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La prima battaglia del Piave

di Francesco Lamendola - 23/08/2007

Fonte: Rivista Militare

 

 

  

Al termine della ritirata da Caporetto, l'esercito italiano sembrava uno strumento irrimediabilmente usurato. Aveva perduro 700.000 uomini, di cui 10.000 morti, 30.000 feriti, 370.000 prigionieri, 350.000 sbandati; e inoltre 3.150 cannoni, 1.730 bombarde, 3.000 mitragliatrici, 2.000 pistole-mitragliatrici, 300.000 fucili. Molti pensavano che non ce l'avrebbe fatta a respingere un nuovo attacco austro-tedesco sulla linea del Piave, e che sarebbe stato necessario proseguire la ritirata fino al Mincio e al Po. Divisioni inglesi e francesi furono fatte affluire in Italia, ma non entrarono in linea: in teoria per costituire una riserva stategica, in realtà perché i loro comandi temevano che esse, entrando in contatto con l'esercito italiano, potessero subire una sorta  di "contagio morale". Invece, quando il 10 novembre si scatenò l'attacco avversario, i nostri soldati resistettero con una determinazione che stupì il mondo, e di cui erano stati altrettanti presagi alcuni luminosi episodi nel corso della stessa ritirata dal Friuli. Quando, a Natale, i Comandi austriaci decisero di sospendere l'offensiva, il miraggio della Pianura Padana e di una conclusione della guerra sul fronte italiano era sfumato per sempre.

 

 

1.     LO SCHIERAMENTO DEGLI ESERCITI.

 

A mezzogiorno del 9 novembre 1917 la Seconda e la Terza armata italiane terminarono il passaggio del Piave e la Quarta Armata completò, con ritardo, lo schieramento sulle nuove posizioni, dal Monte Grappa al Montello. Quel giorno il generale Cadorna aveva dovuto cedere il Comando Supemo dell'esercito al generale Diaz ed era stato destinato a rappresentare l'Italia nel Consigilio militare interalleato di Parigi, deciso nella conferenza di Peschiera dell'8 novembre. La sera del 9 novembre tutti i ponti sul Piave vennero fatti saltare. Tutti sentivano che quello non sarebbe stato un arroccamento temporaneo, come dietro il Tagliamento; benché mancassero i reticolati e le trincee fossero alquanto rudimentali, con l'acqua piovana che vi penetrava abbondantemente, era sensazione diffusa che lì bisognasse resistere ad ogni costo, perché un ulteriore cedimento avrebbe portato l'esercito e il paese al collasso. Vittorio Emanuele III, al convegno di Peschiera con i rappresentanti inglesi e francesi, si era mostrato fiducioso di poter resistere sulla nuova posizione, e la sua convinzione li aveva favorevolmente impressionati.

     Il nuovo schieramento italiano andava dallo Stelvio alla foce del Piave ed era rimasto immutato a ovest del Lago di Garda; a est di esso, facendo perno sull'Altopiano di Asiago, si era enormemente accorciato rispetto alla vigilia della dodicesima battaglia dell'Isonzo: poco più di 300 km. invece di 640; e fu questo che permise al dimezzato esercito italiano di tenere le nuove posizioni. Dallo Stelvio al Lago di Garda era schierato il III Corpo d'Armata (su 2 divisioni); dal Garda al Brenta la Prima Armata (12 divisioni); dal Brenta al Montello la Quarta Armata (7 divisioni in linea e 2 di riserva nelle immediate retrovie); dal Montello alla foce del Piave la Terza Armata (8 divisioni). In riserva era anche il corpo di cavalleria. Tra Vicenza, Padova e Rovigo si stavano ricostituendo i resti della Seconda Armata, uscita fracassata dalla rotta di Caporetto.

 

     Nella zona fra Brescia e Verona si andava scaricando la Decima Armata francese (6 divisioni) e fra Mantova, Cremona e Montagnana, la Quattordicesima Armata inglese (5 divisioni). Un altro corpo d'armata francese (2 divisioni) sarebbe giunto a battaglia già da tempo ingaggiata, fra il 20 novembre e il 2 dicembre, ma senza entrare in linea; e, più tardi, un altro corpo d'armata briannico (3 divisioni). Il maresciallo Foch, in un primo momento, aveva sperato di poter mettere l'intero fronte italiano sotto comando francese, ma dovette ben presto rinunziarvi. Al comando delle forze francesi fu quindi posto il generale Fayolle e, a quello delle forze britanniche, il generale Plumer. Sia le divisioni francesi che quelle britanniche avevano avuto espresso ordine, da Parigi e da Londra, di non entrare in linea fino a quando il fronte non avesse dato garanzie di resistere e di "non coinvolgere la loro sicurezza": come dire che  avrebbero potuto intervenire, ma in un secondo momento, solo quando l'esercito italiano avesse dimostrato di poter fare anche senza di esse. Così fu solo alla data del 4 dicembre, quasi un mese dopo l'arroccamento al Piave e  più di tre settimane dopo l'inizio della battaglia, 2 divisioni francesi entrarono finalmente in linea sul Monte Tomba e sul Monfenera e 2 divisioni britanniche sul Montello. Questa precisazione andava fatta, perché il "miracolo" del Piave, specialmente nella sua prima fase, è merito esclusivo del nostro esercito, che i nostri alleati - ai primi di novembre - avevano dato già per spacciato.

     Il totale delle divisioni italiane era sceso, dopo la ritirata da Caporetto, da 65 a 33, senza contare i resti della Seconda Armata e quelli dell'ex Zona Carnia, da cui si potevano ricavare altre 4 o 5 divisioni relativamente efficienti. L'esercito italiano aveva subito una ben rude "cura dimagrante" poiché era sceso a circa 700.000 uomini con 3.000 pezzi d'artiglieria.

     Di fronte ad esso stavano 53 divisioni austro-tedesche, ossia circa un milione di combattenti con 4.500 bocche da fuoco, raggruppate in tre grandi unità. Dallo Stelvio al Brenta era schierato il Gruppo d'Armate di Conrad von Hötzendorf, formato  dall'Undicesima Armata austro-ungarica (17 divisioni, di cui 5 a est dell'Astico e 12 dall'Astico alla val Brenta) e dalla Decima Armata (altre 2 divisioni pronte ad entrare in linea). Dal Brenta al Ponte della Priula era schierata la Quattordicesima Armata tedesca, quella che aveva svolto il ruolo decisivo nello sfondamento di Caporetto: la costituivano, da est a ovest, il Gruppo Krauss (4 divisioni), il Gruppo Stein (4 divisioni), il Gruppo Hofacker (4 divisioni), più il Gruppo Scotti, di riserva (con altre 3 divisioni). Dal Ponte della Priula al mare era schierato il Gruppo d'Armate Boroević, che si articolava nella Prima Isonzo Armee, fino alla Grave di Papadopoli (con 11 divisioni) e nella Seconda Isonzo Armee, dalle Grave di Papadopoli a Cortellazzo, sull'Adriatico (8 divisioni).

     Va notato che subito dopo aver raggiunto la linea del Piave, il Comando Supremo tedesco aveva preteso il ritiro dell'artiglieria pesante della Quattordicesima Armata, di cui v'era urgante necessità sul fronte occidentale, e che i pezzi di grosso calibro e le bombarde austriaci erano ancora in fase di avvicinamento, a causa del cattivo stato della rete stradale (volutamente danneggiata dagli Italiani durante la ririrata), e inoltre erano a corto di munizioni. Questa volta, perciò, avrebbero dovuto andare all'attacco con una preparazione d'artiglieria molto più modesta di quella che aveva reso possibile lo sfondamento del 24 ottobre fra Plezzo e Tolmino, e anche senza proiettili a gas, che in quella occasione erano stati d'importanza forse decisiva. Tuttavia i comandi austro-tedeschi contavano sul fatto di aver di fronte un esercito demoralizzato e ormai vicino al collasso morale e materiale, cui sarebbe bastato dare l'ultima spallata per infliggergli il colpo definitivo.

     Il piano austro-tedesco prevedeva uno sfondamento in val Frenzela e in val Benta verso Valstagna e Bassano, e uno sfondamento lungo le pendici orientali del Grappa (Monte Tomba e Monfenera) per prendere d'infilata la linea di resistenza italiana sulla sponda destra del Piave. Obiettivi immediati: Vicenza, Padova e Venezia; obiettivi successivi: Verona, l'Adige, il Mincio e, presumibilmente - arrivati a quel punto -, il crollo definitivo dell'esercito italiano. Dopo di che, attraverso la Pianura Padana e, forse - pare che la cosa fosse allo studio - attraverso la neutrale Svizzera (ma anche il Belgio era stato neutrale nel 1914, e a nulla gli era giovato), un attacco contro la Francia sul fianco destro del suo schieramento. Se il colpo fosse riuscito, non solo l'Italia sarebbe stata messa fuori combattimento, ma le stesse sorti dell'Intesa sarebbero state in gravissimo pericolo. Inglesi e Francesi lo sapevano bene, ed è principalmente per tale motivo che si erano affrettati a inviare truppe di rincalzo: salvo tenerle in retrovia, per le ragioni che abbiamo già detto.

 

     È stato comunque notato  (dal Pieri, fra gli altri) che, per nostra fortuna, lo schieramento nemico era assai sbilanciato alla vigilia della battaglia. Infatti il settore per noi veramente pericoloso, che andava dall'Astico al mare (circa 120 km. di lunghezza), era guarnito dagli Austro-Tedeschi in maniera poco razionale, essendovi ben 23 divisioni contro le nostre 11 lungo il corso del Piave e solo 12 divisioni austriache contro 8 italiane nel settore montano (dal Pasubio al Grappa). Se Conrad avesse concentrato lo sforzo tra l'Astico e la val Brenta, forse non ce l'avremmo fatta a resistere. Certo è che le truppe della Prima e Quarta Armata italiane erano più "fresche" di quelle che si erano dissanguate nelle dodici battaglie dell'Isonzo e, pur costrette a rititirarsi dopo Caporetto, non avevano subito il trauma della disfatta. Stavano inoltre per entrare in linea, specialmente nella zona del Grappa, le giovanissime leve della classe 1899: i "ragazzi del '99", come furono subito affettuosamente chiamati, e come sarebbero poi stati a lungo ricordati con commossa gratitudine dal Paese.

 

 

2.     LA BATTAGLIA DEL PIAVE: PRIMA FASE (10-26 NOVEMBRE).

 

     La chiameremo così, anche se in effetti l'offensiva austro-tedesca si pronunciò su un fronte molto ampio, dall'Altopiano di Asiago al Grappa e al Piave, sino alla foce del fiume.

      Il 10 novembre Conrad scatenò l'attacco, con estrema violenza, in quello che riteneva il punto più sensibile del nostro schieramento: l'altopiano di Asiago, dove già si era scatenata, nel 1916, la sua famosa "Spedizione punitiva" o Strafexpedition, che si era però mostrata appena un po' troppo debole per infrangere la nostra resistenza e sfondare fino alla pianura di Vicenza. E lì ripeterà il tentativo nel giugno 1918, ostinatamente convinto che il sottile diaframma montano che lo separava dalla pianura sarebbe dovuto cadere nel giro di poche ore, consentendogli una seconda Caporetto ai danni della nostra Prima Armata e,          quindi, una rapida avanzata fino all'Adige, se non fino al Mincio. Ma la via più breve, in montagna, non è sempre la più agevole né la più conveniente: se ne accorsero i fanti austriaci che il 10, l'11 e il 12 riuscirono ad avanzare pochissimo, per vedersi vigorosamente contrattaccati e inchiodati dal fuoco incessante dell'artiglieria e delle mitragliatrici.

     Stesso risultato ebbero gli attacchi del generale von Krauss sul massicio del Grappa, ove incontrò una resistenza altrettanto energica e inaspettata. Non era quello l'esercito che, solo pochi giorni prima, si disperdeva in fuga disordinata lungo le strade della pianura veneto-friulana, più simile a un'orda di sbandati che consideravano finita la guerra e volevano soltanto ritornare alle proprie case? Invece, adesso, quei soldati mostravano di sapersi battere con la massima decisione. Solo la cima del monte Pertica, parecchi giorni dopo (il 23 novembre), rimase alla fine nelle mani degli Austriaci. L'ala sinistra del Gruppo Krauss che, in cooperazione con il Gruppo Stein, tentava di forzare la cresta del Tomba e del Monfenera, fece alcuni progressi insignificanti e dovette arrestarsi davanti a un muro invalicabile.

     Sempre il 10 novembre la Divisione slesiana tentò di forzare con mossa fulminea il Piave a Vidor, ma dovette desistere. La 13.a Divisione tedesca cercò allora di saggiare le possibilità di passare sulla riva destra più a valle, verso Ponte della Priula, ma non ottenne alcun risultato.

     L'atacco al massiccio del Grappa ebbe inizio il 14 novembre. Gli apprestamenti difensivi italiani, realizzati in fretta e furia, erano assai rudimentali: niente reticolati, niente trincee, niente camminamenti; una sola camionabile  (larga appena 3 metri), una carrareccia e due teleferiche. Pure, la resistenza italiana si mostrò subito fortissima, tanto da lasciare stupiti gli attaccanti. Il 15, tuttavia, monte Roncone e il Tomatico vennero sgombrati dagli Italiani; ma la sera dello stesso giorno la 13.a Divisione Schützen falliva nel tentativo di forzare lo schieramento italiano a Fener, mentre la 55.a Divisione austriaca occupava la parte nord della stretta di Quero, ma senza riuscire a sboccare oltre.

     Ciò segnava il fallimento, in partenza, del progetto di estendere l'azione della Quattordicesima Armata al Gruppo Boroevic, all'altezza del Montello. Infatti sin dal giorno 12, di notte, truppe austriache erano riuscite a forzare il corso inferiore del Piave mediante barconi e a stabilire una testa di ponte sulla sponda sinistra, nell'ansa di Zenson. Anche qui, tuttavia, la reazione italiana era stata vivacissima e i nostri contrattacchi, pur non riuscendo a eliminare la testa di ponte, l'avevano subito bloccata, costringendo il nemico a rinserrarsi in un piccolissimo spazio, senza prospettive di poterlo, per il momento, allargare. Il 16 gli Austriaci riuscirono a forzare il Piave presso la foce, a Cavazuccherina e a Chiesa Nuova. Questo modesto successo nella zona fra il Piave Vecchio e il Piave Nuovo, che portava il nemico quasi a ridosso del bordo settentrionale della Laguna di Venezia, era di per sé di scarso valore strategico, poiché l'estrema ala sinistra della Isonzo Armee, proprio a causa della vicina laguna, non avrebbe potuto in alcun caso operare uno sfondamento risolutivo. La cosa avrebbe potuto divenire pericoloso solo se altre teste di ponte fossero state stabilite, più a monte del fiume, sulla riva destra; e in effetti il IV Corpo d'Armata di Boroević, composto di fanti veterani di tante battaglie sull'Isonzo, lottando duramente occupò con 4 battaglioni le Grave di Papadopoli e stabilì un'altra testa di ponte a Fagaré, a cavallo della ferrovia Treviso-Oderzo. Ma qui finirono i suoi successi: inchiodato dalla furibonda reazione degli Italiani, non fu in grado d muovere un altro passo avanti, anzi dovette ripiegare e pagare un tremendo tributo di morti e feriti.

 

     Bloccata l'offensiva austriaca lungo il corso del Piave in pianura, lo sforzo principale degli attaccanti tornò a concentrarsi attorno al massiccio del Grappa. I Comandi austro-tedeschi avevano individuato il punto cruciale nella stretta di Quero e nel sistema Tomba-Monfenera: se il Gruppo Krauss fosse riuscito a forzare quella "cerniera", anche il Gruppo Stein avrebbe potuto sboccare su Fener e Vidor e tutta la riva destra del Piave, a cominciare dal Montello, sarebbe stata investita sul fianco e sul rovescio, con conseguenze imprevedibili. È vero che, nelle retrovie, le due armate anglo-francesi si tenevano pronte proprio ad una eventualità del genere: ma chi avrebbe potuto dire cosa sarebbe accaduto se gli Austro-Tedeschi, sboccati in pianura a tergo della nostra estrema linea di difesa, imbaldanziti da una nova vittoria, avessero potuto liberamente manovrare in una zona ricca di vie di comunicazioni stradali e ferroviarie?

      La lotta, perciò, tornò a concentrarsi sul lato orientale del massiccio del Grappa. Tra il 16 e il 17, col decisivo intervento della Divisione cacciatori tedesca, la stretta di Quero veniva finalmente superata e gli Austro-Tedeschi fecero irruzione nella conca di Alano. Fu un momento drammatico: ormai essi erano a pochi chilometri, anzi a poche centinaia di metri, dall'agognato sbocco in pianura, in direzione di Onigo e Pederobba: ancora uno sforzo e la gigantesca battaglia, forse, sarebbe stata decisa. Il giorno 18 essi fecero questo estremo tentativo: la Divisone Jäger partì frontalmente all'assalto del Tomba e del Monfenera, mentre le divisioni austriache avrebbero assicurato la protezione dei fianchi. Ma la reazione della artiglierie italiane piazzate sul Monte Pallon (1.305 m.), sullo Spinoncia (1.296 m.) e in altri punti del saliente che il nostro fronte formava sul lato nord del massiccio del Grappa (quelle artiglierie che a Saga e a Plezzo, a fine ottobre, avevano inspiegabilmente taciuto mentre le divisioni tedesche penetravano nei fondovalle) fu tempestiva e precisa, rovesciando sugli attaccanti un diluvio di fuoco. Battuti inesorabilmente da quel tiro micidiale, i fanti della Jäger furono costretti a retrocedere.

 

     I comandi nemici compresero allora che non era possibile tentare la conquista del Tomba-Monfenera senza aver prima eliminato il saliente italiano del Monte Pallone e del monte Fontana Secca, e a tal fine le 4 divisioni del Gruppo Krauss si lanciarono a loro volta all'attacco. Dal 18 al 22 novembre si combatté con violenza inaudita, spesso corpo a corpo e con largo uso di bombe a mano, sul saliente italiano a nord del Grappa. Il monte Pertica, tenuto dal XXVII Corpo d'Armata del generale Di Giorgio, fu teatro di ripetuti assalti nemici: conquistato dagli Austriaci il giorno 20, poi ripreso dagli Italiani e ancora perduto, e così di seguito più volte, fra attacchi e contrattacchi alla baionetta degni dei tempi omerici. Alla fine le truppe del Krauss riuscirono a impadronirsi sia del Pertica (m. 1.549) che del Fontana Secca (1.608 m.), il primo a nord-est, l'altro a nord ovest della cima del Grappa, a metà strada verso il Monte Tomatico; ma non a eliminare il saliente e, con ciò, il tiro incessante delle artiglierie italiane.

      Nonostante questo parziale insuccesso, i Comandi nemici vollero tentare il tutto per tutto pur di strappare la decisione e il 22 le migliori truppe da montagna tedesche, la Divisione cacciatori e l'Alpenkorps tedesco, rinnovarono l'assalto disperato al bastione del Tomba-Monfenera. Avanzando con l'ausilio di una nuova arma micidiale, i lancifiamme, questa volta riuscirono a raggiungere la cima di entrambe le posizioni: ma non poterono avanzare oltre. Gli Italiani, tutt'altro che demoralizzati, fecero scudo pochi metri più in basso delle vetta, aggrappandosi alle pendici meridionali delle due montagne (in realtà, due modeste colline, le ultime prima dei Colli Asolani e, quindi, dell'aperta pianura: il Monte Tomba non è alto che 868 metri s.l.m. e il Monfenera, alla sua destra, è ancora più basso), là dove l'artiglieria nemica non poteva arrivare a colpirli.

      Seguirono alcuni giorni d'incertezza: i due avversari ripresero il fiato. Il 25 e il 26, animati da un'ostinata volontà di farla finita una volta per tutte, gli Austro-Tedeschi ripartirono all'attacco su tutto il settore fra Piave e Brenta. Sulla sinistra fallì il loro estremo tentativo d'irrompere dal monte Pertica verso Bassano; al centro, stessa sorte ebbe il loro tentativo di sfondare oltre il Col dell'Orso (m. 1.677) e lo Spinoncia; sulla destra, infine, eguale destino ebbero i loro attacchi oltre la cresta del Monfenera. Col fallimento della Divisione Edelweiss nel suo sforzo contro il Col della Berretta, il giorno 26, ad opera della Brigata Aosta, l'attacco del generale Krauss al massiccio del Grappa poteva considerarsi, per il momento, esaurito.

      Né miglior sorte aveva avuto il Conrad sugli Altipiani. Il giorno 22, gli Austriaci avevano lanciato un nuovo attacco in grande stile, il cui obiettivo immediato era l'avvolgimento delle difese italiane sulle Melette: ma esso fu stroncato senz'altro dal XX Corpo d'Armata del generale Ferrari. Intanto le esauste truppe italiane cominciavano a ricevere rinforzi e possibilità di avere il cambio, grazie alle ricostituite truppe della Seconda Armata e all'arrivo delle nuove leve del '99. Entravano così in linea, sempre nel settore del Grappa, il XXVII Corpo (3 divisioni) il 22 novembre; il XXV, il 27 novembre; indi il VI, il XXXX e il XXVIII. Le truppe italiane riacquistavano sempre più fiducia nelle proprie capacità, mentre gli Austro-Tedeschi cominciavano ad essere attanagliati dall'angoscia. L'inverno, il terribile inverno alpino, si avvicinava a grandi passi, ed essi non erano riusciti a infliggere il colpo di grazia all'Italia; non avevano registrato alcun sostanziale successo e si trovavano di fronte un avversario più combattivo che mai. Inoltre sapevano che, alle sue spalle, si tenevano pronte a intervenire le divisioni francesi e britanniche, che presto sarebbero entrate nella lotta.

 

     La grande offensiva austro-tedesca poteva ormai considerarsi fallita. Il generale Krauss, realisticamente, non credeva più nella possibilità di sfondare tra Brenta e Piave, e lo disse al giovane imperatore Carlo d'Asburgo che, venuto al fronte per assistere alla vittoria definitiva del suo esercito, aveva invece visto la sbalorditiva ripresa del nemico dato ormai per finito. Il generale von Below, comandante della Quattordicesima Armata tedesca, ne trasse le logiche conclusioni e il 29 propose al Comando Supremo austriaco di interrompere definitivamente l'offensiva. Pochi giorni dopo, il 3 dicembre, il suo capo di Stato Maggiore generale, Ludendorff, gli ordinò di  ritirare dal fronte italiano 3 delle divisioni tedesche: la Germania ormai non riteneva possibile sconfiggere l'esercito italiano, almeno sino alla prossima primavera. Forse, non lo riteneva nemmeno desiderabile: per Hindenburg e Ludendorff, un eventuale successo su quel fronte avrebbe avuto conseguenze strategiche e politiche imbarazzanti: avrebbe spostato il centro di gravità della guerra mondiale nella Pianura Padana e avrebbe allungato a dismisura il fronte occidentale. E i due supremi comandanti tedeschi, proprio come Foch (che continuava a brigare, ma invano, perché l'esercito italiano passasse sotto il comando francese) erano convinti che le sorti della guerra si sarebbero giocate sul fronte principale: quello occidentale, dal confine svizzero al Mare del Nord.

 

     La prima fase della battaglia si era conclusa, anche se Conrad, ostinato, non si rassegnava ancora all'insuccesso. Va notato che l'esercito italiano la aveva affrontata e vinta da solo, e in condizioni di inferiorità sia numerica, sia in fatto di artiglieria: non un solo soldato inglese o francese, fino a quel momento, vi aveva avuto parte. Era passato appena un mese dal disastro di Caporetto, e quegli stessi soldati che si erano ritirati in disordine e, talvolta, in preda al panico, avevano ritrovato adesso tutto il loro valore. Questo, in termini, militari, si può considerare quasi un miracolo: uno di quegli eventi che si verificano pochissime volte nella storia, e che lasciano il segno. Il governo, il Parlamento e l'intero Paese lo compresero d'istinto, e si strinsero idealmente ai difensori del Grappa e del Piave. Non erano più in gioco la liberazione delle terre "irredente" o qualche remoto obiettivo strategico, ma la sopravvivenza stessa della Patria (una Patria assai giovane: il Regno d'Italia era nato nel marzo del 1861). Ora che la guerra era diventata da offensiva, difensiva, il suo significato appariva molto più chiaro di quanto non lo fosse mai stato prima: si trattava di resistere a tutti costi, oppure di vedere vanificata niente meno che l'intera opera del Risorgimento.

 

 

3.     LA BATTAGLIA DEL PIAVE: SECONDA FASE (4-25 DICEMBRE).

 

     Il 4 dicembre, mentre le divisioni tedesche iniziavano a retrocedere per imbarcarsi sui treni che le avrebbero riportate in Germania, Conrad - il quale finalmente disponeva della necessaria artiglieria pesante - sferrò un nuovo colpo di maglio sull'Altopiano di Asiago. In quel settore, difeso al XX Corpo d'Armata, 36 battaglioni italiani con 160 cannoni fronteggiavano  44 battaglioni austro-ungarici con ben 500 pezzi d'artiglieria: la superiorità era del nemico, ma non tale - su quel difficilisimo terreno montuoso - da assicurargli una preponderanza decisiva. Neanche questa volta gli Austriaci avevano saputo procedere a una redistribuzione delle proprie forze: ne avevano ancora troppe sul basso Piave e non abbastanza sul Grappa, sul Pasubio e sugli Altipiani, dove intendevano ricercare - come nella prima fase della battaglia- lo sfondamento risolutivo. Obiettivi immediati: Vicenza e Padova.

      Nel primo giorno del nuovo attacco, dopo una poderosa preparazione d'artiglieria, effettuata anche con proiettili a gas e fumogeni, gli Austriaci riuscirono a conquistare le Melette; gli Italiani arretrarono su una linea già predisposta. Questo primo successo, sebbene rimanesse isolato, indusse forse i Tedeschi ad accogliere la richiesta di Conrad che 4 delle loro divisioni rimanessero ancora per qualche giorno sul frone italiano. Si trattava di truppe da montagna particolarmente adatte a quella zona di combattimento e che avrebbero dovuto partecipare a un nuovo grande assalto contro il massiccio del Grappa. Il giorno 6, un altro limitato successo nemico fu la conquista del Sisemol, realizzata da una intera divisione tedesca che lo prese e lo perdette per ben sei volte consecutive, rimanendo alfine padrona della vetta. Ma nemmeno questa volta gli attaccanti poterono sfruttare il successo tattico, trasformandolo in una vittoria strategica, a causa della fortissima resistenza degli Italiani che disputavano loro ogni metro di terreno. Sull'Altopiano di Asiago, quindi, dopo brevissimi successi iniziale, dopo appena pochi giorni l'offensiva segnava già il passo.

 

      L'attaco al monte Grappa fu scatenato il giorno 11dicembre e continuò rabbioso per otto giorni, fino al 19. Ma già i piani austriaci erano stati drasticamente modificati: non si trattava più di sfondare verso la pianura, ma solo di assicurarsi il possesso della lina di cresta, come si era fatta sul Tomba-Monfenera, al duplice scopo di rendere impossibile un contrattacco italiano e di assicurarsi buone posizioni di partenza per una eventuale offensiva primaverile. Pur entro una cornice così ridotta, lo sforzo del Gruppo Krauss fu poderoso, specialmente alla testata della val San Lorenzo; e il 18, dopo asperrimi combattimenti, gli permise di realizzare la conquista dell'Asolone (m. 1520), il bastione orientale del Grappa. Lo sbocco in pianura e la città di Bassano sembravano a portata di mano: ma rimasero un miraggio. La resistenza italiana fu tenacissima: le nostre truppe si aggrapparono al terreno e il nemico, da quella parte, non riuscì ad avanzare più neanche di un metro. Anzi, il 19 già passavano al contrattacco e si riportavano fin sotto la vetta dell'Asolone, riguadagnando molte delle posizoni perdute.  Quanto al saliente del Monte Spinoncia- Monte Pallon, assalito con impeto dall'Alpenkorps e da due altre divisioni tedesche, esso resistette come una roccia in mezzo alla tempesta. E veramente la nostra Quarta Armata del generale Giardino, in quel difficilissimo frangente, scrisse pagine eroiche nella difesa del Grappa, testimoniate dalle numerose medaglie d'oro e d'argento che il Comando italiano assegnò in quei giorni.

 

     Intanto entravano in linea, finalmente, le truppe anglo-francesi. Oggi esistono le prove che i Francesi non aspettavano altro che una nuova crisi della nostra difesa per pretendere il comando supremo del fronte italiano, avocando al generale Fayolle le funzioni di capo di Stato Magiore al posto di Diaz. Il generale Faldella riporta un brano della lettera di un alto ufficiale del generale Fayolle al colonnello Herbillon, che in data 24 novembre scriveva testualmente: "La prima crisi che si prepara consentirà di mettere le mani sul comando italiano." I Francesi, venuti in Italia per sosenere l'alleato, restavano dunque con le armi al piede sperando in una sua sconfitta. Strano modo di fornire aiuto! I Britannici, però, non condividevano né i mezzi né i fini di queste oscure manovre. Diaz, che già aveva rifiutato di porre 5 divisioni italiane sotto il comando alleato, non si umiliò a chiedere l'entrata in linea dei suoi alleati. Fu il generale Plumer che chiese il 24, e pregò il 26 novembre il Comando Supremo italiano, di poter entrare in linea sul Montello. Diaz, allora, gli ordinò di prendere posizione e lo stesso fecero, piuttosto di malavoglia, i Francesi, il medesimo giorno: il 4 dicembre. Un osservatore d'eccezione, lo scrittore Paolo Caccia Dominioni, che combatteva in quel settore e che aveva visto le divisioni francesi sbarcare dai treni, traccia di esse una rapida ma incisiva pennellata: "Gran boria e aria di sicurezza."

 

     Fallivano intanto i tentativi delle Armate di Boroevic di riprendere il forzamento del basso Piave in numerosi punti. Ovunque gli Austriaci vennero fermati e respinti, tanto che il 1° gennaio 1918 dovettero evacuare anche l'insanguinata testa di ponte di Zenson, che con tanto sacrificio avevano conquistato e che costituiva una pericolosa spina nel fianco del nostro schieramento.

      Si profilava ovunque, perciò, un completo insuccesso della seconda offensiva austriaca; il solo Conrad non era ancora rassegnato. Sempre fisso nell'idea di realizzare uno sfondamento decisivo sugli Altipiani prima che la neve imponesse l'inevitabile sosta invernale, il giorno 23 dicembre, dopo una poderosa preparazione d'artiglieria, ritentava l'attacco in forze. Il Valbella, il Col del Rosso e il Col d'Echele caddero in mano nemica; il contrattacco italiano fu immedato; il Valbella fu ripreso e di nuovo perduto. Anche il giorno di Natale, sacro al cuore di tutti gli Europei, vide sanguinosissimi combattimenti, attacchi e contrattacchi. Alla fine, esausti, i due contendenti dovettero attestarsi sulle rispettive posizioni, mutate di poco nel corso della battaglia. Lo sfondamento non c'era stato: Bassano, la pianura e i magazzini italiani rimasero un sogno per le affamate truppe austro-ungariche. Appena un mese dopo, anzi, il 27-28 gennaio 1918, tanto il monte Valbella che il Col d'Echele e il Col del Rosso vennero riconquistati da un poderoso attacco italiano che sembrava preludere a una svolta decisiva della guerra.

 

     L'ultima operazione importante di questa seconda fase della battaglia, quasi una coda isolata ma strategicamente importante, fu la riconquista del monte Tomba, posizione troppo importante e delicata perché la sua cima fosse lasciata in mano al nemico. Questa operazione venne affidata alla 37.a Divisione dei Cacciatori francesi proveniente da Possagno (l'imponente Sacrario militare francese sorge tuttora a poca distanza, alla testa della Valcavasia, subito prima dell'abitato di Pederobba; mentre quello britannico è a Giavera del Montello). Fu un'azione rapida e molto efficace, preceduta da un breve ma intensissimo fuoco d'artiglieria. I fanti francesi sbucarono sulla cima del Tomba quasi all'improvviso e con la perdita di soli 36 uomini se ne impadronirono, il 30 dicembre: la vigilia di San Silvestro.

      Era stata senza dubbio un'azione ben preparata e ben condotta, in cui i soldati francesi (che certo non portavano alcuna colpa delle trame politiche dei loro capi) mostrarono abilità e coraggio. Ma essi avevano avuto il notevole vantaggio di colpire un avversario ormai esausto, dopo 50 giorni di lotta durissima, e per di più scoraggiato per il fallimento evidente di tutti i suoi sforzi e per la prospettiva di dover affrontare un altro inverno in trincea, nell'inclemente clima della zona montana, sempre più a corto di viveri e sempre più consapevole che la Monarchia austro-ungarica, non essendo riuscita a risolvere la partita con l'Italia, aveva ormai il destino segnato. Adesso che la cresta del Tomba-Monfenera era di nuovo entro le linee del nostro schieramento, la minaccia incombente su Possagno, Cavaso e Pederobba era allontanata e gli Austriaci, respinti entro la conca di Alano, non erano più in posizione favorevole per ritentare, quando che fosse, una nuova irruzione verso la vicina pianura.

      In ogni caso, quello del 30 dicembre sul Monte Tomba fu l'unico contributo significativo dato dai nostri alleati alla prima battaglia del Piave: tutto il peso della lotta era ricaduto sulle nostre divisioni, e loro fu il merito della vittoria. Come scrive lo storico Riccardo Posani: "Il 26 dicembre l'offensiva astro-tedesca era terminata, stroncata dalla sorprendente resistenza opposta dalle truppe italiane. Nella quale resistenza, contrariamente a quanto si continua a scrivere, gli Alleati non ebbero alcuna parte."

 

      A conclusione di quelle operazioni, il generale tedesco Krafft von Dellmensigen diede          questo giudizio: "Così si arrestò, a poca distanza ancora dal suo obiettivo, l'offensiva ricca di speranze, e il Grappa diventò il 'monte sacro' degli Italiani. D'averlo conservato contro gli eroici sforzi delle migliori truppe dell'esercito austro-ungarico e dei loro camerati tedeschi essi, con ragione, possono andare superbi."

 

 

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