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L’ultima guerra dei reduci

di Antonio Airò - 25/07/2007

La Seconda guerra mondiale ha costituito un momento di particolare crisi per la società italiana e in particolar modo per i combattenti. Durante gli anni della guerra, infatti, questi si trovarono a dover far fronte alla sconfitta, a cambiamenti di alleanze e alla dolorosa esperienza della guerra civile, con notevoli ripercussioni anche a guerra finita. Il cosiddetto fenomeno del reducismo è ricostruito per la prima volta nel suo complesso da Agostino Bistarelli nel suo ultimo saggio.
L’autore descrive come società e istituzioni interagirono nel determinare le condizioni degli ex combattenti, in tutti gli aspetti - morali e materiali - della loro vita.


Due società convivono nel tormentato e tragico periodo che va dall’8 settembre alla conclusione della guerra e al drammatico e teso dopoguerra, dal cambio di alleanze ( prima con i tedeschi poi con gli alleati ) con le accuse di tradimenti reciprochi, alla Resistenza contro il nazifascismo nel quale si incrociano «guerra patriottica e guerra civile», dalla difficile nascita della Repubblica all’emergere fin dall’inizio della “partitocrazia” mentre si avvia con fatica il processo di ricostruzione del Paese. La prima è la società civile che vede la gente comune cadere sotto i bombardamenti continui ( e spesso inutili), devastata dalla fame, saccheggiata dalla borsa nera, vittima innocente delle stragi, delle rappresaglie, di innumerevoli crudeltà perché «con l’armistizio non finisce la guerra, non comincia la pace». La seconda società è quella dei reduci. Un universo di 4 milioni e mezzo di persone. Un universo giovane «generazionalmente fascista». Un universo che, per la prima volta nella sua storia, come ha rilevato la storica Bianca Ceva, aveva combattuto quasi sempre fuori dal territorio nazionale «in terre nuove, in mezzo a genti nuove, dinanzi a paesaggi inconsueti». Un universo composito e frantumato nel quale, nel momento della dissoluzione dell’esercito (ed anche delle istituzioni) che fa parlare di «morte della patria», si ritrovano i militari italiani prigionieri degli anglo americani, i nostri soldati prima disarmati dai tedeschi e poi deportati in Germania. In totale un milione e 300.000 uomini che, finita la guerra, «dovevano tornare dalla prigionia nelle diverse forme alla vita civile con tempi e modi di rimpatrio differenti e graduati» comprendendo nel numero anche i rifugiati in Svizzera, quelli che avevano partecipato alla Resistenza non solo in Italia ma a anche in Europa, gli invalidi, militari e civili, per cause di guerra. E ancora: i soldati del Corpo italiano di liberazione, i deportati politici e gli ebrei (solo 1009 tornarono dai lager) i partigiani e i ribelli veri e propri e per concludere gli uomini e anche le giovani che avevano scelto di arruolarsi nei vari corpi della Repubblica di Salò. Ma cosa pensavano? Cosa provavano questi reduci che tornavano in Italia con il loro bagaglio di esperienze, di ricordi, di frustrazioni, ma anche con la loro rabbia che li spingeva «a chiamarsi fuori dalle responsabilità della guerra»? Il Paese che trovavano non era quello che avevano lasciato. E non solo per la fine del regime fascista che, negli anni del conflitto, si stava rivelando sempre più inaccettabile. Quel certo orgoglio dell’essere stati combattenti durante la Grande Guerra (e che in qualche modo aveva resistito nel ventennio ) sembra trovare ora orecchie sorde tra la gente. I reduci si chiudono nel silenzio. Vogliono dimenticare Cefalonia, la svolta di Salerno, le fosse Ardeatine, e tutte «le tremende cose» che invece avevano spazio nella letteratura, nel cinema, nell’arte del tempo. I reduci, anche quelli che per la loro scelta ideologica parlavano del «tradimento» compiuto dall’Italia, vivono in una sorta di «spaesamento», di estraneità dalla società italiana. Per la pesante situazione economica del Paese, non riescono a trovare il lavoro che si attendevano (e che spesso debbono contendere anche con momenti di violenza con gli operai e i braccianti di altre parti d’Italia) e in migliaia sono costretti all’emigrazione. Un famoso testo di Eduardo De Filippo, nella primavera del 1945, mette in bocca al reduce Gennaro una frase significativa «nun è guerra, è n’ata cosa... ccà nisciuno ne vo’ sénte parlà». Un altro intellettuale, Oreste Del Buono avrebbe scritto: «La prigione faceva tutti soli, e ad unire era la vergogna, lo sconforto, la condanna. A unirci è una condanna, ma non si può credere alla memoria, a questa dolcezza convenzionale dei ricordi». Finora questa esperienza del reducismo, nella sua frantumazione e nella sua perdita anche di identità, non ha trovato sul piano della ricerca una adeguata attenzione. In parte questa lacuna viene colmata ora dallo storico Agostino Bistarelli in un volume complesso e anche di non facile lettura, che si sofferma ampiamente sulle vicende delle associazioni dei combattenti, partigiani, repubblichini e sui provvedimenti legislativi e assistenziali assunti. [...]

Agostino Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani nel secondo dopoguerra, Bollati Boringhieri, pp. 270, € 25,00.