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E' finito il nostro carnevale (recensione letteraria)

di Michele Ferraro - 26/07/2007

   

Autore: Fabio Stassi
Titolo: E’ finito il nostro carnevale
Edizioni: Minimum fax, 2007
Pagine: 244

E’ il 31 dicembre del 1999 alla base Amundsen-Scott in Antartide, e un antiquato apparecchio a nastri registra l’intervista che un uomo rilascia a una giornalista. La trascrizione dell’incontro è il racconto della vita di Rigoberto Aguyar Montiel, straniero senza patria nelle cui vene scorre sangue brasiliano, francese, catalano, arabo, africano, ebreo e greco, nella cui famiglia in due secoli si sono avvicendate almeno undici lingue diverse, cinque religioni, quattro continenti, tre isole e quattordici emigrazioni, e che per cinquantatre anni ha inseguito la coppa Rimet, la statuetta alata d’oro zecchino destinata a premiare il vincitore del mondiale di calcio dalla prima edizione in Uruguay nel 1930.
Il calcio è un epicentro di questo bel romanzo, che ripercorre i campionati del mondo dal 1930 al 1970. E’un calcio d’altri tempi; un calcio impastato d’ironia, di rabbia, di umanità; un calcio che è ancora un lavoro umile e delicato come quello dei calzolai; un calcio che è un articolo di giornale, la voce di chi lo racconta, una geografia distante.
Le vittorie italiane firmate Pozzo e Piola, la classe e la tenacia di Schiaffino e Varela, l’ordine e la precisione di Nordhal e Liedholm, la prorompente forza fisica di Eusebio, il genio e la fantasia di Garrincha, Pelè e del grande Brasile del 1958, il sinistro al fulmicotone di Gigi Riva rivivono nelle righe tratteggiate da Stassi. E l’Ungheria di Puskàs torna la meravigliosa squadra che sul terreno di gioco combatte la lotta secolare tra socialismo e capitalismo, una squadra fiera di esprimere la vitalità dell’ideale socialista, il valore del collettivo, la ventata libertaria delle ali, e che dimostra per contrasto quanto è arroccato e sterile il gioco delle nazionali europee e occidentali, a difesa dei propri interessi imperialisti. Il calcio diventa metafora della politica, il calcio è la chiave per comprendere il secolo che sta per chiudersi.
Si, il Novecento…. altro epicentro del libro, con i tragici eventi che hanno sconvolto e cambiato per sempre vite e coscienze. La seconda guerra mondiale, l’olocausto, la resistenza, passando per la guerra di Corea, Truman e la rivoluzione cubana; l’assassinio di Martin Luther King e il Vietnam, il Cile, la contestazione studentesca del 68, le congiure della CIA, le scomuniche, gli embarghi e la grande politica estera dell’Occidente; e i dittatori appoggiati dagli Stati Uniti negli ultimi cinquant’anni, con cui si potrebbe fare una squadra di calcio….e che selecao marziale sarebbe!
E le rivolte e le rivoluzioni contro le ingiustizie e i soprusi; e la vitalità e la stringente necessità dell’impegno politico, l’urgenza di scendere in campo per cambiare le cose, perché morire è meglio che perdere la vita.
Contro la società delle automobili, dello spettacolo e dei consumi, contro ogni villaggio che bugiardamente comincia a dirsi globale, mentre la verità è che di globale c’è solo la miseria.
E per la vita umana, che dovrebbe avere lo stesso valore dappertutto, sia che appartenga a un turista occidentale o a un operaio colombiano o a un indiano annegato in un fiume o a un africano schiattato di fame, stigmatizzando i due pesi e le due misure con cui si stimano gli uomini e si contano i morti.
Tanti epicentri, tanti strati si sovrappongono.
L’amore, la passione e il desiderio, autentici motori delle azioni e delle gesta umane.
Il destino, che sembra inevitabilmente scritto, ma può cambiare per un episodio o per uno sguardo, così come recuperi miracolosi, traverse, goal sfiorati d’un soffio, parate improbabili o semplicemente una pozzanghera che ferma un pallone diretto in porta possono mutare il corso di una partita.
Realtà e finzione, che si intrecciano nella coesistenza di personaggi realmente esistiti come Ernest Hemingway, Charlie Chaplin, Tom Jobim, personaggi letterari come l’ispettore Maigret, e i protagonisti del romanzo.
Letteratura e musica, con la chitarra gitana di Django Reinhard e la bossanova di Vinicius de Moraes, che rappresentano meglio di un qualsiasi trattato la vita stonata e sempre in ritardo dei brasiliani, il cui cuore pulsa in levare e batte perennemente un tempo dispari.
Ma forse il vero epicentro è la nostalgia, nostalgia di un tempo in cui "la vita era piena di goal e si moriva meno per incidenti d’auto e più per un futuro imperfetto", nostalgia di un tempo in cui, viaggiando, le cose si trattenevano senza doverle fotografare, nostalgia di un calcio e di un mondo che avevano un alone romantico e che negli ultimi anni hanno perso qualcosa di importante.
Il carnevale è finito e ha lasciato il posto alla società dello spettacolo perpetuo, all’iterazione di eventi ripetitivi, alle accelerazioni isteriche che tutto triturano e divorano, ai ritmi ossessivi di economia e televisione, che ci rendono sedentari spettatori del movimento altrui.
E’ finito il nostro carnevale, ma rimangono le pagine di Stassi, delicati frammenti di poesia che alleviano per un po’ il nostro dolore.