Jack Kerouac
di Stenio Solinas - 15/12/2005
Fonte: lineaquotidiano.it
Appena usciti dal più grande scontro ideologico del secolo la ricerca
di una via d’uscita consisteva, ancora una volta, in un percorso individuale
Ha destato un certo
scalpore nei giorni
scorsi la difesa della
beat generation fatta
a Colonia dal
patriarca di Venezia Ettore Scola, e
in particolare di quel Jack Kerouac
che con Sulla strada ne fu per molti
versi il più degno rappresentante. La
catechesi di Scola, apertasi con quel
passo in cui Sal Paradise, il protagonista
del romanzo, spiega il perché
del suo vagabondare, la consapevolezza
di una ricerca interiore, è stata
pronunciata più o meno nello stesso
periodo in cui dagli Stati Uniti giungeva
la notizia che Francis Ford
Coppola aveva comprato i diritti
d’autore del libro di Kerouac e si era
affidato a Walter Salles come regista
del film omonimo che ne sarebbe
stato tratto. La scelta di quest’ultimo
non è né secondaria né insignificante,
visto che sua è la regia dei Diari
della motocicletta, la pellicola tratta
dalle note di viaggio di Ernesto Che
Guevara e Alberto Granado, presentato
al festival di Cannes lo scorso
anno e poi uscito con grande successo
sugli schermi di tutto il mondo.
Guevara, la fede, la beat generation
Kerouac sono un bel quartetto da
discutere e da combinare e, per certi
versi, una risposta alla fine delle
ideologie che nell’ultimo quindicennio
ha un po’ fatto la parte della Statua
del Commendatore nella rappresentazione
del Don Giovanni inteso
come essenza della politica: sempre
minacciosa, sempre evocata, sempre
respinta eppure sempre presente.
Mai come da quando ne è stata
dichiarata la morte, l’ideologia è
ancora fra noi, un giorno travestita
da questione morale, un altro da
sistema bipolare, ieri da società liberale,
oggi da lotta al meticciato o da
noglobal… Eppure basta tornare con
la mente all’immediato dopoguerra,
il periodo a cavallo fra la fine degli
anni’40 e l’inizio dei ’50, terreno
privilegiato, appunto, del Che non
ancora guerrigliero, e di Kerouac
non ancora simbolo di un movimento,
per accorgersi come, appena
usciti dal più grande scontro ideologico
del secolo la ricerca di una via
d’uscita consistesse, ancora una volta,
in un percorso individuale, una
sorta di ricerca del Graal metafisico
e psicologico, un tentativo di far
compiutamente i conti con se stessi
e quindi con la vita, la società, le sue
leggi. Percorsi apparentemente simili,
fatti da due fondamentalmente
coetanei, eppure radicalmente diversi.
Kerouac attraversa l’America per
fuggirla, non gli interessa conoscerla,
non vuole averci niente a che
fare: «L’importante è andare, non
importa dove». Guevara attraversa il
Sudamerica per penetrarlo, gli interessa
capire, ci si vuole mischiare.
«Quel vagabondare mi ha cambiato
più di quanto credessi». Il nomadismo
della beat generation è all’insegna
del non contate su di noi. Quello
guevarista vuol dire contate pure
su di me. L’avventuriero Kerouac è
un individualista al servizio di se
stesso. L’avventuriero Guevara è un
individualista al servizio degli altri.
È difficile capire che effetto faccia a
un giovane del Duemila il romanzo
di un giovane di mezzo secolo fa,
così come, del resto, è un po’ imbarazzante
chiedere a un ragazzo che
indossa la t-shirt con l’immagine del
guerrigliero per eccellenza che cosa
sappia veramente di lui, e quanto
invece quella faccia sia interscambiabile,
un’icona pubblicitaria, un
marchio, una griffe… Più facile, forse,
è verificare l’effetto che una
rilettura di Sulla strada può fare, a
distanza di tempo, su chi lo lesse
allora, oppure negli anni della sua
adolescenza, quando parole come
teddy boys, gioventù bruciata, beat,
avevano ancora un senso e un significato.
On the road uscì negli Stati Uniti nel
1957, Jack Kerouac aveva allora 35
anni, aveva esordito non ancora
trentenne con un romanzo. The
Town and the City di impronta tradizionale,
con un lirismo alla Thomas
Wolfe, ben accolto dalla critica, ma
che aveva messo in crisi il suo autore.
Non era questo quello che voleva,
non era questo quello che cercava.
In Italia il libro venne tradotto
due anni dopo, e l’edizione che io
ragazzo lessi è quella che ora ho
davanti a me, un Oscar Mondadori
del 1967, volume doppio, lire 500,
che reca scritto 65° migliaio, tante
fino ad allora era state le coppie
vendute.
La prima cosa che balza agli occhi è
che Kerouac allorché lo scrisse era
giovane per modo di dire, se si usa il
metro contemporaneo: oggi si sfornano
a getto continuo romanzi di
romanzieri che ancora vanno al liceo
o sono appena entrati all’università,
un fenomeno del resto non solo italiano,
visto che tutto il minimalismo
americano degli anni’80, Ellis, Leavitt,
McInerny, era fatto di twenties,
di ventenni…
Dietro Kerouac, insomma, c’era una
storia e una esperienza, una ricerca,
degli approfondimenti. Per scriverlo
ci mise sette anni, ed è evidente
come non andasse dietro a un genere,
non cercasse di inserirsi in un
filone di successo. Il genere, al contrario,
lo inaugurò lui, e il successo
che ne derivò paradossalmente lo
inguaiò più di quanto non lo ricompensò.
Scrisse ancora, certo, e un
altro paio di romanzi, I vagabondi
del Dharma e Big Sur, ne fanno uno
scrittore di tutto rispetto, ma la sua
ansia di assoluto divenne misticismo,
la sua passione per l’alcool si
trasformò in cronica ubriachezza, la
popolarità in paranoia, l’essere un
outsider in una moda. Morì infelice,
la vena creativa andata in pappa.
Per il sedicenne che ero all’epoca
della mia prima lettura, Sulla strada
fu una fascinazione di cui ancora
adesso ho un distinto ricordo. Questo
vagabondare su e giù per gli States,
da est a ovest, con ogni mezzo possibile,
macchina, treno, aereo, autobus,
le discussioni infinite e fumose, la
felicità e la promiscuità sessuale, i
lavori trovati e persi, le jam session e
le bevute, il più completo e assoluto
disinteresse verso tutto quello che di
una società borghese è la sua massima
espressione, un posto fisso, uno
stipendio, una casa, una famiglia.
Qui ci si sposava, si divorziava,
nascevano figli, si abbandonavano
mogli, ma, come dire, non c’era mai
cattiveria oppure calcolo, non c’erano
vittime e quindi carnefici: l’impressione
era sempre e comunque di
un’enorme energia positiva, una sorta
di sicurezza interiore che quella
fosse la cosa giusta, che il vivere,
errare, cadere, trionfare, ricreare la
vita dalla vita fosse l’unica possibilità
offerta a chi veniva dopo una catastrofe
bellica, l’esplosione della atomica
e l’impossibilità e/o tentazione
di un ritorno all’ordine come se nulla
prima fosse accaduto.
Adesso che l’ho ripreso fra le mani,
l’effetto di una rilettura è per molti
versi singolare e proverò a spiegarne
il perché. Il primo elemento è quello
di una cupa disperazione. La sterminata
America di allora doveva essere
un luogo avvilente e cupo a viverci,
isolamento, chiusura sociale, mancanza
di legami familiari, nessuna
realtà intermedia fra città e campagna,
paesi che non erano tali, ma
solo agglomerati di case, un fortissimo
senso di precarietà, imponenti
barriere sociali fra garantiti e non
garantiti. Il secondo riguarda il tipo
di bohème presente nel romanzo.
Per quanto molti dei protagonisti
vengano dal riformatorio, o siano
stati in prigione, sono più il frutto di
un sistema che non di un’attitudine a
delinquere: sono figli di padri alcolizzati,
di madri che li hanno abbandonati,
ladruncoli per fame, per
caso, cani perduti senza collare per i
quali il correzionale o l’istituto di
pena è una sorta di succedaneo
familiare, il modo più sbrigativo che
lo Stato ha per sorvegliarli e in qualche
modo renderli innocui. Divenuti
grandi vedono l’ordine pubblico
come un nemico, ma ne hanno paura,
lo subiscono. Tutto il libro è
attraversato da poliziotti che inseguono
e multano questi viaggiatori
indefessi e spericolati, posti di polizia
dove vengono interrogati, ed è
palpabile la paura di essere sbattuti
dentro, e quindi l’atteggiamento
comunque deferente, comunque
ossequioso. È un odio che non
esplode mai, perché c’è la consapevolezza
che dall’altra parte la reazione
sarebbe spietata, tolleranza
zero, nessuna possibilità di sgarrare.
Non sorprende che il momento più
felice sia quello in cui Sal Paradise e
Dean Moriarty, i due eroi del romanzo,
arrivano in Messico, il loro sud
del mondo, dove tutto sembra avere
un volto umano, persino la polizia, e
ogni cosa è rilassata e la gentilezza è
a portata di mano…
Infine, il «desolato stillicidio del
diventar vecchi» con cui si chiude il
romanzo e che letto con occhi di
ragazzo mi lasciò tutto sommato
indifferente, si rivela nel tempo la
vera chiave interpretativa di Sulla
strada, molto di più del patetico e
ostinato vitalismo che lo percorre. Il
«vecchio Dean Moriarty», il padre
vagabondo e ubriacone del giovane
Dean, forse morto, forse ancora vivo
e di cui il figlio forse va in cerca, ma
in realtà non vuole ritrovare, non è
altro che l’immagine speculare di
ciò che sarà quest’ultimo in un futuro
per lui più o meno prossimo, l’unica
certezza, purtroppo, al termine
della strada.
Kerouac attraversa
l’America per fuggirla,
non gli interessa
conoscerla,
non vuole averci
niente a che fare:
«L’importante
è andare,
non importa dove».
scalpore nei giorni
scorsi la difesa della
beat generation fatta
a Colonia dal
patriarca di Venezia Ettore Scola, e
in particolare di quel Jack Kerouac
che con Sulla strada ne fu per molti
versi il più degno rappresentante. La
catechesi di Scola, apertasi con quel
passo in cui Sal Paradise, il protagonista
del romanzo, spiega il perché
del suo vagabondare, la consapevolezza
di una ricerca interiore, è stata
pronunciata più o meno nello stesso
periodo in cui dagli Stati Uniti giungeva
la notizia che Francis Ford
Coppola aveva comprato i diritti
d’autore del libro di Kerouac e si era
affidato a Walter Salles come regista
del film omonimo che ne sarebbe
stato tratto. La scelta di quest’ultimo
non è né secondaria né insignificante,
visto che sua è la regia dei Diari
della motocicletta, la pellicola tratta
dalle note di viaggio di Ernesto Che
Guevara e Alberto Granado, presentato
al festival di Cannes lo scorso
anno e poi uscito con grande successo
sugli schermi di tutto il mondo.
Guevara, la fede, la beat generation
Kerouac sono un bel quartetto da
discutere e da combinare e, per certi
versi, una risposta alla fine delle
ideologie che nell’ultimo quindicennio
ha un po’ fatto la parte della Statua
del Commendatore nella rappresentazione
del Don Giovanni inteso
come essenza della politica: sempre
minacciosa, sempre evocata, sempre
respinta eppure sempre presente.
Mai come da quando ne è stata
dichiarata la morte, l’ideologia è
ancora fra noi, un giorno travestita
da questione morale, un altro da
sistema bipolare, ieri da società liberale,
oggi da lotta al meticciato o da
noglobal… Eppure basta tornare con
la mente all’immediato dopoguerra,
il periodo a cavallo fra la fine degli
anni’40 e l’inizio dei ’50, terreno
privilegiato, appunto, del Che non
ancora guerrigliero, e di Kerouac
non ancora simbolo di un movimento,
per accorgersi come, appena
usciti dal più grande scontro ideologico
del secolo la ricerca di una via
d’uscita consistesse, ancora una volta,
in un percorso individuale, una
sorta di ricerca del Graal metafisico
e psicologico, un tentativo di far
compiutamente i conti con se stessi
e quindi con la vita, la società, le sue
leggi. Percorsi apparentemente simili,
fatti da due fondamentalmente
coetanei, eppure radicalmente diversi.
Kerouac attraversa l’America per
fuggirla, non gli interessa conoscerla,
non vuole averci niente a che
fare: «L’importante è andare, non
importa dove». Guevara attraversa il
Sudamerica per penetrarlo, gli interessa
capire, ci si vuole mischiare.
«Quel vagabondare mi ha cambiato
più di quanto credessi». Il nomadismo
della beat generation è all’insegna
del non contate su di noi. Quello
guevarista vuol dire contate pure
su di me. L’avventuriero Kerouac è
un individualista al servizio di se
stesso. L’avventuriero Guevara è un
individualista al servizio degli altri.
È difficile capire che effetto faccia a
un giovane del Duemila il romanzo
di un giovane di mezzo secolo fa,
così come, del resto, è un po’ imbarazzante
chiedere a un ragazzo che
indossa la t-shirt con l’immagine del
guerrigliero per eccellenza che cosa
sappia veramente di lui, e quanto
invece quella faccia sia interscambiabile,
un’icona pubblicitaria, un
marchio, una griffe… Più facile, forse,
è verificare l’effetto che una
rilettura di Sulla strada può fare, a
distanza di tempo, su chi lo lesse
allora, oppure negli anni della sua
adolescenza, quando parole come
teddy boys, gioventù bruciata, beat,
avevano ancora un senso e un significato.
On the road uscì negli Stati Uniti nel
1957, Jack Kerouac aveva allora 35
anni, aveva esordito non ancora
trentenne con un romanzo. The
Town and the City di impronta tradizionale,
con un lirismo alla Thomas
Wolfe, ben accolto dalla critica, ma
che aveva messo in crisi il suo autore.
Non era questo quello che voleva,
non era questo quello che cercava.
In Italia il libro venne tradotto
due anni dopo, e l’edizione che io
ragazzo lessi è quella che ora ho
davanti a me, un Oscar Mondadori
del 1967, volume doppio, lire 500,
che reca scritto 65° migliaio, tante
fino ad allora era state le coppie
vendute.
La prima cosa che balza agli occhi è
che Kerouac allorché lo scrisse era
giovane per modo di dire, se si usa il
metro contemporaneo: oggi si sfornano
a getto continuo romanzi di
romanzieri che ancora vanno al liceo
o sono appena entrati all’università,
un fenomeno del resto non solo italiano,
visto che tutto il minimalismo
americano degli anni’80, Ellis, Leavitt,
McInerny, era fatto di twenties,
di ventenni…
Dietro Kerouac, insomma, c’era una
storia e una esperienza, una ricerca,
degli approfondimenti. Per scriverlo
ci mise sette anni, ed è evidente
come non andasse dietro a un genere,
non cercasse di inserirsi in un
filone di successo. Il genere, al contrario,
lo inaugurò lui, e il successo
che ne derivò paradossalmente lo
inguaiò più di quanto non lo ricompensò.
Scrisse ancora, certo, e un
altro paio di romanzi, I vagabondi
del Dharma e Big Sur, ne fanno uno
scrittore di tutto rispetto, ma la sua
ansia di assoluto divenne misticismo,
la sua passione per l’alcool si
trasformò in cronica ubriachezza, la
popolarità in paranoia, l’essere un
outsider in una moda. Morì infelice,
la vena creativa andata in pappa.
Per il sedicenne che ero all’epoca
della mia prima lettura, Sulla strada
fu una fascinazione di cui ancora
adesso ho un distinto ricordo. Questo
vagabondare su e giù per gli States,
da est a ovest, con ogni mezzo possibile,
macchina, treno, aereo, autobus,
le discussioni infinite e fumose, la
felicità e la promiscuità sessuale, i
lavori trovati e persi, le jam session e
le bevute, il più completo e assoluto
disinteresse verso tutto quello che di
una società borghese è la sua massima
espressione, un posto fisso, uno
stipendio, una casa, una famiglia.
Qui ci si sposava, si divorziava,
nascevano figli, si abbandonavano
mogli, ma, come dire, non c’era mai
cattiveria oppure calcolo, non c’erano
vittime e quindi carnefici: l’impressione
era sempre e comunque di
un’enorme energia positiva, una sorta
di sicurezza interiore che quella
fosse la cosa giusta, che il vivere,
errare, cadere, trionfare, ricreare la
vita dalla vita fosse l’unica possibilità
offerta a chi veniva dopo una catastrofe
bellica, l’esplosione della atomica
e l’impossibilità e/o tentazione
di un ritorno all’ordine come se nulla
prima fosse accaduto.
Adesso che l’ho ripreso fra le mani,
l’effetto di una rilettura è per molti
versi singolare e proverò a spiegarne
il perché. Il primo elemento è quello
di una cupa disperazione. La sterminata
America di allora doveva essere
un luogo avvilente e cupo a viverci,
isolamento, chiusura sociale, mancanza
di legami familiari, nessuna
realtà intermedia fra città e campagna,
paesi che non erano tali, ma
solo agglomerati di case, un fortissimo
senso di precarietà, imponenti
barriere sociali fra garantiti e non
garantiti. Il secondo riguarda il tipo
di bohème presente nel romanzo.
Per quanto molti dei protagonisti
vengano dal riformatorio, o siano
stati in prigione, sono più il frutto di
un sistema che non di un’attitudine a
delinquere: sono figli di padri alcolizzati,
di madri che li hanno abbandonati,
ladruncoli per fame, per
caso, cani perduti senza collare per i
quali il correzionale o l’istituto di
pena è una sorta di succedaneo
familiare, il modo più sbrigativo che
lo Stato ha per sorvegliarli e in qualche
modo renderli innocui. Divenuti
grandi vedono l’ordine pubblico
come un nemico, ma ne hanno paura,
lo subiscono. Tutto il libro è
attraversato da poliziotti che inseguono
e multano questi viaggiatori
indefessi e spericolati, posti di polizia
dove vengono interrogati, ed è
palpabile la paura di essere sbattuti
dentro, e quindi l’atteggiamento
comunque deferente, comunque
ossequioso. È un odio che non
esplode mai, perché c’è la consapevolezza
che dall’altra parte la reazione
sarebbe spietata, tolleranza
zero, nessuna possibilità di sgarrare.
Non sorprende che il momento più
felice sia quello in cui Sal Paradise e
Dean Moriarty, i due eroi del romanzo,
arrivano in Messico, il loro sud
del mondo, dove tutto sembra avere
un volto umano, persino la polizia, e
ogni cosa è rilassata e la gentilezza è
a portata di mano…
Infine, il «desolato stillicidio del
diventar vecchi» con cui si chiude il
romanzo e che letto con occhi di
ragazzo mi lasciò tutto sommato
indifferente, si rivela nel tempo la
vera chiave interpretativa di Sulla
strada, molto di più del patetico e
ostinato vitalismo che lo percorre. Il
«vecchio Dean Moriarty», il padre
vagabondo e ubriacone del giovane
Dean, forse morto, forse ancora vivo
e di cui il figlio forse va in cerca, ma
in realtà non vuole ritrovare, non è
altro che l’immagine speculare di
ciò che sarà quest’ultimo in un futuro
per lui più o meno prossimo, l’unica
certezza, purtroppo, al termine
della strada.
Kerouac attraversa
l’America per fuggirla,
non gli interessa
conoscerla,
non vuole averci
niente a che fare:
«L’importante
è andare,
non importa dove».