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Dov'erano gli enti prima di esistere?

di Francesco Lamendola - 20/08/2007

 

 

Dov'erano gli enti prima di venire all'esistenza? E dove saranno quando dall'esistenza escono? Questa è una delle domande fondamentali che la filosofia occidentale si è posta fin dai suoi albori. Ma è una domanda mal posta e, a ben guardare, priva di senso.

L'ente è la traduzione italiana del greco òn e del latino ens: designa "ciò che è" e viene ad essere, pertanto,  sinonimo di "essere". A partire da Aristotele, la metafisica classica (la filosofia prima) non è stata altro che l'indagine intorno all'ente in quanto ente: to òn ê òn. Ora, Tommaso d'Aquino ha tracciato una classica distinzione tra essenza ed esistenza (peraltro contestata sia da Giovanni Duns Scoto, sia da Guglielmo di Okham), almeno per le cose finite: l'essenza essendo un sinolo di materia e forma che ci dice cosa è un determinato ente; l'esistenza essendo un suo attributo possibile che ci dice se un dato ente vi sia, oppure no. Dunque l'esistenza è un attributo possibile degli enti, nel senso che esistono infiniti cavalli, perfettamente razionali e verosimili, che io o altri possiamo pensare, oltre a questo cavallo che ora vedo pascolare nel prato e che esiste fuori di me, in natura,  oggettivamente. Giustamente i filosofi scolastici hanno distinto, perciò, l'ens reale, ossia la cosa effettivamente esistente in natura, dall'ens rationalis, ossia la cosa esistente soltanto nel pensiero. Resta da vedere, naturalmente, se questa cosa esistente nel pensiero sia più o meno consistente, ontologicamente parlando, di quella esistente in natura: perché se la cosa esistente in natura è soggetta al divenire, parrebbe che esista un tempo nel quale essa non era (un prima) e un tempo nel quale essa non sarà più (un dopo); mentre la cosa pensata può anche sopravvivere dopo la scomparsa di colui che ne ha fatto oggetto di pensiero (una musica di Bach continua ad avere esistenza effettiva nel mondo delle idee e delle emozioni; Renzo e Lucia continuano a vivere dopo la scomparsa di Manzoni). Addirittura, essa potrebbe perfino essere esistita prima del pensiero stesso che l'ha pensata:  le leggi matematiche esistevano prima che i matematici le definissero; il teorema di Fermat era vero anche prima che venisse dimostrato da Wiles, nel 1995; e le leggi di Newton esistevano ben prima che Newton le formulasse.

È proprio sulla base di queste ultime riflessioni che Platone ha avanzato l'ipotesi di un mondo ideale eterno, che esiste al di fuori del divenire e del quale le cose reali, a partire dai singoli oggetti concreti della matematica (cioè quei triangoli, cerchi ecc. che io posso tracciare con gli strumenti sulla carta, e sia pure con altissime tecniche di precisione) sono inevitabilmente imprecisi e approssimativi, e dunque delle semplici copie o riflessi di quegli altri oggetti, eterni, immutabili e perfetti, che esistono di una esistenza assoluta e imperturbabile nel mondo delle idee o Iperuranio. Tuttavia in questa sede non ci occuperemo specificamente della tesi platonica di un mondo ideale eterno sovrastante quello del divenire, quanto piuttosto della relazione esistente tra gli enti reali e gli enti razionali e, in generale, tra gli enti e l'esistenza.

Se l'ente è tutto ciò che esiste, sia nel mondo della natura che in quello del pensiero, è chiaro che noi ci troviamo nell'orizzonte dell'Essere, perché siamo enti che esistono in mezzo ad altri enti, e dunque rappresentiamo un modo di realtà radicalmente alternativo al non-essere. Invece del nulla, esiste qualcosa; questo qualcosa è una molteplicità di enti, di cui noi facciamo parte; e la molteplicità degli enti, a sua volta, rimanda a un Ente assoluto che, essendoci, conferisce lo status ontologico dell'essere a ciascun singolo ente. Infatti, come sosteneva Antonio Rosmini (nel Nuovo saggio sull'origine delle idee), anteriormente all'idea di questo o quell'altro essere, noi abbiamo in noi stessi la nozione fondamentale e istintiva di essere nell'oscura e immediata presenza di noi a noi stessi (che lui chiamava il sentimento fondamentale), senza la quale non potremmo neanche concepire l'esistenza di qualcosa, e mediante la quale - viceversa - ogni esistente, compreso il nostro, diviene intelligibile.

 

«Si dee ancora distinguere - dice Rosmini - l'idea dal giudizio sulla sussistenza delle cose». Infatti, «quando io s i formo l'idea ovvero il concetto di qualche ente, posso aver questo concetto in un modo perfetto, comprendendo tutte le qualità tanto essenziali che accidentali dell'ente a cui penso, senza però che io ancora giudichi che egli realmente esiste».

 

Ad es., io posso concepire l'idea di un certo cavallo, con certe particolari caratteristiche, e poi trasformarlo in disegno o pittura [§ 402]; al contrario, il mio concetto di cavallo non deriva dall'esistenza reale di un determinato cavallo [§ 403]. Conclusione:

 

«le idee sono indipendenti (quanto alla loro natura) dalla reale esistenza degl'individui» [§ 404]. Ora, «trovata questa verità (…), si viene a conoscere la differenza che passa tra l'aver un'idea, e il giudicare che la cosa, di cui si ha l'idea, realmente esista. (…) Il giudizio dunque sulla sussistenza di una cosa suppone bensì l'idea, ma non è l'idea della cosa, né nulla aggiunge alla medesima. Questo giudizio non fa che portare in noi una persuasione della sussistenza della cosa che giudichiamo esistente in modo reale: persuasione che non è che un assenso (…)» [§ 405]. Noi, dunque, conosciamo l'esistenza delle cose non per mezzo  delle idee (che ce le presentano semplicemente come possibili), ma per mezzo  una diversa operazione dello spirito: il giudizio [§ 407]. «L'idea dell'essere non presenta che la semplice possibilità., (…) La possibilità ci rimane dopo l'ultima astrazione che possiam fare sopra un ente pensato (…)» [§ 408]. «L'idea dunque universalissima di tutte, che è anche l'ultima delle astrazioni, è l'essere possibile, che si esprime semplicemente nominandolo idea dell'essere» [§ 409]. Quanto all'uomo, egli «non può pensare a nulla senza l'idea dell'essere» [§ 410]. «E veramente non v'ha cognizione, né pensiero che possa da noi concepirsi, senza che si trovi in esso mescolata l'idea dell'essere. L'esistenza è di tutte le qualità comuni delle cose la comunissima ed universalissima. (…) se dopo aver tolte via da un ente  tutte le altre qualità, sì le proprie che le comuni, togliete via ancora la più universale di tutte, l'essere, allora non vi rimane più nulla nella vostra mente, ogni vostro pensiero è spento, è impossibile che voi più abbiate idea alcuna  di quell'ente.»

 

Dunque l'idea dell'essere è, per così dire, l'ultima frontiera del pensiero: tolta la quale, è tolto il pensare addirittura, ed diviene impossibile qualsiasi altra idea [§ 411].

Quanto all'idea dell'essere, essa «non ha bisogno d'alcun'altra idea ad essa aggiunta per essere intuita»; è, dunque, la più astratta di tutte; e, se non ha bisogno d'altro per essere intuita, è intuibile e conoscibile per se stessa [§ 412]. L'idea dell'essere non proviene dalle sensazioni corporee [§ 413], e Rosmini si accinge a dimostrarlo con otto diverse argomentazioni.

La prima: l'idea dell'essere è oggettiva, non ha relazione con alcun'altra cosa, è assoluta; mentre le sensazioni non ci fanno concepire le cose come sono in sé stesse, ma solo in relazione con noi.

 

«(…) sensazione non vuol dire che modificazione nostra; idea vuol dire concezione di una cosa che esiste indipendentemente da qualunque modificazione o passione d'altra cosa» [§ 415]. «La sensazione dunque è soggettiva, la percezione sensitiva è estrasoggettiva, l'idea è oggetto, la percezione intellettiva è oggettiva» [§ 417].

Ma la sensazione, priva dell'idea, non può che essere un quid incognito; solo per mezzo dell'idea essa ci è nota; i corpi esterni, in se stessi, non solo risultano non cogniti, ma anche non sentiti [§ 422]. Seconda dimostrazione:

 

«(…) le nostre sensazioni non ci danno che delle modificazioni  dello spirito nostro, venienti da cose sussistenti: ché le cose meramente possibili non hanno forza nessuna da agire sopra de' nostri organi, e produrci le sensazioni. Dunque le sensazioni non hanno nulla a che fare cola nostra idea dell'essere, e non ce la possono in nessun modo somministrare» [§ 423].

 

Dimostrazione terza: l'idea dell'essere, non avendo in se stessa nulla di ordine materiale,  è perfettamente semplice, mentre le sensazioni reali sono sempre composte ed estese [§  426]. Dimostrazione quarta:

 

«(…) i corpi reali diventano molti, il concetto o l'idea del corpo rimane uno sempre: la mente e, ove si voglia, anche più menti il vedono identico in tutti gl'infiniti corpi umani ch'elleno pensano sussistenti».

 

Dunque la natura delle cose reali è opposta alla natura della semplice idea [§ 427]. Dimostrazione quinta e sesta: ogni idea è universale e infinita, ogni singola sensazione è particolare: «l'universale dunque è impossibile trovarsi nella sensazione, o ritrarsi da essa» [§ 428]; inoltre la sensazione reale può essere e non essere, mentre ciò che io contemplo come possibile è in realtà necessario (dato che non può essere impossibile): «(…) dunque l'idea dell'essere, o dell'ente possibile non può trarsi dalle sensazioni»   429].  Dimostrazione settima e ottava: ogni ente possibile si presente alla mente come qualcosa di immutabile (essa non può pensarlo in altro modo) e di eterno, «(…) niente di ciò si riscontra nelle sensazioni mutabili e periture: dunque le sensazioni non possono in alcun modo scorgere la mente a pensare que' caratteri dell'ente possibile». Infatti all'idea dell'essere pertiene la perfetta indeterminazione, alle sensazioni, la perfetta determinazione [§ 433].

Dopo aver riassunto le prove fornite sulla non deducibilità dell'idea dell'essere dalle sensazioni [§ 437], Rosmini afferma che l'idea dell'essere non proviene neppure dalla propria sussistenza; quest'ultima, infatti, non è altro che una sensazione interna di carattere permanente [§ 438]. Bisogna dunque distinguere fra il sentimento interno dell'Io  e la sua idea o percezione intellettuale. Il primo è semplice, la seconda è composta (del sentimento dell'Io e dell'idea dell'essere). L'Io, quindi, è il soggetto, l'idea dell'Io è l'oggetto della conoscenza [§ 439].

 

«Il sentimento dell'Io mi dà dunque la sensazione della mia esistenza, ma non l'idea dell'esistenza in universale: di più quel sentimento è la mia esistenza stessa: non l'idea dell'esistenza in universale: ma non è per questo la percezione intellettiva della mia esistenza» [§ 440].

 

Allora il sentimento dell'Io è innato, mentre la percezione intellettiva di me stesso è acquisita [§ 441]. Inoltre,

 

«nell'ordine delle idee, l'idea dell'essere precede l'idea dell'io; perché quella è necessaria, acciocché io mi formi questa» [§ 442].

 

Conclusione. Se l'idea dell'essere è così essenziale, che sena di essa noi non possiamo neppur pensare; se non si trova nelle sensazioni;  se da esse non si può ricavare mediante la riflessione, se non è creata in noi da Dio all'atto della percezione (come voleva Berkeley, che però Rosmini qui non nomina); se l'idea dell'essere non proviene da noi stessi, allora

 

«rimane che l'idea dell'essere sia innata nell'anima nostra, sicché noi nasciamo colla presenza, e colla visione dell'essere possibile, sebbene non ci badiamo che assai tardi» [§ 467].

 

Tutte le idee hanno origine per mezzo dell'idea dell'essere [§ 473]; tutte, infatti, implicano l'idea dell'essere:

 

«sicché si può dir veramente, che qualunque idea non è mai altro, che o l'ente concepito senza alcun modo, o l'ente più o meno determinato da' suoi modi; determinazione che forma la cognizione a posteriori, o la materia della cognizione» [§ 474]. 

 

Ma se in noi abita l'idea dell'essere, anzi se fa parte della nostra stessa struttura originaria, perché nulla potremmo pensare se non avessimo in noi quella nozione innata, allora l'ente non è qualche cosa che abbia un'esistenza particolare e relativa, inserita nel tempo (con un inizio e una fine), ma è la modalità propria dell'essere.

Giustamente, allora, Vincenzo Gioberti affermava che «l'Ente crea l'esistente», volendo intendere che Dio, l'Ente assoluto, produce le cose esistenti le quali derivano il loro essere dal di fuori, ossia proprio da Dio.

Fermiamoci un attimo a riflettere su questa importante affermazione: l'Ente crea l'esistente. Ciò significa che l'Ente assoluto, fondamento e origine di tutti gli enti particolari, non riceve l'esistenza da qualcosa che stia fuori di sé, ma piuttosto è esso a garantire l'essere degli enti finiti e particolari. Di conseguenza, gli enti finiti non escono dal nulla per tornare al nulla (come ha sempre creduto il pensiero greco, dice Emanuele Severino, sulla base dell'idea del divenire), ma esistono da sempre e per sempre, in una modalità di esistenza che non è quella spazio-temporale, al centro dell'Ente assoluto. L'essere degli enti, pertanto, non è una possibilità data fra le altre, come le loro determinazioni particolari. Un cavallo può essere bianco oppure no; ma un cavallo, in quanto cavallo, è; e, in quanto essente, è una modalità dell'essere; e, in quanto modalità dell'essere, esiste per sempre e da sempre. Gli enti non hanno un'essenza effimere e contingente; gli enti, per il solo fatto di esistere, si danno come l'alternativa radicale del non-essere proprio del Nulla, e quindi sono. Dir che una cosa è, significa dire non che era e poi non c'è più; non che è adesso, e prima non c'era; vuol dire che il suo essere è parte dell'Essere, dunque infinito ed eterno.

Ma come mai, allora, noi abbiamo la sensazione che gli enti nascano e muoiano, che appaiano e che scompaiano, che abbiano un'origine e un termine ben preciso? Perché noi stessi siamo immersi nel flusso spazio-temporale e quel che cediamo è solo un piccolissimo spiraglio sull'orizzonte dell'Essere, che noi -a torto - tendiamo a interpretare come l'intera realtà dell'esistente. Così,per esempio, oggi vediamo un tavolo che ieri non c'era, che domani non ci sarà, e ne deduciamo che il tavolo ha cominciato ad esistere in un dato punto dello spazio-tempo e che in un altro punto cesserà di esistere. Ma dov'era il tavolo prima di ieri? Nella mente del falegname. E dove sarà domani? Nella cenere del fuoco che lo avrà bruciato. E prima di essere nella mente del falegname? Era nascosto (ma ai nostri occhi!, non in assoluto) nel desiderio dei genitori del falegname. Il tavolo già esisteva quando il falegname era un bimbo di tre anni; prima che egli nascesse; prima che nascessero i suoi genitori, e i genitori dei suoi genitori, e così via. Esisteva, ma su un altro piano di realtà; eppure esisteva, perché nulla di ciò che esiste viene dal nulla; ciò che esiste, per il solo fatto di esistere,, esiste per sempre e da sempre. E dopo che la cenere del legno bruciato sarà stata dispersa, dove continuerà ad esistere il tavolo? Negli enti che dalla cenere avranno origine. Ora, se tutto questo è vero per gli enti reali, altrettanto vero lo è per gli enti razionali, cioè per gli oggetti del pensiero.

Dov'era, allora, la musica di Bach, prima che Bach la scrivesse sullo spartito e, poi, la eseguisse particolare  non può creare nulla. Esiste, ma perché ha ricevuto la sua esistenza da qualcosìaltro da sé: dall'Ente assoluto. Dunque l'ente non crea, ma trova, organizza, rielabora, traduce in pensieri, parole, suoni, immagini, azioni qualche cosa che già esisteva, in un'altra dimensione dell'essere: fuori dello spazio e fuori del tempo. La musica di Bach esisteva da sempre e sempre esisterà, anche se Bach venisse dimenticato, anche se la musica venisse dimenticata, anche se l'umanità cessasse di abitare la Terra. Don Chisciotte esisteva prima che Cervantes lo traducesse in parole; e continuerà ad esistere anche dopo: vivrà di vita propria, ma non come una forma di proiezione o di sopravvivenza del suo autore, bensì come un ente che esiste fuori delle barriere di spazio e tempo: come le idee di Platone.

Ecco perché la domanda: «Dov'erano gli enti prima di venire all'esistenza?» è una domanda mal posta e priva di senso. Gli enti sono eterni, perché sono parte dell'Ente; dipende dalla nostra limitatezza il fatto che ora li vediamo apparire, ora li vediamo scomparire; ma in realtà essi, semplicemente, sono. E non ci troviamo d'accordo con Severino quando egli afferma che gli essenti sono, in ultima analisi, il niente. Certo, gli essenti non sono, tout-court, gli enti; gli essenti sono delle determinazione dell'idea di essere; e gli enti a loro volta, possono essere ens a se, che derivano da sé la propria esistenza; ens ab alio, che la ricevono da qualcos'altro; ed ens per se ovvero ens per accidens, cioè possono essere quello che sono in virtù della propria sostanza, oppure di qualcosa di accidentale (un uomo è mortale in quanto uomo, ma ha gli occhi verdi in quanto è quel certo individuo particolare). Resta il fatto che l'ente essendo ciò che è, si configura come la modalità propria dell'essere: l'ente è, per così dire, l'essere così come ci appare, come si offre ai nostri sensi e al nostro pensiero; è, insomma, l'essere determinato e individuato che noi distinguiamo, per nostra comodità mentale, dall'essere in quanto essere.

Ma ecco come E. Severino definisce, nel percorso storico della filosofia greca, la nullificazione dell'essente (nel suo libro La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire, Milano, Riuzzoli, 1989, 2006, pp. 9-10):

 

"I greci, per primi, intendono il divenire come il dibattersi delle cose  tra l'essere e il niente, cioè come il loro esser contese dall'essere e dal niente e quindi come il loro non essere definitivamente legate a nessuno dei due. Le cose sono, sono cioè essenti (ònta), e un essente, come tale, è ciò che proviene dal niente ed è destinato a ritornarvi. Certo, per la filosofia greca esistono anche cose eterne - le cose divine -, ma esse sono eterne non perché  sono degli essenti, ma perché posseggono  una natura peculiare e privilegiata. Quando, dell'essente, considera il suo puro  essere essente, la filosofia greca  - e, poi, tutto il pensiero occidentale - non vi scorge  nulla di eterno: l'essente, in quanto essente, è ciò che proviene dal niente e vi ritorna.

"Gli abitatori dell'occidente sono coloro che ritengono indiscutibile  il senso greco del divenire - anche se possono essere convinti che quanto viene pensato in tale senso non sia stato evocato dalla filosofia greca, , ma da altre forme della cultura occidentale,; e anche se possono ignorare completamente l'esistenza della filosofia greca e, in generale, l'esistenza della filosofia."

 

E ancora (op. cit., p.363):

 

"Il nichilismo, cioè la fede nell'esistenza del divenire- e dunque l'intera storia dell'Occidente - non è l'unica forma possibile di negazione del destino, e tuttavia ne è la negazione dominante. Nel suo inconscio, tale fede è la persuasione che l'essente è niente. Questa persuasione  è l'essenza del nichilismo.  Negando la non nientità dell'essente, essa è dunque negazione di sé stessa."

 

È negazione di sé stessa, dovremmo aggiungere, perché il nostro pensiero della nullità dell'essente è già un essente, così che noi, equiparando gli essenti al nulla, affermiamo al tempo stesso che noi medesimi siamo nulla.

Ma è proprio vero che l'essente è qualche cosa di diverso dall'ente e, più precisamente, un nulla che emerge dal nulla e al nulla ritorna? A noi sembra che l'essente sia piuttosto la modalità specifica dell'ente il quale, a sua volta, è la modalità specifica dell'essere. Del resto, ciò che emerge dal nulla 8e che al nulla ritorna) non può essere, evidentemente, il niente, se non in senso poetico e metaforico; secondo logica, ciò che viene (e sia pure dal nulla) e che scompare (e sia pure nel nulla) è un qualche cosa, un essente, appunto; dunque, un frammento di essere.

 

Ci resta da dire che l'ipotesi dell'eternità degli enti, esistenti come modalità dell'Ente per antonomasia, cioè Dio, è in grado - tra le altre cose - di rendere ragione di tutti quei fenomeni misteriosi, come la chiaroveggenza, la precognizione, la retrocognizione, la xenoglossia, ecc., che altrimenti appaiono razionalmente inspiegabili. Mentre, se noi ammettiamo che tutti gli enti, reali e razionali, esistono da sempre e per sempre, non è poi così assurdo immaginare che taluni individui, in particolari circostanze, possano gettarvi uno sguardo più o meno fugace: un po' come l'anima gettava un rapido sguardo verso l'Iperuranio nel mito platonico della biga alata.

 

Ma gli enti, abbiamo detto, esistono fuori dello spazio e del tempo. Di qual genere è tale esistenza, reale o meramente possibile? Ecco ancora un esempio della distorsione concettuale mediante la quale pretendiamo di pensare l'essere attraverso le insufficienti categorie del relativo. Dal punto di vista del relativo, cioè dello spazio e del tempo, una cosa è reale o possibile è prima o dopo; e qua o là; dal punto di vista dell'essere, ogni cosa esiste nella sua pienezza eterna, perché ogni cosa, ogni ente, non è altro che un aspetto dell'Ente assoluto, di ciò che, esistendo, sottrae tutte le cose all'oscurità del nulla. Tutte le cose sono possibili, dunque tutte le cose sono esistenti: anche i pensieri non ancora formulati, le lettere non scritte, i bambini non nati; e tutte esistono per l'eternità, anche le più (apparentemente) fuggevoli, rapide come un batter di ciglia. I mondi paralleli, allora, non sono più una mera ipotesi fantascientifica: sono la naturale constatazione della realtà di tutto ciò che è possibile, come i pensieri non percorsi, le parole non dette, le vette mai raggiunte. Quei sentieri, quelle parole, quelle vette esistono; anche se, nel piccolo stagno spazio-temporale entro il quale - di norma - ci muoviamo, possiamo averne appena un vago presentimento, una oscura intuizione.

 

"Vi sono più cose fra la terra e il cielo, Orazio, di quanta possa sognarne tutte la vostra filosofia", ammoniva Shakespeare nell'Atto Primo dell'Amleto, principe di Danimarca.

Sì, davvero; molte, molte più cose. E, soprattutto, eterne.