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Il libro della settimana: Teodoro Klitsche de la Grange, L'inferno dell'intellettuale

di Carlo Gambescia - 25/07/2007

Il libro della settimana: Teodoro Klitsche de la Grange, L'inferno dell'intellettuale, Nuove Idee, Roma 2007, pp. 80, euro 10,00

Teodoro Klitsche de la Grange, giurista, politologo, avvocato e direttore del trimestrale “Behemoth”, conduce, da sempre, una sua guerra personale e intellettuale, contro il “perfettismo”. O per dirla giornalisticamente, contro il buonismo.
I lettori ricorderanno sicuramente la sua gustosissima Apologia della cattiveria (Liberilibri 2003), dove già accennava a quel costume politico, di certa sinistra pseudodemocratica, che tutto assolve e perdona (perché gli uomini sarebbero costitutivamente buoni…), pur di giungere al potere. Per poi, una volta agguantatolo, togliersi la maschera buonista. Se ci si passa la caduta di tono, Prodi, probabilmente, ne è l’uomo-simbolo, oggi in Italia: con quei modi (apparentemente) bonari, da pacioso parroco di campagna. Salvo poi tagliare le pensioni e aumentare le tasse…
Ovviamente, l’ottica di Klitsche de la Grange è quella del raffinato giurista, che conosce a fondo i meccanismi istituzionali che regolano il funzionamento della società umane. E qui va ricordato un altro suo libro, molto bello, di qualche anno fa, Il doppio stato (Rubbettino 2001), dove a proposito di maschere giuridiche, politiche e sociali, aveva notato come lo stato moderno continuasse a reggersi su un doppio registro, quello del duplice diritto: praticato e proclamato; il primo nelle mani delle burocrazie giudiziarie; il secondo in quelle dei riformatori liberal-democratici, più o meno, bene intenzionati. Ma sia gli uni che gli altri, tutti profondamente consapevoli, che dietro la maschera benevola dello stato di diritto, si annidano sempre concreti, e spesso egoistici, interessi. E dunque, la possibilità stessa del conflitto, anche se seminascosta dietro il moralismo di giudici e politici.
In Klitsche de la Grange, insomma, è sempre presente il ricco lascito della scuola realista: da Machiavelli a Hobbes, da Schmitt a Freund, solo per fare alcuni tra i nomi più importanti. La sua pagina è sempre ricca di puntuali riferimenti a una scienza giuridica e politica, libera da sogni perfettisti. O meglio incubi, volti a scorgere nel diritto, parafrasando Marx, un’arma, e non solo in senso figurato, non per interpretare il mondo, ma per cambiarlo in una specie di Paradiso in Terra. Di qui, ripetiamo l “antiperfettismo” di Klitsche de la Grange , e quel suo gusto, così paretiano, di decostruire le derivazioni (o ideologie), tese a coprire i reali moventi umani. Motivazioni che, purtroppo, non sempre sono ispirate dall’amore per il prossimo. Ma molto spesso dalla volontà di potenza. Che, ama sempre celarsi dietro ideali nobili e modi suadenti: “buonisti, per farla breve.
In quest’ultima fatica, L’inferno dell’intellettuale (Nuove Idee, Roma 2007, pp. 80, euro 10,00), riteniamo che, pur nei limiti di un piccolo volume, Klitsche de la Grange, dia il meglio di sé. E, tra l’altro in una forma narrativa godibilissima: quella del dialogo tra il giudice e l’imputato. Tuttavia non in questo Mondo, ma nell’Altro. Ci spieghiamo meglio, riassumendone la trama.
Un intellettuale italiano postcomunista (ma la figura è universale), muore e finisce davanti al Minosse, celebrato dagli antichi e da Dante: un giudice inflessibile, che deve decidere il suo destino ultraterreno, aprendogli una delle porte, non dell’Ade, ma dell’Inferno dei cristiani. Quella che conduce al girone dantesco, dove secondo la legge del contrappasso, dovrà scontare le colpe di cui si è macchiato in vita. Bene, il libro si dipana tutto intorno al dialogo tra Minosse e l’intellettuale dannato, che cerca in qualche modo di giustificarsi. Il confronto tra i due, non è altro che un sapiente distillato di storia e teoria della politica. Diremmo, quasi un corso accelerato in argomento, però di livello post-universitario, ma vivacissimo e brillante, a differenza di tante noiose e mediocri lezioni accademiche.
L’intellettuale postcomunista, prova a discolparsi, invocando proprio il suo “buonismo”: il suo essersi prodigato a favore della liberazione dell’umanità in nome della causa comunista. Ma alla domanda di Minosse, sui milioni di morti provocati, l’ “imputato” tace, come a scrollarseli di dosso. Né risponde in modo sincero, su quel suo essersi abilmente “riciclato”, dopo la caduta del comunismo, continuando ad accumulare nell’Italia degli anni Novanta, onori e incarichi ben retribuiti. L’ “imputato”, infatti, asserisce ipocritamente di essersi schierato, in quel periodo, come nel passato, dalla parte della legalità: una legalità, come gli fa notare ironicamente Minosse, congiunta a un finto moralismo a senso unico, da usare esclusivamente contro gli avversari politici. Insomma, una vita, quella dell’ “imputato” trascorsa ad ingannare se stesso (ma fino un certo punto, secondo il “giudice”) e soprattutto gli altri. Sperando, di riuscire così a costruire sulla menzogna, la società degli uomini liberi: di edificare il bene con il male.
Il che, per il realismo politico, entro certi limiti può essere accettato (soprattutto quando si tratta di male minimo, e non certo del massacro di milioni di persone): gli uomini non sono angeli. Tuttavia, come rileva Minosse, è possibile “cambiare regime politico, ma non decidere di uscire per sempre dalla politica ( e dalla storia)”: pretendere di coniugare il massimo del realismo politico con il massimo dell’utopia. Perché così si finisce sempre per aprire la strada a una pratica politica, dove in nome del sogno rivoluzionario tutto è ammesso: gulag, massacri, guerre.
La politica ha le sue leggi e l’uomo la libertà di scegliere: ecco il nodo. Se l’uomo rinuncia a fare i conti con entrambe, rischia di entrare nel circolo vizioso della menzogna e dell’utopia. Perché finisce con l’ignorare che il politico (come conflitto e decisione), tende a riproporsi in ogni tipo di società, anche in quella comunista. Con la differenza, che dove non c’ è libertà, come nella società totalitaria, l’uomo resta privo di difese, dinanzi al politico trasformatosi in Stato-Leviatano.
Ci sembra una lezione interessante, sulla quale riflettere. Mentre sulla pena a cui verrà condannato l’intellettuale postcomunista, preferiamo non dire. Lasciamo che sia il lettore di questo denso libretto, a scoprirlo.