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Sindacati? Da loro non mi farei difendere.

di Michela Murgia - 04/08/2007

 

 
Una precaria racconta la lontananza dalle organizzazioni tradizionali
Lo ammetto: da precaria in un call center l'ultimo posto dove avrei pensato di andare a farmi difendere sarebbe stato il sindacato. Come me la pensavano anche i miei precari colleghi e non c'è da stupirsi, visto che il contratto a progetto, ricattatorio per sua natura, scoraggia volentieri qualunque tentativo di negoziazione organizzata. Per il precario di frontiera rivolgersi al sindacato equivale ancora ad andare in cerca di guai, e il temerario passo viene contemplato come estrema ipotesi solo quando il rapporto di lavoro si è già logorato e non c'è più nulla da perdere.

Non a caso "mi rivolgerò al sindacato" è la frase preferita del lavoratore atipico appena licenziato, quello stesso che durante il periodo di occupazione non ha mai neppure pensato di far capo alle organizzazioni di categoria. Perché a dire il vero il cosiddetto lavoratore flessibile una categoria non ce l'ha, a parte la sua stessa precarietà. Infatti capita spesso che, se chiedo a qualche coetaneo che lavoro fa, mi risponda: "Sono precario", come se confrontarsi con gli equilibrismi della flessibilità fosse talmente faticoso da fare mestiere a sé. I trentenni di oggi sono la prima generazione a definirsi non con la propria competenza professionale, ma attraverso una tipologia contrattuale che ha livellato in maniera trasversale sia le speranze del ricercatore universitario che quelle della telefonista, lasciandoli entrambi sullo stesso piano di incertezza.

Questo trend, con buona pace di chi come me sperava in un ridimensionamento della legge Biagi, non sembra affatto volersi invertire, per cui non è strano che, in un contesto dove le categorie non esistono più e la sopravvivenza professionale è percepita in modo forzatamente individualista, i sindacati con i loro meccanismi corporativi continuino a essere letti come entità astratte e al servizio di chi i diritti li ha già. Le organizzazioni sindacali del resto non hanno fatto molto per smontare questa percezione.
Alcune sigle non contemplano nemmeno piani specifici a supporto di quelle che, con un po' di ipocrisia verbale, vengono chiamate 'nuove identità lavorative'; chi li contempla continua a rapportarsi ai lavoratori a progetto nel solo modo che conosce: tentando di stabilizzarli.

Sarebbe comprensibile e in apparenza anche auspicabile, se non fosse che certi nuovi lavori (la telefonista commerciale non è l'unico esempio) hanno condizioni strutturali così alienanti che il loro unico aspetto positivo è proprio quello di non durare per sempre; e forse è tempo di fare i conti con il fatto che molti possano trovare vantaggioso fare lavori temporanei in determinati momenti della loro vita, senza per questo dover essere costretti a barattare questo beneficio con i diritti più elementari. In un contesto in cui non esiste più un motivo ideologico per farsi rappresentare sindacalmente, i precari potrebbero fondare la loro fiducia solo sulla capacità dei sindacati di liberarsi dei vecchi schemi per giocare alle nuove regole.