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Questi libri maledetti salvati dai remainders

di Pierluigi Biondi - 22/08/2007

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Avanzo”, “scarto”, “residuo”, è la traduzione letteraria della parola inglese remainder. Nel gergo dei bibliofili, invece, rappresenta un termine in grado di scaldare i cuori e scatenare passioni, riaccenderne di sopite e alimentarne nuove. Infatti, con remainders si definiscono quei libri finiti fuori catalogo e di cui si sono perse, a volte irrimediabilmente, le tracce.


È successo per le opere prime di Alberto Pincherle e Kurt Suckert, meglio conosciuti con i noms de plume di Alberto Moravia e Curzio Malaparte. Ma forse il caso più eclatante, riportato da Paolo Di Stefano sulla terza pagina del Corriere della Sera di qualche tempo fa, riguarda il premio Nobel Günter Grass e il suo celebre Tamburo di latta. Stampato in cinquemila copie da Valentino Bompiani, finì dritto dritto al macero, forse a causa di passaggi particolarmente scabrosi e, in alcuni casi, apertamente blasfemi.

Di Stefano ipotizza che «Bompiani non avesse letto il libro prima della pubblicazione e che fosse rimasto sconcertato quando se lo ritrovò, rilegato, tra le mani». La leggenda vuole che dell’edizione “vietata” del 1962 rimanga una sola copia, il cui proprietario, com’è facile immaginare, difficilmente se ne priverà: inutile affannarsi a cercarla. Naturalmente, quella del Tamburo di latta è una storia a sé: il libro – successivamente stampato da Feltrinelli e chissà da quanti altri – conobbe una fama immensa, alimentata nuovamente pochi mesi fa, in maniera un po’ sinistra, dal clamore suscitato dalla rivelazione del passato da SS di Grass. Se un Nobel censurato fa notizia, non altrettanto accade per quei titoli condannati all’oblio dallo scarso successo di pubblico, dal fallimento della casa editrice o perché mai più ristampati. Per tutti questi volumi, la risposta laconica (quanto definitiva!) che ci si sente ripetere nei circuiti di distribuzione convenzionali è sempre la stessa: esaurito. Certo: magari il vostro negoziante di fiducia, pur di assecondare la vostra insana voglia di rarità, proverà a fare una ricerca sul suo computer. Ma in cuor suo già sa che è una perdita di tempo e vorrebbe dirvi di pensare ad altro, consigliandovi di comprare, in alternativa, quel best-seller che fa bella mostra di sé impilato in centinaia di copie sul pavimento o negli scaffali del punto vendita.

Meglio, molto meglio, provare a tuffarsi sui siti internet specializzati o scartabellare nella polverosa confusione di certe librerie. Lì sì che, gorgogliose, sopravvivono le sorprese. Capita, ad esempio, di imbattersi nell’introvabile Il cacciatore ricoperto di campanelli di Giuseppe Lo Presti. Romanzo dal vago sapore nietzscheano edito nel 1990 da Arnoldo Mondadori, Il cacciatore sparì ben presto dalla scena. Forse a causa della storia del suo autore, un terrorista di estrema destra detenuto nel carcere di Prato deceduto poco dopo aver dato alle stampe il suo lavoro, probabilmente per l’assoluta mancanza di appeal di titolo e copertina.

Fu solo per un caso che trovò ospitalità nel catalogo della casa editrice milanese, come si legge nella prefazione di Aldo Busi: «Questo romanzo mi pervenne alla redazione di Epoca e le dediche, una stampata nell’introduzione e l’altra vergata a mano, invocavano da sole la diffidenza: la prima diceva “A tutti i camerati caduti” e l’altra iniziava con “Al Maestro” eccetera. La leggenda vuole che lo scrittore affermato butti il tutto subito nel cestone della carta. Sia come sia, lette dieci pagine di Il cacciatore (il cui titolo originale, orrorifico, era L’indominio della discordanza, il cui significato sfuggiva anche al Lo Presti stesso), ne ho letto subito altre venti, con mio grande stupore. Con la pubblicazione di questo romanzo si scaglia di nuovo una nuova e rara pietra contro i filtri editoriali gestiti dalla strainculata classe media cosmopolita tuttora incapace di accreditare all’altare della letteratura chiunque sia fuori dall’establishment sociomondanoletterario». Pubblicato, quindi, per sfida. Fino a tre anni fa, de Il cacciatore se ne trovava una copia soltanto sul sito di un venditore on-line svedese. Dopo varie prove di stabilire un contatto – effettuate da chi scrive in un improbabile inglese, tentativi regolarmente andati a vuoto – è improvvisamente ricomparso su www.comprovendolibri.it al prezzo irrisorio di tre euro: la felicità, talvolta, ti viene quasi regalata.

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Sempre la Mondadori, venti anni prima, fu protagonista di un altro caso editoriale con la pubblicazione de La distruzione del sulfureo Dante Virgili. Come ricorda Antonio Franchini, di professione editor e scrittore, nel suo Cronaca della fine (Marsilio, 2003) «nella primavera del 1970, quando la rivolta giovanile ormai si era irradiata dal cuore dell’Europa dando vita al decennio della politica e della creatività, del pacifismo e della lotta armata, dell’amore estatico e dell’odio ideologico, la Arnoldo Mondadori editore pubblicò un romanzo in lode di Hitler, ma non se ne accorse nessuno. Il titolo di quest’opera maledetta era La distruzione. Un esergo da Dostoevskij lo motivava: “Noi proclameremo la distruzione. Perché, ancora una volta, questa piccola idea è così affascinante? Verrà un tale sconquasso, come il mondo non l’ha finora veduto”. Dai Demoni, naturalmente. L’autore aveva un nome tanto impegnativo da sembrare finto, e finto in maniera tanto goffa da poter essere vero; si chiamava Dante Virgili». Franchini chiarisce anche la natura perversa del quarantenne creatore de La distruzione: «Leggendo si capiva subito che l’autore proprio non era né uno di quei versatili professionisti né uno di quei pacifici depravati che, attingendo a una loro propria interna, segreta, controllata attrazione per l’orrore, sono capaci, a seconda del caso e delle circostanze, di ricostruire “dal di dentro” la psicologia di un nazista, di un terrorista, di un serial killer o d’un qualunque altro genere di mostro a scelta. Leggendo, chiunque poteva capire che quello scrittore, quell’uomo doveva essere lui stesso il mostro. E se era così, Dante Virgili non poteva essere considerato né l’uomo né il cane, ma il morso stesso, la ferita».

Tra le pagine visionarie e allucinate de La distruzione si scopre un’inquietante preveggenza: «Ma la prossima volta. Non saranno eterni santuari le città yankees combuste dilaniate. VEDO i grattacieli d’acciaio sotto un diluvio di fiamme». Un vaticinio, con trent’anni d’anticipo, dei tremendi fatti dell’11 settembre statunitense. Singolare che, in piena contestazione, un libro con queste credenziali sia potuto giungere in libreria: meno strano è che vi sia rimasto invenduto e che sia divenuto, di conseguenza, un remainder, di quelli smarriti per sempre. In questo caso non ci sono ricerche che tengano, né librerie clandestine che regalino speranze. Neanche un qualsiasi sito svedese offre una seppur minima chance. La distruzione è scomparsa, dimenticata, dispersa. Forse bruciata, come meriterebbe. Se non fosse per la casa editrice anconetana peQuod che, come un novello Montag – il protagonista del romanzo Farenheit451 che salva i libri dal rogo – ripubblica, nell’ottobre 2003, i deliri di Virgili. PeQuod, incontentabile, si (e ci) concederà il bis con Il metodo della sopravvivenza, il romanzo inedito di Virgili scritto – tra un ricovero in clinica e l’altro – nel 1991. In quella circostanza, però, il tritacarne redazionale della Mondadori non si fa cogliere impreparato e non concede il nulla osta. L’anno dopo Virgili muore, solo come era sempre stato. Gli unici lontani parenti di cui si aveva notizia rifiutano persino di vedere per l’ultima volta il corpo basso e grasso, quasi deforme, del maniacale bolognese che sognava il Reich. La pubblicazione del Metodo, inizialmente prevista per maggio, è stata posticipata ad ottobre per “attendere” la contestuale produzione del film-documentario su La distruzione diretto da Simone Scafidi e intitolato "Dante che vide i grattacieli in fuoco", che sarà proiettato al Festival del Cinema di Roma, in programma dal 18 al 27 ottobre 2007.

Né basso né grasso – piuttosto estremamente affascinante – era Roger Nimier, scrittore in odore di collaborazionismo dalla vita disordinata ed intensa che, appena venticinquenne, stupì pubblico e critica francese con Le Hussard Blue (Gallimard, 1950). Amante delle belle donne e delle auto potenti, il suo straordinario talento letterario si infranse nel ’62 contro un muro della periferia parigina, mentre lanciava a folle velocità per le strade della capitale transalpina la sua Aston-Martin.

Fosse accaduto ai giorni nostri, una morte così spettacolare, quasi alla James Dean o alla Lady D, avrebbe assicurato un successo immediato ai suoi libri e ricche royalties agli eredi. Dovettero passare, invece, altri due anni (era il 1964) prima che un suo racconto, Giovani tristi, sbarcasse in Italia tradotto dal compianto Alfredo Cattabiani e pubblicato per la torinese Edizioni dell’Albero nella collana “Letteratura d’amore”: le ultime due copie conosciute sono state vendute su ebay più di tre anni fa. Per chi fosse interessato alla eccezionale prosa dell’ussaro Nimier è disponibile in italiano il suo Le spade (Meridiano Zero, 2002), in cui il giovane Francois Sander “solo per togliersi un capriccio” si rende responsabile – nella Francia occupata del ’44 – di un efferato ed inutile omicidio in preda ad un istinto di vitalismo auto-distruttivo tale e quale a quello del Frank protagonista de La neve era sporca di Georges Simenon.

Quelli citati sono solo alcuni degli esempi di seducenti quanto sconfinate opportunità di scoperte offra la narrativa che sopravvive nelle pieghe dell’ufficialità. Libri che non possono vantare copertine tirate a lucido o fascette con recensioni entusiaste. Libri di cui, in pochissimi, hanno sentito il bisogno di parlare. Libri scomodi e, per certi versi, disprezzati. Libri di cui – nonostante ciò o, forse, proprio in virtù di ciò – non possiamo fare a meno.

 



Nota biografica:
Pierluigi Biondi, 33 anni (L'Aquila), giornalista, collaboratore dell'Ufficio Stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, sindaco di Villa Sant'Angelo (Aq) dal 2004.