Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Si entra nell'essere con un atto di fedeltà e di amore

Si entra nell'essere con un atto di fedeltà e di amore

di Francesco Lamendola - 22/08/2007

 

 

  

Alcuni decenni di "pensiero debole" nelle sue versioni più varie e aggiornate ci hanno ormai quasi abituato a credere che la filosofia, se pure ha ancora un senso e uno scopo, non può che limitarsi a una riflessione di seconda scelta (rispetto al sapere scientifico e tecnologico) oppure, come voleva Wittgenstein, a rovistare nella mera analisi del linguaggio, rinunziando per sempre a dire "quello che non si può dire". Di contro a queste tendenze nichiliste della filosofia contemporanea, occorre invece dire ad alta voce, e ripetere senza mai stancarsene, che non si dà pensiero filosofico che non sia riflessione sull'essere, dell'essere e per l'essere; che tutti i problemi filosofici riconducono, in ultima analisi, alla questione dell'essere; che se avremo dato una risposta a tutte le domande possibili e immaginabili, ma non avremo saputo porre la domanda fondamentale sull'essere, non ci saremo avvicinati neppure di un millimetro alla risposta sul senso del mondo e sul nostro ultimo destino. È la porta dell'essere, quella a cui non dobbiamo stancarci di bussare  ribussare, mai, mai, checché ne dicano semiologi e filosofi del linguaggio, esperti di estetica e di metafisica, di logica e di epistemologia e di tutte le possibili branche e specializzazioni del sapere contemporaneo, cosmologi e teologi compresi.

Che cos'è l'essere? Perché, invece del nulla, esiste qualcosa? E qual è la relazione che sussiste fra il nostro essere, il nostro dato di esserci, e l'essere in generale, l'essere in quanto tale, assoluto, radicalmente e ontologiamente contrapposto al non-essere? Se la filosofia non si riappropria di queste domande, sempre più si arrogheranno il diritto di porle e di rispondervi coloro che rappresentano, oggi, la deliberata e programmatica negazione dell'autentico spirito filosofico: quegli scienziati che sconfinano dal proprio legittimo campo d'indagine per autonominarsi filosofi e per porre i problemi filosofici su di un piano scientifico, con una metodologia filosoficamente erronea e animati da un pregiudizio scientista in base al quale solo la scienza ha il diritto di avanzare delle risposte alle domande ultime dell'uomo, perché solamente essa è in possesso di un criterio di verità rigoroso e inconfutabile.

Ne riportiamo due tipici esempi: quello degli astrofisici cinesi Fang Li Zhi e i Shu Xian e quello del cosmologo inglese Stephen Hawking.

Scrivono i due citati scienziati cinesi (in La creazione dell'universo, Milano, Garzanti, 1990, pp. 207-210):

 

"Si è sempre pensato che la prima mossa, ossia l'origine dell'universo, esulasse dal campo della fisica, poiché in linea di principio sembra impossibile determinare la prima mossa con mezzi fisici.

"In primo luogo, non possiamo cercare la causa della prima mossa, o inizio dell'universo, poiché tale concetto implica che prima della prima mossa non esisteva nulla.

"In secondo luogo, non possiamo cercare la causa della prima mossa, o inizio dell'universo, fuori dell'universo, poiché il concetto di universo implica che nulla esista al di fuori di esso.

"In terzo luogo, non possiamo andare a cercare la causa neppure dentro l'universo. Poiché il concetto di prima mossa, o inizio dell'universo, implica che tutto ciò che è dentro l'universo ne è il risultato, e non può esserne la causa.

"Così, non possiamo cercare la base fisica della prima mossa né prima della genesi dell'universo, né dopo la sua genesi, né al di fuori di esso. Se ne può concludere soltanto ce: nulla iniziò la prima mossa, o inizio dell'universo.

"A prima vista, siamo dunque in un vicolo cieco! Ma l'uscita dall'inferno sta precisamente in questo vicolo cieco. Il cosiddetto 'nulla' significa 'non-essere', e perciò la nostra ultima proposizione può essere definita come equivalente a: «Il 'non-essere' può dare inizio alla prima mossa, cioè all'inizio dell'universo».

"La soluzione del problema della prima mossa incomincia dalla scoperta, cui dobbiamo mirare, del modo in cui l'universo può essere generato dal 'non-essere'.

"«L'essere dal 'non-essere', com'è mai possibile?». Sembra un'affermazione puramente metafisica: come si può costruire una teoria fisica dell'essere dal 'non-essere'? La gente ha avuto questo timore per molto tempo, e con piena giustificazione.

"Nel 1982, la situazione incominciò a cambiare. Quell'anno si svolse a Cambridge in Inghilterra un simposio in cui, per la prima volta, la genesi dell'universo dal nulla fu esaminata come un problema fisico. Il fisico sovietico Linde, a questo simposio, disse alcune cose che rappresentano il pensiero di molti cosmologi sull'«essere dal non-essere». Disse fra l'altro:

"«La possibilità che l'universo sia stato generato dal nulla è un'ipotesi molto interessante e dovrebbe essere approfondita. Una domanda che rende molto perplessi relativamente alla singolarità è questa: che cosa precedette la genesi dell'universo? Questa domanda sembra assolutamente metafisica, ma la nostra esperienza ci dice che tali problemi metafisici trovano talvolta soluzione attraverso la fisica».

"Il commento di Linde non era dettato da un impulso momentaneo, ma aveva a fondamento l'intera evoluzione della cosmologia. In particolare, varie 'risposte chiave' dell'intera questione 'essere dal non essere'.

"Una di queste chiavi è il conoscere che cosa è il 'non-essere'. Nella cosmologia moderna, il 'non-essere' è definito come segue:

"«Ciò che è fuori dell'universo è 'non-essere', ossia: nulla può esistere fuori dell'universo».

"È un'affermazione molto recisa. In filosofia, la si chiama negazione categorica. Molti precedenti ci mostrano che e più fondamentali leggi fisiche sono spesso formulate in forma di negazioni categoriche. Per esempio, il Primo Principio della Termodinamica afferma che è impossibile costruire una macchina di mito perpetuo di prima specie; il Secondo Principio della Termodinamica afferma la stessa cosa a proposito di una macchina capace di produrre un moto perpetuo di seconda specie; il principio della Relatività afferma che è impossibile misurare la velocità assoluta; il Principio di Equivalenza afferma che è impossibile distinguere, localmente, massa inerziale e massa gravitazionale. Queste negazioni categoriche sono molto ricche e feconde. Da esse possiamo trarre molte conclusioni affermative dal punto di vista della fisica.

"La teoria dell'«essere dal non-essere» ha scelto anch'essa questo metodo per trattare il problema della genesi del cosmo. L'essenza di questa teoria è la seguente: partendo dalla negazione «nulla può esistere fuori dell'universo» arriveremo ad affermazioni, a risposte positive riguardanti la prima mossa. In particolare, avendo come premessa che «ciò che è fuori dell'universo è non-essere». Cercheremo di determinare il tempo, lo spazio e il vuoto del periodo inflazionario."

 

In questa pagina, colpiscono affermazioni come quella secondo la quale il problema del non-essere possa venire trattato come un qualsiasi altro principio della fisica; o quella seconda la quale i problemi metafisici possono trovare una soluzione attraverso la fisica. Il meno che si possa dire in proposito è che,quando i filosofi diventano troppo timidi (e abdicano al loro diritto-dovere di riflettere sulla natura e sui fini della scienza), gli scienziati diventano un po' troppo audaci (e pretendono di dare risposte fisiche ai problemi filosofici; o meglio, pretendono di dare risposte filosofiche ai problemi filosofici, ma al di fuori una corretta impostazione filosofica e soprattutto servendosi di una metodologia fisica.

Il secondo esempio è quello che ci presenta il celebre cosmologo Stephen Hawking, titolare della cattedra di matematica lucasiana all'Università di Cambridge. Nel suo recente libro La teoria del tutto. Origine e destino dell'universo (Milano, Mondolibri, 2003, pp.167-168), egli testualmente afferma:

 

: «Una volta, Einstein si pose questa domanda: 'Quanto fu ampia la libertà di scelta di Dio nella costruzione dell'universo?'. Se la proposta dell'assenza di confini è corretta, Egli non ebbe alcuna libertà nella scelta delle condizioni iniziali. Avrebbe avuto ancora, naturalmente, la libertà di scegliere le leggi alle quali l'universo doveva obbedire, ma questa, in realtà, potrebbe non essere stata poi una gran scelta: ci potrebbero infatti essere soltanto poche (e forse solo una) teorie complete unificate non autocontraddittorie e tali da permettere l'esistenza di esseri intelligenti.

"Ma possiamo interrogarci sulla natura di Dio anche se c'è solo una possibile teoria unificata, che si riduce a un semplice insieme di leggi ed equazioni. Che cos'è che soffia il fuoco vitale nelle equazioni, e crea un universo che esse possono descrivere? L'approccio solitamente adottato dalla scienza,  quello di costruire dei modelli matematici, non può rispondere alla domanda del perché dovrebbe esserci un universo descrivibile da quei modelli. Perché mai l'universo si dà la pena di esistere? La teoria unificata ha una forza tale da determinare la sua propria esistenza? O ha invece bisogno di un creatore? E, in tal caso, questo creatore esercita qualche altro effetto sull'universo oltre a essere responsabile della sua esistenza? E chi ha creato questo creatore?

"Fino a oggi, gli scienziati sono stati troppo occupati a elaborare nuove teorie che descrivono che cos'è l'universo per porsi la domanda del perché. D'altro canto, le persone il cui lavoro è proprio quello di chiedersi il perché delle cose - ossia i filosofi - non sono riuscite a tenere il passo con il progresso delle teorie scientifiche. Nel XVIII secolo, essi ritenevano che l'intero scibile umano, scienza inclusa, fosse di loro competenza, e discutevano su questioni come 'l'universo ha avuto un inizio?'. Nel corso del XIX e del XX secolo, però, la scienza è diventata troppo tecnica e troppo matematica per i filosofi o per chiunque altro, tranne per pochi specialisti. I filosofi hanno quindi a tal punto ridotto l'ambito delle proprie ricerche che Ludwig Wittgenstein, il filosofo più illustre del XX secolo, è venuto ad affermare che «l'unico compito che resta alla filosofia è l'analisi del linguaggio». Che declino rispetto a quella tradizione filosofica che da Aristotele va fino a Kant!

"Tuttavia, se riuscissimo a scoprire una teoria completa, col tempo tutti - e non solo pochi scienziati - dovrebbero essere in grado di comprenderla, almeno nei suoi principi generali. Saremmo quindi tutti in grado di prender parte alla discussione sul perché l'universo esiste. E, se trovassimo la risposta a quest'ultima domanda, decreteremmo il definitivo trionfo della ragione umana, poiché allora conosceremmo il pensiero stesso di Dio."

 

Leggere nella mente di Dio: niente male come pretesa, specialmente considerato che viene presentata come una conquista della scienza e non certo come un atto di apertura e di disponibilità da parte della fede.

Più che mai profetiche ci sembrano, nell'attuale congiuntura storica, le parole di un grandissimo filosofo della prima metà dell'Ottocento, Sören Kierkegaard, a proposito dei concetti di "progresso" e di "regresso" che la cosiddetta modernità maneggiava e maneggia con tanta disinvoltura, senza avere la minima idea di quel che stia dicendo:

 

"L'umanità nel corso delle generazioni è divenuta sempre più insulsa. Questo dipende al fatto che è cresciuta soltanto in direzione della razionalità, della razionalità finita. Ma questo progresso è in un senso più profondo talmente ambiguo che è un regresso, un vero regresso dell'Assoluto, dall'impressione dell'idea di assoluto: ed è un progresso nel senso di intendersela sempre più con ciò che è relativo e mediocre, con ciò che è «fino a un certo punto». Così si vede anche facilmente che questo progresso è una caduta da ciò che è eterno. Perché la vita di questo mondo è «fino a un certo punto».

 

Dunque, dicevamo che la filosofia non deve mai stancarsi di battere alle porte dell'essere, di tornare ancora e ancora a porre la domanda fondamentale, la domanda sull'essere.

Ma come si entra nell'essere?

Secondo Gabriel Marcel (1889-1973), filosofo originale e notevole rappresentante del cosiddetto "esistenzialismo cristiano", l'entrata nell'essere (e, per contro, la penetrazione dell'essere nell'uomo) coincide con un atto di fede.

Riportiamo l'acuta sintesi del pensiero di Marcel del massimo studioso italiano di Kierkegaard, il compianto Cornelio Fabro (nella sua Storia della filosofia, Roma, Coletti Editore, 1959, vol. 2, p. 909):

 

"Anche presso Marcel quindi si afferma il  'primato dell'atto': l'uomo entra nell'essere con l'atto con il 'suo' atto, e più concretamente con l'atto di Fede cioè con il mio, tuo… ciascuno col proprio atto di Fede. L'essere è quindi l'attuarsi della Fede, il suo muoversi in atto, il suo portarsi perciò o il volgersi al «Tu» in cui il rapporto si compie e di cui vive. La Fede si attua quindi come «fedeltà» e qui il Marcel (molto opportunamente a mio avviso) ci ha tenuto a separare il suo pensiero da quello della tradizione attualista francese che passa come «filosofia della libertà» (Ravaisson, Boutroux, lo stesso Bergson, ecc.). Piuttosto egli ha trasporto nella sfera ontologico-religiosa quella «filosofia della fedeltà» che il Royce (da lui attentamente studiato) aveva considerata soltanto nell'ambito di un idealismo empirico. Con un estremo sforzo di chiarezza il Marcel precisa l'oggetto delle sue ricerche dalle quali è emerso il suo concetto di essere come «luogo della fedeltà», scrivendo, :«Il s'agissait pour moi de découvrir comment le sujet, dans sa condition même de sujet, s'articule à la fois exigée et reconnue comme réalité». Questo non è affatto psicologismo, limitato a caratterizzare certi dati atteggiamenti senza prendere in considerazione il loro scopo, la loro intenzionalità concreta. E il Marcel parla espressamente della «convergence absolute du métaphysique et du religieux» che si rivela fin dai suoi primi scritti.

"Un itinerario quindi di «esperienza vissuta» e non di riflessione concettuale, un'esperienza autentica tuttavia e non, come vuole l'empirismo, di mero riflesso, ma che implica una sua capacità d'invenzione o perfino, ci dice il Marcel, d'«iniziativa creatrice». Ritorna così il tema centrale di questa filosofia dell'intimità personale, vale a dire che la penetrazione dell'essere diventa una «fedeltà all'essere» e non un processo concettuale, e si attua come «introduzione al mistero» di questo essere e non come soluzione, data una volta per sempre, del «problema dell'essere». Evidente: perché se l'essere spirituale si attua come libertà, questa non può essere mai data, ma si dà volta per volta, e l'attualità di questo darsi non può essere anticipata dal pensiero, ma ha in sé il suo principio. Il termine di «fidélité créatrice» che il Marcel ha dato a un suo Saggio indica precisamente questa priorità dell'atto ch'egli non cessa d'inculcare.

Si comprende allora l'ulteriore sviluppo dato dal Marcel al suo pensiero con l'analisi metafisica della speranza che viene ad essere, se non m'inganno, quasi più una preparazione all'attuarsi di tale «fedeltà creatrice» che non una sua conseguenza. La speranza è una virtù e ogni virtù è una forza interiore così che vivere di speranza è ottenere di restar fedeli nelle ore di oscurità a ciò che non fu forse all'origine che un'ispirazione, un'esaltazione, un rapimento. Ma questa fedeltà, spiega il Marcel, non può a sua volta essere praticata che per via di una collaborazione il cui principio è e resterà sempre il mistero stesso, fra una buona volontà ch'è dopo tutto il solo contributo positivo di cui noi siamo capaci, e per via d'iniziative…«dont le foyer réside hors de nos prises, là où les valeurs sont des grâces».

Così che alla fine la speranza a sua volta rimanda come a suo fondamento all'amore, che ha vinto il semplice desiderio ancora egoista e che si pone come «disponibilità» incondizionata. Si parla perciò di una «indissoluble connecsion qui lie espérance et charité. Plus l'amour est égoïste, plus les affirmations d'allures prophétiques qu'il inspire devront être regardées comme sujettes à caution, comme susceptible d'être littéralement démenties par l'expérience; plus au contraire il se rapproche de la véritable charité, plus le sens de ces affirmations s'infléchit et tend à se chargere d'une intentionnalité qui est le signe même de la présence». Questa «presenza» s'incarna nel «noi» che rende possibile lo «io spero in Te», cioè in una «comunione» di cui proclamo l'indistruttibilità. E il Marcel conclude la sua indagine con una definizione piuttosto complicata, ma il cui senso non può essere dubbio: «L'espérance est essentiellemnet, pourrait on dire, la disponibilité d'une âme assez intimement engagée dans une expérience de communion pour accomplir l'acte trascendant, à l'opposition du vouloir et du connaître par lequel elle affirme la pérennité vivante dont cette expérience offre à la fois le gage et les prémices». (Esquisse d'une Phénoménologie et d'un Métaphysique de l'espérance, in Homo viator, Paris, 1944).

 

Se prendiamo come ipotesi di lavoro la concezione di Marcel, dobbiamo riconoscere che, pur essendo tutti già immersi, ontologicamente parlando, nell'essere, vi entriamo in senso proprio, cioè intenzionale e personale, solo mediante un atto della coscienza, che è un atto di fede e di amore nell'essere, o meglio, di fedeltà nell'amore dell'essere.

È evidente che anche un atto di fede nell'amore di una manifestazione della vita sensibile (estetica) o di un ente finito (etica) può essere una via che conduce all'entrata e alla compenetrazione concreta, esistenziale nell'essere propriamente detto, in quell'Essere che i filosofi di un tempo scrivevano con l'iniziale maiuscola (mentre oggi ciò sarebbe considerato politicamente scorretto, in omaggio allo scientismo imperante e ai suoi dignitari al seguito: materialismo, laicismo, agnosticismo e simili). Può anche essere, al contrario, un vicolo cieco, ove la coscienza non trova una scala per salire verso l'essere, ma un vicolo cieco ove si sfinisce nel vano attaccamento all'effimero e (come dice la spiritualità induista) all'impermanente.  Compito della filosofia, allora, sarà quello di ricordare all'uomo la sua natura di essere votato alla  fedeltà, alla speranza e all'amore, tre diversi aspetti o manifestazioni di un'unica realtà, la realtà autentica dell'essere; di ammonirlo circa il rischio dell'inautenticità, che fatalmente lo terrebbe fuori della dimora armoniosa dell'essere, di cui pure è l'erede designato a pieno titolo; di incoraggiarlo a bussare, senza stancarsi mai, alla porta dell'essere, aprendosi alla dimensione dell'amore che è fatto, oltre che di desiderio assoluto del bene dell'altro, di speranza e di fedeltà. Ciò significa che noi dobbiamo sperare che l'amore riuscirà ad operare in noi la trasformazione in abitanti consapevoli dell'essere e che la fedeltà ci terrà uniti per sempre ai sacri legami che abbiamo contratto col "tu", per quante delusioni e scoraggiamenti possano attenderci lungo la via. Perché non dobbiamo mai dimenticare che la speranza (come, del resto, l'amore e la fedeltà) agisce nei due sensi: da parte nostra verso l'essere, e da parte dell'essere verso di noi. In altre parole, l'essere ci è fedele anche quando noi tentenniamo e dubitiamo: è sufficiente che la nostra coscienza si sia aperta una volta, con un atto di fiducia totale, alla bellezza e alla verità del "tu" - e quindi dell'essere che nel "tu" si rivela -, perché l'essere non ci abbandoni mai più e continui a vegliare su di noi e a chiamarci a sé - anche se, molte volte, non ce ne rendiamo neppure conto.