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Perché piccolo è bello

di Michele Vignodelli - 15/12/2005

Fonte: filosofia-ambientale.it

Come per ogni società urbana da millenni a questa parte, ma più di ogni altra, la nostra è una cultura di grandeur: la sua stessa sopravvivenza economica si basa su una crescita continua della produzione di beni e servizi, anzi, sulla pura e semplice aspettativa della sua realizzazione, un meccanismo autoalimentante insito nel denaro, nelle azioni e in altre innumerevoli moltiplicazioni speculative create a getto continuo. La nostra enorme ricchezza è per la maggior parte solo potenziale e cartacea, costituita com’è dalla fiducia nell’espansione futura: se venisse meno questa fiducia tutto crollerebbe. Anche l’Impero Romano affogò nei debiti quando la sua espansione territoriale e burocratica raggiunse i limiti strutturali di quel livello tecnologico (ancora privo di combustibili fossili).

Lo sfondo filosofico implicito nel nostro vissuto economico quotidiano è quello di un immenso Dio onnipotente, onnisciente, eterno e infinitamente buono, verso cui ci siamo continuamente sollevati a partire dalla “bruta animalità” delle origini. “Di più” è sempre “meglio”. Ma quell’equilibrio incredibilmente complesso che chiamiamo vita, intelligenza, umanità può davvero espandersi indefinitamente, come un’amorfa chiazza di muffa, senza collassare e disperdersi? Altre culture, oggi minoritarie e quasi estinte, avrebbero certamente risposto in modo negativo.

La religiosità ancestrale, tipica dei raccoglitori nomadi, non concepiva nessun ente astrattamente “superiore” o “perfetto” a cui dovere totale obbedienza, così come non concepiva l’idea della subordinazione nell’ambito della comunità. Le presenze spirituali non erano superuomini dominanti, ma misteriose forze naturali con cui confrontarsi alla pari; la comunità è un’associazione fluida di adulti liberi e autonomi, in cui ognuno è il “capo supremo” di sé stesso. Il singolo è il giudice e la misura ultima della realtà. Come intuì il mistico Meister Eckhart, rischiando il rogo, se esiste un Dio supremo allora ognuno di noi, pur con tutti i suoi limiti, è l’unico vero Dio di sé stesso, perché è l’estremo giudice umano di tutto ciò che scorre davanti ai suoi occhi, compresa la saggezza e la bontà di qualsiasi preteso capo o dio distinto da sé stesso. Egli espresse in forma teologica la fisiologia psicologica dell’adulto della specie umana, con prevedibili conseguenze nell’ambito della chiesa medievale, tutta protesa ad infantilizzare le persone in automi obbedienti. Il nostro stupire di fronte a ogni qualità molto spiccata è già sorridere del suo grottesco, fanatico eccesso; ogni santino è di per sé una caricatura umana. Così funziona la mente umana sana e adulta, ironica e autoironica. La filosofia implicita è evidente, nella percezione “taoistica” che ogni possibilità esaltante è in sé un potenziale eccesso: il cacciatore troppo abile impoverisce la fauna, l’uomo troppo generoso vuole sedurre e dominare. I nostri innumerevoli limiti individuali sono la nostra vivente, completa forma umana, non l’espressione di una infima nullità. “Dove non ci sono limiti, né tempo, né penuria”, scrisse L. Feuerbach, “non c’è qualità né energia, non c’è spirito, né fuoco, né amore. Un ente senza limiti è un ente senza forma”.

Per essere veramente intelligenti, nel senso più pieno che noi diamo a questa parola, per essere sensibili e reattivi di fronte all’universo che ci circonda, bisogna essere anche piccoli, fragili e limitati. E’ ormai quasi un luogo comune la constatazione che se Dio è onnipotente e onnisciente non può essere buono, non può amarci, soffrendo delle nostre sofferenze, e, in realtà, non può fare o provare alcunché. Essere troppo consapevoli identifica con tutto quello che accade e le immancabili ragioni che lo rendono necessario, annulla la possibilità di avere una soggettività reattiva, e quindi, alla fine, la consapevolezza stessa: la vita evapora nel tutto, e quindi scompare. Immortalità e onnipotenza implicano intangibilità e quindi totale indifferenza, fino all’assenza di qualsiasi possibile sensazione, emozione e pensiero.

I tecnocrati di oggi hanno gioco facile ad inculcarci un nuovo, profondo senso di inerme soggezione nei confronti del computer, come efficace sostituto dei defunti tiranni-eroi del passato, magari dando epiteti numinosi come “Deep Blue” a macchine capaci di battere il campione mondiale di scacchi. Ma una grande intelligenza non è semplicemente un “cervello molto più grosso del nostro” come credono ingenuamente gli scienziati “transumanisti” che vedono il ruolo di un Dio trascendente e onnipotente in un megacomputer del prossimo futuro. L’intelligenza dipende essenzialmente anche dalla varietà di interazioni critiche con l’esterno e quindi dalla molteplicità di rischi e opportunità decisive con cui si interagisce. I formidabili robot che vedranno la luce di qui a qualche decennio saranno semplici appendici passive, dipendenti e replicabili del superorganismo urbano e quindi non potranno mai avere una intelligenza autonoma e assertiva di tipo “soggettivo”. Perché questo avvenga essi dovrebbero essere il prodotto di un processo evolutivo indipendente, pseudo-biologico. Dopo innumerevoli delusioni, cominciano a rendersene conto anche gli esperti di intelligenza artificiale: memoria e rapidità di calcolo servono a ben poco se non c’è un “cuore”, e per averne uno bisogna essere autonomi e insieme altamente vulnerabili, in una compressa reattività integrata costruita in milioni di anni di fughe riuscite e di morti per fame scampate per un soffio, all’interno di un ambiente complesso. Un’entità genetica che non rischia a ogni minuto di morire per aver messo un piede in fallo sulla complicata superficie terrestre o per aver inghiottito una bacca della forma sbagliata non potrà mai essere davvero intelligente, anche se avesse a disposizione milioni di teraflops di velocità di calcolo e tutta la memoria del mondo. Anzi, oltre una certa soglia l’incremento quantitativo di qualsiasi fattore dimensionale di potenza diventa chiaramente un ostacolo, dal momento che implica una sostanziale invulnerabilità nei confronti delle intricate complessità dell’ambiente fisico e sociale esterno. Come disse Pascal “l’uomo non è che un giunco, ma è un giunco pensante”; ciò che il filosofo non aveva colto è la stretta, fondamentale correlazione tra questi due elementi, tra la nostra “grandezza spirituale” e la “miseria materiale” che per lui costituiva solo una penosa contraddizione, da sciogliere al più presto nella morte redentrice. “Quand’anche l’universo intero lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che l’uccide, perché egli sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui; l’universo invece non ne sa nulla”, e non può sapere. E’ quasi incredibile osservare come i più acuti filosofi e scienziati delle società urbane, accecati dal loro  delirio espansionistico, non riescano a vedere una realtà che è giusto sotto il loro naso. Il miracolo dell’intelligenza, come quello della vita, cristallizza entro limiti molto precisi, in un piccolo cranio confinato in un grande e ricco ambiente esterno che la stimola e la comprime in molti modi complessi: una crescita spropositata a scapito della diversità ambientale finisce per farla evaporare nel nulla. Nel nostro tracotante delirio faustiano noi crediamo invece che, dato che la vita ama il calore, allora il “Sole” di un megacomputer planetario sarà mille volte più ricco e vivo della Terra (così come credevamo che un essere “onnisciente” e “onnipotente” fosse migliore di noi), mentre in realtà è solo uno stupido magma ribollente chiuso su sé stesso.

C’è una correlazione largamente positiva tra dimensioni e intelligenza, ma essa si inverte (guarda caso) proprio in corrispondenza di noi esseri umani. Le balene più grandi hanno un corpo enormemente più voluminoso del nostro, ma sono meno “intelligenti” persino dei delfini, che condividono lo stesso habitat acquatico. I dinosauri più intelligenti non erano i giganti, ma quelli grandi all’incirca come un uomo. Gli elefanti, pur essendo animali sociali di enormi dimensioni e capaci di manipolazioni fini, evolutisi in un habitat molto simile al nostro, sono meno intelligenti di noi (seppure di poco). A un certo punto, diventando sempre più grandi e potenti, la possibilità di avere interazioni cruciali e significative con un ambiente complesso comincia a ridursi in modo esponenziale, dato che un alto livello di diversità biologica e ambientale si mantiene solo fino all’intervallo di dimensioni di 10-50 centimetri. Le nostre dimensioni sono ancora abbastanza piccole da consentirci interazioni critiche con innumerevoli specie singole di insetti, di funghi e di piante erbacee, oltre che con la tessitura fine della geologia terrestre: è questa la vera fonte della nostra intelligenza. Non potendo più rapportarsi in modo decisivo con la massima concentrazione di diversità, l’interazione con l’ambiente tende rapidamente a semplificarsi, e l’intelligenza comincia a dissolversi. A una grande balena basta semplicemente spalancare l’enorme bocca e ingoiare indiscriminatamente tutto il contenuto dell’oceano, mentre nessun predatore è in grado di minacciarla. Ricordo un divertente cartone animato degli anni cinquanta in cui, come al solito, un gatto inseguiva disperatamente un topo; il topo però scopre che bevendo un fertilizzante può diventare di colpo ben più grosso del gatto. Il gatto è terrorizzato, ma si procura lo stesso fertilizzante e diventa grosso come un cavallo. La folle rincorsa prosegue fino a quando entrambi riescono a malapena a restare seduti sul pianeta: a quel punto non sono più un gatto e un topo, ma due immense mongolfiere identiche, informi e immobili, schiacciate una sull’altra, assolutamente inutili e morte, anche se salutano con la manina per l’happy end di prammatica. I formidabili sistemi organici integrati che li costituivano come esseri viventi servivano a compiti complessi come cacciare i topi e fuggire i gatti: erano queste pressanti, molteplici limitazioni ambientali a renderli vivi e reattivi.

Il nostro apparato manipolativo e comunicativo occupa superfici e volumi compresi tra il millimetro e il metro (non nanometri o chilometri): da questa misura, capace di rapportarsi con la massima concentrazione di diversità dell’universo, nasce il contenuto della nostra mente, che, quindi, è costruito dal nostro corpo. Allo stesso modo, il tono e il ritmo del nostro intenso rapporto con il mondo si dipana su un arco compreso tra i minuti e i decenni, non microsecondi o millenni, confrontabile con la durata di eventi meteorologici decisivi, stagioni, migrazioni, di quasi tutti gli animali, gli alberi e le piante erbacee. Lo spessore decisivo dei nostri atti è collegato a questa straordinaria complessità solo perché non abbiamo infinite occasioni per ripeterli o la possibilità di dilatarli troppo: se avessimo a disposizione un tempo lunghissimo ci afflosceremmo in una totale dispersione della nostra carica vitale e la nostra intelligenza si “raffredderebbe” notevolmente. La nostra viva sensibilità cosciente è essenzialmente collegata alla nostra limitatezza cronologica e spaziale, all’interno di un ambiente complesso, sconosciuto, stimolante e pericoloso come la Terra vivente. La morte, non meno della nascita, è la fonte della vita, insegnava il vecchio yaqui Don Juan: si è vivi solo perché si muore (e si muore sul serio, non per finta). Il tempo finito che abbiamo alle spalle disegna i nostri lineamenti e il nostro carattere, esattamente come la pelle che racchiude il nostro volto. Essere una soggettività reattiva e sensibile richiede una natura essenzialmente puntiforme, vulnerabile ed effimera.

A quanto pare noi esseri umani ci troviamo esattamente al limite superiore di encefalizzazione compatibile con la massima diversità dell’ambiente più complesso dell’universo: la biosfera terrestre. L’aver toccato questo limite ci ha già precipitato in una spirale devastante di omologazione planetaria che sta impoverendo e semplificando il nostro mondo a ritmi forsennati, distruggendo le basi stesse per altre intelligenze future. Sulla base del cosiddetto “principio antropico”, largamente accettato dalla fisica moderna, le dimensioni intellettive umane sono l’estremo compromesso possibile anche per un’altra, decisiva ragione: il fatto che la soggettività cosciente si è manifestata proprio in questa forma, anziché in quella di un insetto, di un’entità extraterrestre, di una biosfera planetaria, di un megacomputer del futuro o dell’intero universo. Il fatto che noi apparteniamo alla specie psichicamente più complessa tra i molti milioni che hanno vissuto sulla superficie di questo pianeta rende estremamente improbabile l’esistenza di esseri più sensibili anche in tutto il resto dell’universo (siano essi alieni, robot o dei). Non è certamente un caso che la soggettività si trovi in questo nostro “limitato” campo psicologico e sociale, in un angolo remoto di una galassia sperduta; così come evidentemente non è un “caso” che siamo esseri umani e non un’altra tra i miliardi di specie sensibili presenti sulla Terra e fuori, nel passato e nel futuro. In effetti è assolutamente impossibile anche solo immaginare un essere vivente veramente “superiore”, se non attraverso delle finzioni retoriche, in cui si mette tra parentesi l’irriducibile, abissale centralità della nostra coscienza.

L’essenza della vita è fatta quindi anche di puntiforme piccolezza, di limiti che danno una forma e degli scopi, a cominciare dalla “breve” durata dell’esistenza; la perfezione, come pienezza umana, non è quindi il loro superamento, ma la loro ottimizzazione in un armonico equilibrio naturale di ingenuità e di esperienza, di passione e di distacco che dà alla mente umana il suo tono caratteristico. Solo una disperata, dolorosa regressione paranoide, conseguente a un profondo trauma ambientale, ha potuto farci dimenticare questa saggezza geneticamente presente in ognuno di noi, ed è quello che è avvenuto a partire dalla fine del Paleolitico. L’idea perversa del “di più è sempre meglio” si è insinuata profondamente nella cultura proprio con la rivoluzione agricola, essendo espressione caratteristica della strategia adattativa delle erbe annuali, compresi i cereali domestici; una strategia di saturazione che è radicalmente opposta a quella degli organismi più complessi e più intelligenti, i quali tendono a seguire una strategia di equilibrio.

Da allora abbiamo cominciato a sentirci disperatamente piccoli, fragili, limitati, imprigionati nell’animalità dell’istinto, identificando il Bene assoluto nella massima espansione materiale e morale: ricchezza infinita, vita eterna, dominio assoluto, sapere assoluto, amore assoluto. Ovvio quindi immaginare che esistessero da qualche parte, forse nascosti dietro le nuvole o in remote montagne, esseri umani totalmente perfetti, eterni e onnipotenti a cui dovere obbedienza assoluta e totale, per ricevere assoluta protezione. Diventammo così ferocemente avidi ed invidiosi, anche e soprattutto nei confronti di quei Capi e Dei che eravamo costretti a venerare ed adulare, pronti a dileggiarli di nascosto, spesso persino a noi stessi.

Michele Vignodelli

Michele Vignodelli è un naturalista esperto in ecologia vegetale ed etnobotanica.
Ha pubblicato diversi lavori scientifici, il più importante dei quali é l'Atlante delle felci dell'Emilia Romagna, di cui è coautore (Regione Emilia Romagna, 2001).
Recentemente ha esteso le sue riflessioni ai risvolti storico-filosofici del problematico rapporto uomo - mondo vegetale, tema su cui ha pubblicato il libro "
Signori della Terra? Lo sviluppo delle civiltà visto dall'ecologia umana" (Anima Mundi editrice, 2002). 
Attualmente è responsabile della sezione WWF di Bologna.

Michele Vignodelli è contattabile alla e-mail michele.vignodelli@iol.it