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Pagheremo caro

di Roberto Tesi - 18/08/2007

 
Non è finita: tutte le piazze finanziarie seguitano a «sputare sangue» bruciando centinaia di miliardi di dollari, euro, yen. Ma la distruzione dei valori virtuali non è senza conseguenze e tra pochi mesi potrebbe essere l'economia reale a precipitare con conseguenze ancora più drammatiche. Quella cui stiamo assistendo non è una delle tante crisi finanziarie che hanno travolto i mercati nell'87 o nel 2001. C'è di più: le unghiate dell'«orso» sono la dimostrazione delle distorsioni e delle contraddizioni del capitalismo. Ancora oggi non conosciamo l'importo dei mutui subprime, anche se si parla di più di 600 miliardi di dollari. Apparentemente sono il trionfo della democrazia nel capitalismo: viene data la possibilità di acquistare una casa anche a chi non offre garanzie. Di più: attraverso il credito al consumo, le carte di credito, le vendite a rate, a tutti viene «concesso» di consumare ben oltre le capacità reddituali presenti e sopratutto future. E il consumo, per tutti i paesi post-industriali, è il motore fondamentale per seguitare a far crescere il prodotto lordo.
L'abitare e il consumare - così come la salute, il lavoro, la previdenza e la formazione - non sono considerati un diritto, ma l'occasione per allargare gli orizzonti del profitto. Non è un caso che gli spazi del welfare si stanno riducendo progressivamente ovunque in nome delle compatibilità dei bilanci pubblici. La teoria dello stato minimo si è imposta e non coinvolge solo l'attività produttiva, ma le fondamenta del vivere civile. La crisi attuale delle borse, quindi, altro non è che la degenerazione anche ideologica del capitalismo: centinaia di milioni di persone sono state coinvolte da questo sistema economico giudicato «ottimale».

Quindi tutto finisce per essere accettato naturalmente: il boom degli strumenti derivati (come gli hedge fund), la finanza che si impadronisce delle liquidazioni promettendo fantasmagoriche pensioni integrative. Ma quel che è peggio è che a condurre la politica economica sono le banche centrali, sempre minacciose contro dieci euro di aumento salariale, pronte a reclamare flessibilità e privatizzazioni, ma generosissime quando si tratta di correre al capezzale del sistema creditizio travolto da una crisi nata dentro le banche.

Ieri Bruxelles ha deciso di indagare sulle società di rating al giudizio insindacabile delle quali sono legate le sorti delle imprese ma anche degli stati. Era ora: con i loro giudizi «imparziali» - e il manifesto lo ha scritto in tempi non sospetti - hanno contribuito a far gonfiare bolle finanziarie negli Usa come in Italia (Parmalat e Cirio sono casi di scuola). Ieri le borse hanno lanciato un ulteriore brutto segnale: la caduta delle quotazioni ha coinvolto non solo i titoli bancari, ma anche quelli energetici e industriali. È il segnale che per i prossimi mesi potrebbe arrivare, con la caduta della domanda, una forte flessione della crescita. A pagarla saranno soprattutto i «poveracci», cui verrà chiesta «moderazione salariale» e ancora più flessibilità. Il tutto accompagnato da nuovi tagli al welfare.