una colpa, cosa che io respingo, deve cominciare da se stesso. Il declino fu preceduto da un infiacchimento interiore. Lo si può cogliere nei caratteri, a partire da quello dei monarchi. Oltre un certo limite la morale non è più

 intrinseca all’azione, ma comincia a staccarsene e a indebolirla. In pari tempo sbiadisce il carisma”.12 

(Ernst Jünger)

 

Cercare delle motivazioni, dei peccati originali verso cui orientare un’analisi e un’eventuale assoluzione per la condizione che stiamo vivendo è un’operazione tanto fuorviante quanto inutile. Doveva andare così. Esistono dei tempi di ascesa e dei tempi di caduta, e il nostro è il tempo della caduta.

Una serie di coincidenze ha creato circostanze e dinamiche favorenti la deriva denunciata. In più, a conferma delle tesi dello Spengler, la modernità – quel progresso tanto decantato e il cui andamento viene interpretato nel senso di un positivo e roseo futuro – altro non è che la fine di un ciclo fisiologico della civiltà. Quante volte accade che un uomo in fase terminale sembri sul punto di riprendersi, tanto da far dire ai parenti: “Rispetto a ieri sembra rinato!”, per poi ricadere improvvisamente fino all’exitus. I tecnici conoscono questa possibilità, riescono a vedere oltre le apparenze, quindi non sono coinvolti in un ingannevole ottimismo. Lo stesso discorso vale per l’analisi sociale e politica dell’attualità. Per chi ha l’attitudine a comprendere gli eventi al di là dei fatti meccanici, la civiltà non viene percepita come un’organizzazione rispondente a leggi razionalmente esplicitabili, ma ad un organismo conforme a modificazioni della forma. Secondo le parole di Stefano Zecchi: “Le civiltà sono organismi viventi che crescono in una magnifica assenza di fini”13 , cioè rappresentazioni di un destino con valenze simboliche pregnanti anche il più insignificante avvenimento, e che quindi superano le semplicistiche interpretazioni sociologiche legate a parametri di funzione e di utilità. Come il vir e la comunità organica si inserivano a pieno titolo in quella idea di civiltà che aveva i suoi cardini nei “concetti di Simbolo e Destino”14 , così la moderna superstizione civilizzatrice “ha deriso e avvilito [questi concetti] credendo di poterli sostituire con quelli di Segno e Progresso”15 , proponendo l’homo e la società come simulacri di antichi splendori.

Su questa base di pensiero ben diversa è la valutazione dei fatti e dei fenomeni che interessano la storia della nostra attualità. Tutti i grandi dibattiti sulla violenza cittadina, sull’escalation delle aggressioni sessuali, sull’aumento delle patologie psichiche, sull’inarrestabile diffusione delle droghe fino ad arrivare alle denuncie della corruzione nei governi, delle guerre planetarie, della manipolazione genetica, del disastro ambientale e altro, fino alle minime considerazioni sulla quotidianità, assumono una valenza povera e limitata.

Ciò che sta accadendo è solo il complesso epifenomeno di un più profondo ed ampio disastro che ha ormai intaccato il nucleo essenziale del nostro mondo ed ha metastatizzato tutte le sue espressioni individuali e collettive. Si tratta di una totale e pervasiva mancanza di senso. Si potrebbe dire – in un azzardato riassunto della questione – che la mancanza di senso è la patologia della modernità. Questo uomo e questa società sono stati lentamente corrosi nell’unico paradigma essenziale del loro esistere: il valore trascendente della vita, e delle scelte in essa e per essa indispensabili. Dalla morale alla politica, dal comportamento individuale alle scelte collettive tutto è condizionato dall’egoismo contingente e dalla provvisorietà delle voglie. Non c’è un né disegno né una forma che incornici le motivazioni e le decisioni dell’uomo contemporaneo. La liberazione tanto esaltata altro non “significa [che] l’eliminazione di qualsiasi <<forma>> interna, di ogni carattere, di ogni drittura (…). Il risultato è il diffondersi di un tipo labile e informe (…)”16 . Questa condizione è stata studiata, voluta e perseguita dai moderni signori del potere. Ciò che i totalitarismi del XX parzialmente raggiunsero con le persecuzioni e le repressioni fisiche, la dittatura democratica del XXI secolo l’ha completamente ottenuto con la sedazione delle coscienze, con l’omologazione del pensiero, con la seduzione dello spirito. Eliminato ogni vincolo ed ogni rispetto – in altre parole, materializzato l’uomo e la natura con la scomunica del sacro – è stata prospettata all’uomo la possibilità che <<tutto sia possibile>>, e che <<se tutto è possibile, tutto è lecitamente dovuto>>. In questo modo è venuto meno un assunto essenziale, che “Se tutto sembra possibile, allora più niente è reale”17 : l’uomo vero, radicato, trascendente è stato sacrificato ad una umanità fittizia, fluida, accidentale.

Quanto stiamo vivendo è interpretabile come una voluta eterogenesi dei fini: proprio nel tempo e nel mondo del progresso, della ragione, della verità l’uomo è un ombra gettato in un’esistenza virtuale senza simboli e senza significato. E ritorna con puntuale precisione la più volte citata <<denuncia>> di Nietzsche: “Per quanto parli di economia, il nostro tempo è un dissipatore: sperpera la cosa più preziosa, lo spirito”18 .

 

 1 T. NATHAN, Princìpi di etnopsicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p. 40.

 2 Cfr. F. FUREDI, Che fine hanno fatto gli intellettuali?, Raffaello Cortina, Milano, 2007.

 3 J. EVOLA,  L’arco e la clava, Mediterranee, Roma, 2000, pp. 47-58.

 4 Cfr. L. ZOJA, Individuazione e paideía in Coltivare l’anima, Moretti&Vitali, Bergamo, 1999, pp. 81-108.

 5 Ivi, p. 88.

 6 S. INGLESE, (Introduzione a) Principi di etnopsicoanalisi, cit., p. 15.

 7 F. NIETZSCHE, Il viandante e la sua ombra in Umano, troppo umano, Mondadori, Milano, 1976, vol. II, n. 31, p. 143.

 8 J. HILLMAN, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano, 1983, p. 162.

 9 L. ZOJA, Individuazione e paideía in Coltivare l’anima, cit., p. 107.

 10 Cfr. J-J- ROUSSEAU, Il contratto sociale, Laterza, Roma-Bari, 1992.

 11 J. HILLMAN, Re-visione della psicologia, cit., p. 158.

 12 E. JÜNGER, Il problema di Aladino, Adelphi, Milano, 1985, p. 16.

 13 S. ZECCHI, (Introduzione a) O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente, Guanda, Parma, 1991, p. XI.

 14 Ivi, p. XIV.

 15 Ivi, p. XIV.

 16 J. EVOLA, L’arco e la clava, cit., p. 30.

 17 M. BENASAYAG / G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 23.

 18 F. NIETZSCHE, Aurora, Adelphi, Milano, 1980, Libro III, 179, p. 130.