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Il libro della settimana: Federico Caffè, Scritti quotidiani

di Carlo Gambescia - 23/08/2007

Il libro della settimana: Federico Caffè, Scritti quotidiani , il manifesto-manifestolibri, Roma 2007, pp. 158, euro 7,90.

Federico Caffè (1914-1987) è un’economista che merita ancora di essere letto. Ma non per trasformarlo in una specie di icona al servizio di certo vago riformismo postdiessino. Ma come un attento studioso dei sistemi di welfare, o come si diceva negli anni Cinquanta e Sessanta, delle economie del benessere. Ma non solo: uno dei suoi meriti principali resta quello di aver introdotto nelle teoria keynesiana elementi solidaristici, legati a una visione personalista degli attori economici (soprattutto i più deboli), estranea alla tradizione utilitarista anglosassone, anche nella versione, riveduta e corretta, di Keynes.
Caffè credeva nella dignità dell’individuo e nella necessità della sua elevazione spirituale. E assegnava questa missione al welfare state, da lui giudicato una conquista irreversibile. Il suo riformismo, perciò non prescindeva dalla difesa dei diritti sociali. Diritti, invece, oggi molto criticati dai “riformismi” di moda. Il che spiega l’importanza di rileggere questa raccolta di Scritti quotidiani (il manifesto-manifestolibri, Roma 2007, pp. 158, euro 7,90), in origine apparsi sul manifesto tra il 1976 e il 1985. Il testo è curato da Roberta Carlini e si avvale di una densa prefazione di Pierluigi Ciocca, nonché di due suggestivi ricordi di Valentino Parlato e Galapagos.
La parte, come dire, di grana grossa, è costituita dalla critica al neoliberismo. Ma qui e là affiorano anche le sue critiche, piuttosto dure, al corporativismo sindacale e agli sprechi pubblici. Mentre quella di grana sottile, per palati fini, è rappresentata dal dialogo teorico con economisti come Keynes e la Robinson, solo per citarne alcuni.
Ricordiamo qui solo un punto di particolare interesse. La sua fiducia nella possibilità di “ammaestrare il conflitto sociale”. Caffè rifiuta l’ipotesi corporativa ma apprezza invece quella neocorporativa. Costruita però, non sul verticismo, ma sulle “autolimitazioni” e sulle convenzioni, quali autentici frutti di un riformismo maturo e intelligente. E in questo ricorda Commons, padre dell’istituzionalismo economico e democratico, non solo nordamericano. Secondo Caffè “nella teoria economica e in politica economica il conflitto può essere guidato, nel senso di essere assoggettato a leggi e istituzioni preesistenti e non inventate sul momento” (p. 144).
Si tratta di una tesi a dir poco eretica. E soprattutto seria. Principalmente alla luce di quel che sta accadendo oggi in Italia, dove le liberalizzazioni “selvagge” vengono presentate da un governo di centrosinistra come “ le riforme”. Mentre sarebbe interessante riflettere sulla lezione neocorporativa di Caffè. E dovrebbe meditarvi soprattutto quella sinistra “riformista” che accetta un neoliberismo, capace invece di teorizzare solo il conflitto sociale a tutto campo.
Resta però un punto debole. Da buon illuminista, Caffè non scorge la poco virtuosa complementarità tra welfare e sviluppo capitalistico. In realtà, l’intervento pubblico (anche in termini di estensione dei diritti sociali), funge simultaneamente da compimento e contrappeso alla logica della mano invisibile del Mercato. Ora, Caffè ne vede solo il lato positivo, quello di un benessere gradualmente esteso a tutti, grazie alla mano visibile dello Stato. Ma non quello negativo, dal momento che la logica della mano invisibile capitalistica implica anche una costante espansione produttiva, che a sua volta rinvia, al predominio di un’asfissiante immaginario consumistico e al gigantesco saccheggio delle risorse umane e ambientali del nostro pianeta.
In questo senso la sua opera resta all’interno di una logica tipo capitalistico. Il che però - ripetiamo - non significa che non vada letta. Magari ce ne fossero ancora oggi di autentici riformisti come Federico Caffè. Un professore, come nota Ciocca, che “scelse di scrivere sul manifesto e non sul Corriere della Sera “ (p.11).
Il che vale più di tante parole.