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La Gioconda degli anni Venti

di Stenio Solinas - 23/08/2007

 

 

La definizione più felice è quella di Harold Acton: «La Gioconda degli anni Venti». Era ineffabile e inafferrabile, ninfa egeria e icona riluttante. Fra le sue gambe passò gran parte della cultura del suo tempo, la parte migliore, in fondo, quella più poetica. Aveva questa voce da sirena, tenera eppure estraniata, vibrante nel suo innalzarsi per poi andare a spegnersi in una sorta di intimo gorgoglio, aveva questo corpo elegante, una magra biondezza, che si immolava al sesso con la stessa estasi mistica con cui i primi cristiani si davano al martirio.
Hemingway ne fece una delle eroine di Fiesta, Aldous Huxley di Punto contro punto, Evelyn Waugh di Resa incondizionata... In Aspettando Godot di Beckett il suo nome risuona sei volte, nei Cantos di Pound è una presenza, così come nella prima versione della Terra desolata di Eliot. Aragon le è debitore di due libri, Blanche ou l’oubli e Le Con d’Irène, Tzara di una commedia, Mouchoir de nuage, Neruda di una raccolta poetica, Waltz, il primo bestseller da un milione di copie dell’epoca, The Green Hat di Michael Arlen la vede protagonista... Fu scolpita da Brancusi, fotografata da Man Ray e Cecil Beaton, dipinta da Kokoschka, Alvar «Chico» Guevara e de Zárate, disegnata da Wyndham Lewis. Al cinema, nel 1929, sarà Greta Garbo a darle il proprio volto. Destino, si chiamava il film, ovvero, come recitava la prima didascalia che accompagnava le immagini mute, «la storia di una donna coraggiosa e forse insensata». Perché fu proprio questo, Nancy Cunard, bella, pazza e indomita.
Nata nel 1896, Nancy aveva uno di quei cognomi che in Inghilterra aprivano tutte le porte, comprese quelle del Regno. Il bisnonno Samuel era il fondatore dell’omonima compagnia di navigazione (il Titanic, per fare solo un nome, tragico quanto emblematico, era un transatlantico della linea Cunard), la madre Maud una ricchissima bellezza d’oltreoceano, il padre Bache un aristocratico con le passioni tipiche della sua classe sociale, la caccia, la pesca, i cavalli e il disprezzo per la mondanità cittadina. Nata in un castello del XIII secolo che aveva una superficie abitabile più grande della Public Library di New York, ebbe l’infanzia solitaria di chi è figlia unica di genitori dai gusti opposti cementati però dal medesimo egoismo privato. Affidata a nurse e governanti, Nancy li incontrava quando e se erano al castello, a ore fisse e solo per brevissimi momenti, in linea del resto con l’educazione di un’epoca che considerava l’infanzia più un fastidio che un piacere, terra di mezzo da attraversare, possibilmente senza danni, ma certo senza sentimentalismi in vista dell’atteso debutto in società, la scelta di un buon partito, il matrimonio come unica politica famigliare.

Fra il maniero nel Leicestershire e l’appartamento londinese di Cavendish square prima, poi di Grosvenor square, infine di Carlton House Terrace, Maud Cunard mise su un salotto che era una vera e propria macchina da guerra: gli Asquith e i Balfour, la duchessa di Rutland e Lady Randolph Churchill, Lady Diana e Duff Cooper, Antony Eden e i Mountbatten... E poi musicisti, romanzieri, poeti, gli ultimi vittoriani mischiati con i nuovi leoni della modernità novecentesca... Bella, una «venere tascabile» nel giudizio dei suoi amici, colta e brillante, moglie infedele di un marito di vent’anni più vecchio e che le chiedeva solo il rispetto delle forme, la mamma di Nancy fece della presentazione a corte per i diciott’anni della figlia, nel 1914, il suo capolavoro: più grande di due anni, il principe di Galles le farà da cavaliere, ballerà a lungo con lei. Ne avesse incoraggiato la corte, Nancy sarebbe forse divenuta regina d’Inghilterra e Edoardo, al cui orizzonte non era ancora apparsa Wally Simpson, non avrebbe probabilmente avuto bisogno di rinunciare al trono... A chi, nel tempo, le chiederà il perché di quel mancato incoraggiamento, lei risponderà sempre con la stessa parola: «Noioso, era noioso»...
Ma è anche vero che entrambi fuggivano la stessa cosa, l’ingabbiamento in un ruolo, una strada tracciata per sempre, le convenzioni sociali, e per molti versi lo facevano allo stesso modo: poco sonno, molto alcol, depressioni ed esaltazioni, testardaggine. Ciò che li differenziava era il disinteresse culturale dell’uno, rispetto alla voracità intellettuale dell’altra, e l’atteggiamento nei confronti del sesso: il ventenne principe non ne era particolarmente interessato, la diciottenne debuttante non era più vergine.
Nel 1920, quando l’Europa si riaffaccia alla vita dopo il carnaio di morte della Grande guerra, Nancy è a Parigi: si è lasciata alle spalle un marito da cui divorzierà, un amante morto al fronte e una Londra di cui, fra l’Eiffel Tower in Percy street e il Cafè Royal in Regent street, è stata la giovanissima principessa. Il suo gruppo di amici, «The Corrupt Coterie», comprende Osbert e Sacheverell Sitwell, Edward «Bimbo» Wyndham Tennant e Alvaro «Chile» Guevara, Iris Tree e Jacob Epstein. E poi c’è Pound, c’è Wyndam Lewis, Lytton Strachey, George S. Eliot... Imagismo, vorticismo, gruppo di Bloomsbury, jazz negro e musica hawaiana, champagne, liquori, sigarette, amori etero e amori omo. Ma è anche la Londra in cui Maud Cunard, ovvero Lady Cunard, ovvero «Her Ladyship», tiene a sua volta banco, patronessa delle arti, degli artisti e delle istituzioni, dove l’anticonformismo è pur sempre una questione di classi, dove si disprezza la cosiddetta «buona società» ma non fino al punto di rifiutarne gli inviti a pranzo, dove c’è una gerarchia spietata nel suo snobismo, ma anche nel suo filisteismo.

Andando Oltremanica, Nancy fugge uno status e una famiglia, ma la sua sensibilità poetica le permette altresì di afferrare ciò che la madre, per quanto colta e raffinata, non è in grado di comprendere, troppo occupata com’è a fare dell’arte un semplice passatempo: è in Francia che si gioca la partita della modernità, artistica e ideologica, filosofica e nei costumi. E lei non vuole restare in tribuna.
Gli anni Venti furono gli anni della Cunard e la biografia di Lois Gordon Nancy Cunard. Heiress, Muse, Political Idealist (Columbia University Press, pagg. 447, euro 33,60), appena uscita, è, sotto questo profilo, molto accurata. Lo furono sotto il profilo estetico, perché nessuno li incarnò come lei, i capelli biondo oro tagliati corti, i grandi cappelli a cloche, i turbanti e le bandane, i gioielli africani portati come sculture, le nuove calze senza cuciture che davano alle sue lunghe gambe un’impressione di nudità, chic, emaciata, emancipata... Lo furono sotto il profilo mondano, i balli al Bal Nègre o a Le Gran Duc, al Plantation o al La Perle, le serate al Cyrano, al Dingo e al Bouef sur le toit, La Revue Nègre al Théâtre des Champs Elysées con una diciottenne Josephine Baker vestita con una piuma di fenicottero fra le gambe, o un gonnellino di falliche banane... Scriverà il Paris Tribune: «Il polso della cerchia ristretta di Montparnasse sta battendo molto più forte da quando Nancy Cunard è qui».
Lo furono, infine, sotto il profilo intellettuale, perché fondò una casa editrice, The Hours Press, pubblicò Robert Graves e Richard Aldington, Ezra Pound e Louis Aragon, lanciò Samuel Beckett, fece illustrare i suoi libri da Yves Tanguy, Man Ray e Marcel Duchamp, di molti di loro fu comunque l’amante e la musa ispiratrice. Per lei Aragon tentò il suicidio: «le canard sauvage» era stato sino allora il suo soprannome, l’anatra selvaggia, fu ribattezzato «le Cunard sauvage»... Su di lei Pound metterà in guardia nei Cantos: «Stia attento ai pericoli che lo circondano / l’uomo che si mischia con una sirena».
The Hours Press segnò il punto di svolta nella vita della Cunard. Nel 1928, durante un viaggio a Venezia, conobbe un musicista di colore, Henry Crowder, se ne innamorò, lo associò alla casa editrice, concepì per lui Negro , un volume antologico in sette sezioni, per 800 pagine, 400 illustrazioni, 150 contributi, che era una vera e propria enciclopedia sociale, politica e culturale della negritudine nel mondo. Era anche un atto di coraggio individuale e una presa di posizione nei confronti del proprio mondo di appartenenza, una sfida alle convenzioni esibite, alle convinzioni radicate. La rivale di Lady Cunard, Lady Asquith, ironizzò alle sue spalle: «Ci sono novità su Nancy? Alcol, droga o negri?». La madre cercò di far mettere in galera Crowder, fece terra bruciata intorno alla coppia, tagliò i viveri alla figlia. Nancy replicò con uno scritto, Black Man and White Ladyship, in cui oltre a consigliarle di andare a divertirsi con qualche linciaggio nel profondo sud degli Stati Uniti, se la prendeva con l’ipocrisia dell’upper class... I rapporti si ruppero per sempre.
Nel radicalismo intransigente di Nancy c’è la spia di un’interna debolezza. Poetessa di un certo talento, e tuttavia insicura riguardo al fatto di avere un talento, la Cunard aveva cercato per tutta la giovinezza qualcuno o qualcosa in cui identificarsi e/o gratificarsi. Il numero incredibile di amanti va letto anche così, allo stesso modo la Hours Press. In Crowder, più che un compagno di vita, anche lui peraltro cornificato in lungo e in largo (con un nobile veneziano e con un cameriere, con un giornalista inglese e un autista francese, con un ballerino e un pugile anche lui di colore... ) vide una causa cui dedicarsi, una ragione di vita. Come lo stesso Crowder suggerirà ironicamente: «Lei mi voleva più africano. Ma io ero americano».
Dopo la negritudine, sarà la volta della Spagna, la guerra civile, l’identificazione con la causa repubblicana, una passione che non si chiuse con la fine del conflitto, ma che si trascinò per tutto il dopoguerra, in un’attività di aiuto ai profughi e di cospirazione che le valse anche la galera e infine l’espulsione dal Paese. Franco e il fascismo si tramutarono per lei in qualcosa di personale, un odio duraturo e senza tregua, spesso paranoico, foriero di crisi depressive e problemi mentali. In Spagna era andata da giornalista per il Manchester Guardian e i reportage sull’esodo repubblicano e i campi di concentramento che accolsero i suoi membri nella Francia del Fronte popolare rimangono fra i più vividi che siano mai stati scritti. Un fisico sempre più anoressico, una salute sempre più declinante, una mente sempre meno lucida, i suoi ultimi anni furono terribili e patetici: ricoveri in case di cura, cadute e fratture, estrema solitudine, paranoia. Il 14 marzo del 1965, la polizia la trovò svenuta in una strada di Parigi. Portata in ospedale, chiese del vino, della carta e una penna. Non le diedero il primo, ma ebbe le seconde. Scrisse finché entrò in coma e morì due giorni dopo.
Ai suoi funerali, nella chiesa dell’Ambasciata britannica, quelli che portavano la bara erano più numerosi del pubblico che assisteva alla funzione funebre, l’addio triste solitario y final a una Gioconda che da tempo ormai aveva perso il suo sorriso.