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L'acqua in Italia

di Giancarlo Terzano - 16/12/2005

Fonte: fareverde.it

 

 

 

Il mondo ha sete. Ogni anno, per mancanza di acqua potabile (cioè per vera e propria sete) muoiono 6.000 bambini. Ed altrettanti, ma questa volta al giorno, sono coloro che muoiono per malattie legate all’uso di acqua non potabile. Oltre 2 milioni di morti all’anno, più varie centinaia di milioni di malati (si calcola che l’80% delle malattie dei paesi in via di sviluppo dipenda dall’uso di acqua contaminata e dalle precarie cure sanitarie): cifre enormi, che rischiano di aumentare. Nel 2025, infatti, a fronte di una domanda di acqua potabile che si prevede sarà aumentata del 70%, saranno 3 miliardi gli esclusi.

Gli allarmi sull’emergenza idrica sono stati al centro degli incontri organizzati il 22 marzo, scorso, II Giornata Mondiale dell’Acqua, dove concorde è stata la tesi che l’acqua, l’”oro blu” del terzo millennio, costituirà uno dei temi principali da discutere alla prossima conferenza sullo stato della Terra di “Rio+10”, che si terrà a Johannesburg a fine agosto. Il problema è mondiale, ma riguarda, ovviamente, soprattutto alcune aree del pianeta, geograficamente penalizzate (non trascuriamo, però, il progressivo processo di desertificazione, con l’aumento delle aree aride). Secondo l‘UNEP, il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, gia oggi 1/3 della popolazione mondiale vive in condizioni di stress o crisi idrica (si parla di “stress idrico” quando la disponibilità di acqua complessiva, per ogni uso, in un Paese, è contenuta tra i 1.000 e i 1.700 m3 pro capite annui; al di sotto dei 1.000 m3, si ha “crisi idrica”). I problemi più acuti sono in Africa ed Asia Occidentale, ma la crescita demografica ed industriale ha portato ad un peggioramento della situazione idrica anche in molte altre zone, come ad esempio la Cina, l’India o l’Indonesia.

L’Italia, con i suoi 3.052 m3 teorici di acqua pro capite, non dovrebbe certo soffrire di crisi idrica. Eppure, anche nella nostra penisola, la situazione presenta un quadro preoccupante.

Nonostante la ricca potenzialità, una parte rilevante della popolazione nazionale (localizzata essenzialmente al Sud) non ha un accesso regolare all’acqua potabile. La colpa, più che alla siccità, ai mutamenti climatici e al progressivo inaridimento di alcune aree meridionali ed insulari (il che pure fa la sua parte), è essenzialmente dovuta a carenze strutturali e gestionali del sistema acqua nazionale: un carrozzone dalle infrastrutture arretrate, una torre di Babele di competenze, una quantità di sprechi inconcepibile, un intreccio di affarismi e interessi particolari. Insomma, un sistema che (è il caso di dirlo!) fa acqua da tutte le parti.

 

LE DISPONIBILITA’ DELLA RISORSA ACQUA

L’Italia è potenzialmente molto ricca di acque. Con i suoi 175.012 milioni di m3 annui, è in testa al gruppo dei paesi UE, seconda solo alla Francia, come quantità di risorse teoricamente disponibili. Calcolando l’afflusso delle piogge, il deflusso superficiale e l’accumulo nella falde sotterranee, ogni italiano potrebbe contare su 3.052 m3 annui di acqua, una quantità al di sotto delle media europea (4.035 m3) ma ben al di sopra di ogni soglia di stress idrico. Se dalla disponibilità teorica passiamo a quella effettiva (calcolata escludendo le perdite naturali e considerando le possibilità di captazione), abbiamo 56.012 milioni di m3, una quantità assoluta di tutto rispetto (si pensi che il deflusso medio annuo del Po è di 47.000 di m3), seconda in Europa soltanto a quella della Germania, e che pone gli italiani al primo posto nell’UE come disponibilità pro-capite, con 980,3 m3 annui a persona contro una media UE di 612 m3 (dati EUROSTAT, vedi tabella 1).

Tale disponibilità non è, tuttavia, omogenea nel territorio nazionale. Un’occhiata alle stime elaborate dalla CNA (Conferenza Nazionale dell’Acqua) nelle due ultime campagne di studio del 1971 e 1989, dimostra nette differenze tra i vari compartimenti idrografici, con ampie disponibilità al Nord Italia e percentuali più ridotte nel resto del territorio nazionale (tabella 2). Dei 296 miliardi di m3 annui di piogge cadute (stima effettuata in base ai dati pluviometrici del trentennio 1921-1950), ridotti a 164 miliardi potenziali a causa dei fenomeni naturali di evaporazione e evapotraspirazione, e ulteriormente ridotti a seguito delle perdite e delle difficoltà di captazione a 52 miliardi di risorse effettivamente utilizzabili (i dati, come appare, sono sensibilmente diversi dalle stime EUROSTAT), il Nord Italia può contare su quasi 34 miliardi (pari al 65% delle risorse disponibili), ben al di sopra degli altri compartimenti del Centro Italia (15%), del Sud (12%) e delle isole (8% complessivo). Si tratta, inoltre, di acque in gran parte di superficie (al Sud e nelle isole soprattutto laghi artificiali), ma rilevante è la quantità di acque sotterranee (circa 11 miliardi di m3, superiore alle media UE).

E’ evidente che i mutamenti climatici in corso incideranno ancora di più sulla disponibilità della risorsa acqua. Le previsioni, com’è noto, parlano di un aggravarsi della siccità e della progressiva “desertificazione” di alcune aree dell’Italia insulare e meridionale, cui si contrapporrebbe una “tropicalizzazione” delle aree centro-settentrionali, con aumento della piovosità dovuta soprattutto a violenti e potenti rovesci. Se gli effetti della desertificazione del Sud sulla disponibilità di acque sono facilmente immaginabili, non illudiamoci neanche sugli effetti dell’aumento della piovosità nelle altre regioni: vista anche la particolare conformazione del territorio nazionale (ricco di pendii), aggravata dalla cementificazione del letto dei fiumi e dalla riduzione delle aree boschive, piogge più violente non comporteranno un maggiore assorbimento dell’acqua caduta ma semmai un più rapido deflusso verso il mare.

 

I PRELIEVI E GLI USI

La disponibilità disomogenea comporta anche situazioni critiche nei prelievi, che già in Italia sono maggiori alla media dell’Unione Europea (e la tendenza è ad un continuo aumento). Il Nord Italia, presso cui si registrano i maggiori prelievi in termini assoluti, utilizza il 78% delle risorse disponibili. Più sostenibile è l’utilizzo nelle regioni centrali, dove i prelievi sono pari al 52% della disponibilità locale; del tutto critica è la situazione al Meridione, dove i prelievi sono pari al 96% delle disponibilità locali.

Tra i settori d’impiego, la parte dominante è svolta dall’agricoltura, seguono l’industria, gli usi civili, l’energia (essenzialmente al Nord) e, più limitatamente, il turismo.

L’agricoltura è decisamente il settore più idroesigente. A livello nazionale, oltre il 50% delle risorse sono, infatti, destinate ad usi irrigui, soprattutto nel Sud e nelle Isole (meno “assetati” sono invece i campi dell’Italia centrale, che richiedono il 40% dell’acqua prelevata in zona). Il sistema, tuttavia, appare tutt’altro che impeccabile, ed anzi la produttività dell’acqua nell’agricoltura italiana è tra le più basse dell’Unione Europea. L’irrigazione, inoltre, spesso attinge alle falde sotterranee, al cui inquinamento – come vedremo - a sua volta contribuisce con i concimi ed i pesticidi. Del resto, a dover essere denunciata, è proprio la “logica industriale” che sottende ormai all’agricoltura, e che porta ad un utilizzo irresponsabile e non rinnovabile degli elementi naturali, suolo ed acque innanzitutto.

Il prelievo per usi industriali è sul livello del 20-30% rispetto al totale. E’ concentrato soprattutto nelle regioni del Nord Italia (come anche l’utilizzo per l’energia delle acque).

Circa il 10-20% dei prelievi è destinato agli usi civici. L’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha stabilito in 50 litri al giorno (15 m3 annui) pro-capite il fabbisogno essenziale di acqua per usi domestici. Gli italiani, con 278 litri di acqua al giorno, sono ben al di sopra di tale soglia ed anzi sono in testa anche rispetto alle altre nazioni europee (vedi tabella 3, i cui ultimi dati sono, però, aggiornati al 1995). La tabella 4 riporta i consumi (in metri cubi annui a persona) nelle principali città italiane. Le differenze sono sensibili: si passa dagli oltre 100 m3 di Torino ai 51,6 m3 di Campobasso e ai 45,6 m3 di Firenze. Le differenze, avverte l’ISTAT, sono dovute alle diverse condizioni del servizio idrico e alle abitudini di consumo nelle singole città. Si noti che di tali quantità soltanto il 2-3% viene consumato propriamente per bere o per l’alimentazione, mentre il resto è assorbito dallo sciacquone (30%), da lavastoviglie e lavatrici (30%), dal bagno, o doccia, e dagli altri usi, lavaggio dell’auto compresa. Irrinunciabile, quindi, appare la creazione di una rete duale, che consenta di riservare l’acqua potabile agli usi più delicati, mentre per scarichi e usi-extradomestici si potrebbe utilizzare acqua non trattata.

L’acqua per usi domestici, infine, proviene in gran parte dalle falde sotterranee (l’85% del totale), in genere meno inquinate di quelle superficiali e che quindi richiedono minori trattamenti; al Sud e nelle Isole, rilevanti sono anche gli invasi artificiali, da cui si ricava acqua potabile nella misura del 15-25%. Pressoché assenti, invece, i processi di dissalazione dell’acqua marina, che invece forniscono acqua ad altri paesi del Mediterraneo, come Spagna, Malta o Cipro.

 

GLI SPRECHI E LE CARENZE

Non tutta l’acqua prelevata, tuttavia, finisce per essere concretamente utilizzabile. La “Relazione sullo stato dell’Ambiente 2001”, a cura del Ministero dell’Ambiente, quantifica all’incirca nel 27% del totale l’acqua che si perde tra il prelievo e l’effettiva erogazione. Il dato è più o meno omogeneo per tutto il territorio nazionale (si passa dal 23% del Nord al 30% del Sud e delle Isole) e pone, purtroppo, anche stavolta l’Italia nelle posizioni di vertice nella classifica degli spreconi d’acqua tra i Paesi europei.

La causa di questi sprechi è, innegabilmente, strutturale. La rete idrica italiana necessiterebbe di adeguamenti e dell’investimento di ingenti risorse economiche volte a migliorare il sistema di adduzione e distribuzione, gli impianti di depurazione e le reti fognarie (le cui carenze contribuiscono all’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee), la formazione del personale addetto. La cd. Legge Galli (L. 36/94), che regolamenta il sistema idrico italiano, prevede del resto che il risparmio della risorsa acqua avvenga a partire proprio dal “risanamento e graduale ripristino delle reti esistenti che evidenziano rilevanti perdite”. Solo per il Sud, la spesa dovrebbe aggirarsi sui 100 mila miliardi di lire (la stima è del Comitato per la Vigilanza sull’Uso delle Risorse Idriche, ed è stata ripresa nel “Piano acqua per il Sud” dal Governo). Ma si tratta di una pia speranza. Anzi, finora, nonostante il progressivo invecchiamento delle infrastrutture idriche, gli investimenti sono diminuiti. Accentuando la già generale contrazione delle spese per opere pubbliche, gli investimenti in opere idriche dal 1985 al 1998 si sono ridotti di oltre 2/3.

Non sorprenderà, quindi, che lo spreco di acqua è aumentato, arrivando, come detto, all’attuale 27%, contro il 17%, ad esempio, registrato nel 1975. Particolarmente eloquente è la figura 1, dove vengono raffrontate le quantità di acque addotte, immesse in rete, erogate all’utenza e, per contro, disperse, nel 1975 e nel 1987: in sostanza, dopo 12 anni di invecchiamento del sistema, la maggiore quantità di acqua addotta ed immessa in rete nel 1987 è finita soprattutto dispersa.

L’inadeguatezza del sistema idrico (ma anche la disomogeneità della disponibilità delle risorse) fa sì che, paradossalmente, nonostante la grande disponibilità di acque immesse in rete, in molte zone della penisola l’acqua potabile resti un bene raro, centellinato a giorni o ad ore. Il problema riguarda soprattutto l’Italia meridionale ed insulare. Nel 2000, il 24,3% delle famiglie del meridione ed il 37,1% di quelle insulari hanno lamentato significative interruzioni nella fornitura d’acqua, contro una media nazionale del 15% (tabella 5, dati ISTAT). Ad essere più colpite sono la Sicilia (33,7%), la Sardegna (47,3%), la Calabria (47,9%), regioni per cui si manifestano scenari da emergenza di protezione civile (in Sicilia, nel 2001, è stato nominato un Commissario Straordinario dell’emergenza idrica). Colpisce la presenza di forti carenze anche in regioni piccole e ricche di risorse, quali il Molise (18,1%) e la Basilicata (28%): il problema è dato, oltre che dall’alta percentuale di perdite, anche dalla cessione delle acque locali ad altre regioni (soprattutto Puglia) su cui è sorto un acceso contenzioso politico-economico.

 

ACQUE MINERALI

Un discorso a parte meritano i consumi di acque minerali.

Gli italiani hanno il duplice primato di essere il popolo che, in Europa, consuma più acqua per usi domestici, ma anche di quello che ne beve di meno. La nostra, ovviamente, non è minor sete; semplicemente, ci abbeveriamo con acqua minerale. E infatti siamo in testa ai paesi europei come i maggiori consumatori di acque minerali, con 140 litri a testa, prima di belgi (124 litri) e tedeschi (99 litri); ultimi gli olandesi, con 17 litri pro-capite (la stima è del quotidiano tedesco Die Zeit, per il nostro periodico Altroconsumo, invece, i litri consumati dagli italiani sarebbero stati 155 a testa).

L’alto consumo di acque minerali è dovuto, innegabilmente, a diversi fattori: ci sono, sicuramente, gusti personali e talvolta indicazioni mediche, ma essenzialmente c’è sfiducia nei confronti dell’acqua potabile di casa. Secondo l’ISTAT, nel 2000 il 44,7% delle famiglie italiane non aveva fiducia nell’acqua che esce dai rubinetti di casa; il dato, in leggero calo rispetto agli anni precedenti (nel 1998 e nel 1999 la percentuale di sfiducia era superiore al 46%) riguarda un po’ tutt’Italia, con la punta massima della Sardegna (79,6%) e, al contrario, la punta minima del Trentino Alto Adige, dove meno del 10% delle famiglie ha espresso sfavore verso l’acqua potabile (tabella 6, dati ISTAT).

Da bene voluttuario, così, l’acqua minerale è diventata elemento quotidiano del nostro bere: il 71% degli italiani ha un consumo rilevante di acque minerali, con oltre 1⁄2 litro giornaliero (in sostanza soddisfa la sua sete essenzialmente con tali acque). I consumi massimi si registrano nella fascia d’età tra i 24-35 anni, mentre gli anziani ne bevono meno (il che conferma come le motivazioni terapeutiche siano le meno rilevanti).

L’eccessivo ricorso alle acque minerali, se può soddisfare i produttori, costituisce comunque un pessimo segnale, sotto più punti di vista.

Innanzitutto, esso è frutto, come detto, di sfiducia verso la qualità dell’acqua potabile. Sotto accusa, aldilà delle vere e proprie emergenze inquinamento, è soprattutto il processo di potabilizzazione tramite clorazione. Per eliminare i batteri, e quindi il rischio di infezioni sanitarie, si ricorre essenzialmente al cloro, che però dà all’acqua un odore ed un sapore spesso sgradevoli. In alternativa al cloro, in alcuni comuni si sta già sperimentando un diverso processo di potabilizzazione tramite ozono e raggi ultravioletti, anche allo scopo di scongiurare la formazione di trialometani (THM), quei composti prodotti dalla clorazione di cui alcuni studi hanno sostenuto la tossicità.

Ciò che, però, viene facilmente dimenticato, grazie anche al solito martellamento pubblicitario, è che anche le acque minerali sono tutt’altro che più pure dell’acqua dei rubinetti. Anzi, a rigore, esse possono anche essere non potabili a norma di legge e contenere sostanze chimiche in limiti superiori a quelli ammessi per l’acqua degli acquedotti. A norma dei D.Lgs. 105/92 e del D.M. 542/92, che regolamentano il settore delle acque minerali naturali, queste sono più che altro acque terapeutiche, dotate di “caratteristiche igieniche particolari e proprietà favorevoli alla salute”. Per questo motivo, il legislatore è più elastico che nei confronti dell’acqua da rubinetto, ed ammette, ad es., presenze di arsenico fino a 200 µg/l, il quadruplo della concentrazione ammessa oggi per le acque da acquedotto, e addirittura 20 volte la concentrazione ammessa a partire dal 2003 (il D.Lgs. 31/2001 prevede infatti il limite di 10µg/l). Vanno inoltre considerati i più frequenti controlli cui sono sottoposte le acque potabili rispetto a quelle minerali (le cui analisi complete vengono effettuate a cadenze quinquennali), nonché la possibilità di alterazioni a seguito di stoccaggi non idonei (micidiale, ad es., è la prolungata esposizione al sole delle bottiglie in plastica). Infine, trattandosi di acque medicinali, andrebbero considerate le eventuali controindicazioni, con i rischi connessi al prolungato assorbimento di alcune sostanze e alla carenza di altre.

Altro aspetto negativo è, naturalmente, il costo. Le acque minerali pesano sul bilancio domestico dalle 300 alle 1000 volte in più delle acque da rubinetto. Una stima ISTAT riferita alle sole famiglie che effettivamente consumano acqua minerale, quantifica in £. 34.600 la spesa mensile. Oltre 400.000 lire all’anno per bere l’acqua, quando invece per i 4-5 litri giornalieri di acqua potabile che una famiglia normalmente consuma, basterebbero (pur nella selva tariffaria degli oltre 8000 gestori italiani) 4/6.000 lire annue. Ma i costi non finiscono qui: l’80% delle bottiglie è in PET, ed il vuoto a rendere, anche sul vetro, è del tutto marginale. Al costo dell’acqua, quindi, si aggiunge anche il costo, monetario ed ambientale, dello smaltimento del rifiuto bottiglia; costo che, com’è noto, nell’attuale sistema italiano degli imballaggi, fondato sull’irresponsabilità dei produttori e del consumatore diretto, grava su tutta la collettività.

Ulteriore aspetto negativo è la “privatizzazione” delle acque. Le acque minerali, come ogni altra acqua in Italia, sono di proprietà pubblica. Il loro sfruttamento da parte dei privati avviene su concessione da parte delle Regioni, che in cambio ottengono soltanto le briciole. La Lombardia, ad es., che rappresenta una delle regioni più ricche di fonti minerali, in cambio di 8 miliardi di litri estratti dalle sue fonti, incassa meno di 300 milioni di lire, mentre il relativo giro d’affari di “acque minerali lombarde” supera i 2 mila miliardi di lire. In sostanza, l’operazione di esproprio della collettività (che si vede privata, nei fatti, dell’accesso a fonti in precedenza libere) a favore dell’imbottigliatore avviene in cambio di una misera contropartita. A trarne i benefici economici, poi, sono soprattutto le multinazionali del settore. Il sistema delle acque minerali, infatti, è a forte concentrazione, e due soli soggetti (la Nestlé, proprietaria in Italia dei marchi San Pellegrino, Levissima e Panna, e la francese Danone, cui appartengono Ferrarelle e San Benedetto) rappresentano più del 30% dell’intero mercato mondiale, con consistenti quote, come s’è visto, anche in Italia.

 

LA QUALITA’ DELLE ACQUE

Non è possibile, ovviamente, definire in maniera unitaria la qualità delle acque nazionali. Il D.Lgs. 152/99, nel fissare gli obiettivi di qualità, differenzia 6 tipologie di “corpi idrici significativi” (corsi d’acqua superficiali, laghi, acque marino-costiere, acque di transizione, corpi idrici artificiali, acque sotterranee) e 4 tipologie di “acque a specifica destinazione” (acque destinate alla potabilizzazione, di balneazione, idonee alla vita dei pesci, idonee alla vita dei molluschi). Per le acque a specifica destinazione, la qualità, quindi, è data dalla possibilità di una precisa utilizzazione da parte dell’uomo, dei pesci o dei molluschi, mentre per i corpi idrici significativi, la qualità è data non solo dal rispetto di parametri prefissati ma anche dalla capacità dei corpi idrici stessi di “mantenere i processi naturali di autodepurazione e di supportare comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate”.

Per le acque destinate alla potabilizzazione (superficiali o sotterranee), l’art. 7 del D.Lgs. 152/99 prevede da parte delle Regioni una classificazione in base alle caratteristiche fisiche, chimiche e microbiologiche. Sono state così individuate tre categorie: l’A1, per cui è sufficiente un trattamento fisico semplice e la disinfezione, l’A2, per cui si prevede un trattamento fisico e chimico normale più la disinfezione, l’A3, che necessita di trattamento fisico e chimico spinto con affinazione e disinfezione. Se l’acqua è al di fuori di queste tre categorie, essa non è utilizzabile per usi potabili, a meno che non ci siano alternative d’approvvigionamento, nel qual caso anche acque inferiori ai valori della categoria A3 possono essere potabilizzate, sempre dopo adeguato trattamento. Una statistica del Ministero della Salute per il 2000, relativa alle fonti di captazione per l’acqua potabile per i Comuni superiori ai 5.000 abitanti, dimostra l’appartenenza delle acque alle tre categorie (tabella 7). Il gruppo prevalente (52%) è dato dalla categoria A2, ed il ricorso ad acque di qualità inferiore all’A3 è limitato a due sole regioni, l’Emilia Romagna e soprattutto la Sardegna (regione per cui sono stati presentati ben 124 – oltre la metà del totale nazionale! - programmi d’azione volti al miglioramento della qualità dell’acqua). Per le acque potabili, il Ministero della Sanità ha censito nel 1998 ben 597 casi di inquinamento, dovuti soprattutto a fattori organici e batteriologici, ma anche nutrienti (azoto e fosfati, derivanti dalle attività agro-zootecniche) e chimici.

Per le altre acque ad uso specifico, la situazione è la seguente. Per le acque destinate alla balneazione (parliamo esclusivamente di acque dolci), l’82% dei laghi sono risultati favorevoli (quindi balenabili), mentre per i fiumi la percentuale positiva è più bassa, e si assesta sul 49,5% del totale campionato. Per le acque ritenute idonee alla vita di pesci e molluschi, la Relazione sullo stato dell’ambiente 2001 parla di una qualità rimasta sostanzialmente buona, e talvolta anche migliorata (anche se non mancano i casi di non conformità ai parametri).

Tra i cd. corpi idrici significativi, ci limitiamo ad uno sguardo ai corsi d’acqua e alla falde sotterranee. Per i fiumi, lo stato della qualità è di difficile definizione, a causa della parzialità dei dati disponibili e dei divergenti sistemi di monitoraggio. Pur nella diversità degli indici di valutazione, comunque, ed in una scala di valori che va da 1 a 5, può essere notato come pochi esami abbiano dato risultati nettamente positivi (rapportabili alla prima classe di qualità), mentre la maggior parte dei casi rientri nelle classi 2 e 3 (qualità buona o comunque sufficiente), con non sporadiche cadute nelle classi 4 (qualità scadente) e finanche 5 (qualità pessima, o fortemente inquinata). Tra attività industriali e agro-zootecniche, insediamenti urbani e captazioni per uso energetico (che riducendo la portata del fiume incidono anche sulla sua capacità di depurarsi), i nostri fiumi ce la devono proprio mettere tutta per autodepurarsi. Con risultati alterni: il Po, ad esempio, riesce a ripulirsi e a mantenere una qualità media (ben peggiore è la situazione di molti suoi affluenti); non ce la fa proprio, invece, il Tevere, le cui capacità di autodepurazione sono annullate dai troppo frequenti scarichi che incontra nel suo cammino.

Per le acque sotterranee, va evidenziato, in primo luogo, il ridottissimo livello di informazioni (nonostante esse ci forniscano l’85% dell’acqua destinata agli usi potabili); vanno, poi, evidenziati gli 851 eventi inquinanti verificatisi nel 1999, dovuti essenzialmente all’agricoltura (pesticidi, erbicidi, concimi chimici) e alla zootecnia (complessivamente 216 eventi) ma anche agli scarichi industriali (117) e fognari (107). In crescita, anche il preoccupante fenomeno delle intrusioni saline (soprattutto in Puglia, Emilia Romagna, Sicilia e Toscana).

 

LA GESTIONE

A gestire i quasi 50.000 impianti (tra acquedotti, reti di distribuzione e fognarie, depuratori) che costituiscono il sistema idrico italiano, per anni ci hanno pensato una miriade di soggetti, con un’elevatissima frammentazione gestionale. Oltre 8.100, secondo l’ISTAT, erano al 1 aprile 1999 i gestori, in massima parte Comuni (circa l’80%) e solo residualmente aziende municipalizzate e speciali, consorzi pubblici, società per azioni. Caratteristica uniforme di tali soggetti, inoltre, è il ridotto numero di impianti gestiti: considerando quale unico impianto le reti di distribuzione e quelle fognarie per ciascun Comune, emerge che quasi l’89% dei gestori si occupa di un numero di impianti inferiore a 10, ed appena il 2% raggiunge grandi dimensioni, con più di 30 impianti gestiti.

E’ parere unanime che tale estrema frammentazione abbia costituito uno dei punti dolenti del sistema idrico nazionale, ostacolandone l’ammodernamento strutturale e gestionale e condannandolo all’inefficienza.

Il legislatore (L. 36/94, cd. Galli), così, ha inteso porvi rimedio, attraverso un’azione di riordino volta all’integrazione sia funzionale (concernente le diverse fasi del ciclo, dalla captazione allo smaltimento) sia territoriale (relativa a bacini d’utenza minimi).

Il riordino del sistema idrico italiano avviene sulla base degli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO), bacini di utenza di più ampie dimensioni territoriali e demografiche, da delimitare, secondo la legge Galli, nel “rispetto dell’unità del bacino idrografico o del sub-bacino o dei bacini idrografici contigui” (in realtà, lo sganciamento dalle unità amministrative locali non è avvenuto, e gli Ambiti individuati, piuttosto che rispettare i bacini idrografici, sono per lo più modellati sui territori provinciali o regionali).

Approvata nel gennaio 1994, la legge Galli non ha trovato, però, ancora completa attuazione. Nell’aprile scorso, il Comitato per la Vigilanza sull’uso delle Risorse Idriche (organismo di vigilanza disposto proprio dalla legge Galli) ha pubblicato il “Primo Rapporto sullo stato di avanzamento della L. 36/94”, dove sono evidenziati ritardi notevoli, soprattutto a livello periferico. Le Regioni hanno individuato complessivamente 89 ATO, con una drastica razionalizzazione, quindi, rispetto agli oltre 8.100 gestori (anche se – va osservato - non tutte le Regioni hanno disposto un unico gestore per Ambito). Tuttavia, di questi 89, solo 48 risultavano effettivamente insediati: una percentuale del 54%, che copre appena il 49% della popolazione ed il 44% degli 8102 Comuni italiani.

Sul piano operativo, poi, appena 25 degli 89 Ambiti avevano terminato la fase della ricognizione delle opere idriche (essenziale per il passaggio alla successiva fase della programmazione degli interventi), ed appena 12 avevano redatto (e 7 anche approvato) il Piano di Ambito, che deve fissare i livelli del servizio obiettivo. In sostanza, la nascita del Sistema Idrico Integrato (SII) avviene a passi lentissimi e, ad oggi, ancora non ha prodotto i suoi frutti nei confronti degli utenti.

La legge Galli ha dettato, inoltre, il superamento della cd. “gestione in economia”, quella cioè effettuata direttamente dai Comuni. Pur non cancellando bruscamente tale modalità (l’art. 10 prevede che le gestioni esistenti, anche se in economia, continuino a gestire i servizi finché non viene attuato il nuovo Sistema Idrico Integrato), la nuova normativa si adegua ai mutati indirizzi amministrativi (introdotti dalla L. 142/90) e si orienta su strumenti “privatistici” quali la concessione a terzi o l’affidamento diretto ad Aziende speciali e a Spa o Srl miste a capitale prevalente pubblico. Nei fatti, la maggior parte degli ATO non ha ancora definito le forme di affidamento, mentre chi lo ha definito (compresi i due unici ATO che hanno già completato l’affidamento) ha scelto quasi sempre la Spa a maggioranza pubblica.

La riforma si completa con l’obbligo del raggiungimento del pareggio economico finanziario della gestione, da ottenere attraverso una politica tariffaria che assicuri la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio. Sono comunque previste modulazioni nelle tariffe, per agevolare i consumi domestici essenziali e le fasce sociali a reddito minore.

 

BENE COMUNE O RISORSA LIMITATA?

La politica tariffaria ed il superamento della gestione diretta da parte dei Comuni hanno fatto parlare di rischio “privatizzazione” per le acque. Tale allarme è stato lanciato, in particolare, dal Comitato per il Contratto Mondiale sull’Acqua, un coordinamento di ong e associazione varie, che sostiene la natura di bene comune e patrimonio dell’intera umanità delle acque, e conseguentemente il diritto di tutti ad accedervi (il Comitato, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, ha anche pubblicato“Il pozzo di Antonio”, un ampio dossier sul malessere del nostro sistema idrico).

In effetti, più che appartenere alla categoria dei beni mercificabili, l’acqua è innanzitutto un’esigenza vitale, come l’aria che respiriamo. Conseguentemente, un elementare senso di giustizia porta a ritenere che essa debba essere garantita a tutti e che vada respinta l’idea che il suo valore (e l’accesso ad essa) possano essere determinati dalle regole del mercato. Nel contempo, essa però è anche una risorsa naturale non illimitata, che va sottoposta ad un uso razionale, senza sprechi e nel rispetto anche delle generazioni future e di tutto l’ambiente.

La legge Galli cerca di conciliare le due esigenze, stabilendo, da un lato, che le acque devono essere utilizzate nel rispetto di “criteri di solidarietà” e, soprattutto, che “tutte le acque superficiali e sotterranee … sono pubbliche” (tali principi potrebbero addirittura trovare spazio nella Costituzione qualora fosse approvata una proposta di modifica dell’art. 2, finora sottoscritta da 50 parlamentari di tutte le forze politiche, volta ad introdurre il seguente comma “Tra i diritti inviolabili, la Repubblica riconosce l’acqua come bene comune pubblico e fonte di vita insostituibile. Ne tutela e garantisce l’accesso effettivo a tutti”); dall’altro, che qualsiasi uso delle acque avvenga salvaguardando “le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale”.

Naturalmente, va attesa la piena applicazione della legge per vedere se essa manterrà le promesse. Intanto, due aspetti ci comunque sembrano rilevanti. Il primo è che non crediamo sbagliato il principio che l’acqua vada pagata. In una società opulenta e consumista come quella italiana, dove i nostri redditi vengono impiegati per mille beni voluttuari e spesso completamente inutili, il principio “politico” (prima ancora che economico) che un bene prezioso e da usare con parsimonia debba essere pagato ci appare più che fondato. Non si tratta di mercificare un bene essenziale, né di voler assoggettare al “Dio mercato” una risorsa vitale, bensì di spingere le persone, tramite lo strumento che realisticamente più comprendono (il loro portafoglio) ad un uso oculato della risorsa acqua. Introducendo tutti i rimedi sociali per evitare che le fasce più disagiate siano escluse dall’accesso al bene, ma anche utilizzando lo strumento tariffario (con una progressione per fasce di consumo, ed anche fissando limiti massimi al consumo stesso) per dissuadere dagli sprechi la stragrande maggioranza delle persone, spesso attente più alla lucentezza dell’automobile che allo sperpero della preziosa risorsa acqua.

Una tale finalità – ed ecco il secondo aspetto – è, per sua natura, opposta a quella perseguita da privati, i quali, pur dovendo gestire una risorsa secondo criteri economici, hanno comunque l’intento di massimizzare il profitto, e quindi di vendere il più possibile, anche se ciò può significare l’esaurimento delle scorte nel giro di pochi decenni. In tale senso, condividiamo le preoccupazioni per gli appetiti che l’acqua-business (e non solo quello delle minerali) sta suscitando in grandi gruppi economici, ed auspichiamo che il pubblico non rinunci alla sua gestione.

 

Qualche consiglio…

Quando si parla delle perdite nella nostra rete idrica, siamo presi, giustamente, da un moto di indignazione. Ma – Fare Verde intende sempre ricordarlo – non esistono soltanto le responsabilità pubbliche. Favoriti dal basso costo dell’acqua (le tariffe italiane sono tra le più basse d’Europa), anche noi, troppo spesso, dimentichiamo che l’acqua è una risorsa preziosa e non illimitata.

Di seguito riportiamo alcuni consigli per un uso più responsabile dell’acqua. Tracciato il solco, siamo sicuri che ognuno saprà aggiungere altre accortezze, vincendo con il suo buon senso le cattive abitudini e la pigrizia.

 

-          evitate di lasciare inutilmente i rubinetti aperti. Per quanto banale possa apparire il richiamo, si tratta di uno dei comportamenti più diffusi, come dimostra anche una recente indagine, per cui il 73% dei giovani italiani tra i 14 ed i 21 anni lascia ordinariamente aperto il rubinetto dell’acqua anche quando non ne fa uso;

-          applicate ai rubinetti un frangigetto, che riduce il consumo di acqua senza ridurne la potenza del getto;

-          preferite la doccia al bagno: oltre che più veloce, la doccia fa consumare dai 30 ai 50 litri, contro 150-180 di un bagno (e chiudete il rubinetto quando vi insaponate); in proposito, anche un consiglio romantico: fate la doccia o il bagno insieme al vostro partner;

-          riducete la portata dello sciacquone, che consuma almeno il 30% dell’acqua domestica; se non volete piegare l’asta del galleggiante (basterebbero 2-3 gradi), un metodo semplice ed efficace è quello di inserire nello scarico un corpo solido (un mattone, una bottiglia di plastica piena d’acqua) che ne ridurrà la capienza e quindi la caduta;

-          fate controllare spesso gli impianti domestici da personale specializzato, e non sottovalute l perdite;

-          usate lavatrici e lavastoviglie solo a pieno carico e inserite i programmi economizzatori dove possibile; per ogni ciclo completo di lavaggio si consumano dagli 80 ai 170 litri d’acqua;

-          riciclate l’acqua della bollitura della pasta per lavare i piatti: essendo ricca di amidi, oltre a far risparmiare l’acqua, sgrasserà le stoviglie, facendo risparmiare anche il detersivo;

-          innaffiate le piante al mattino o, meglio, al tramonto, usando acqua di pozzo o piovana, dove possibile; in casa, riciclate per le piante l’acqua usata per il lavaggio delle verdure;

-          non sprecate l’acqua potabile per il lavaggio delle automobili: arriverà la pioggia!