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Conversioni. Geminello Alvi e la “demagogia della rendita”

di Carlo Gambescia - 28/08/2007

 

Credevamo che Geminello Alvi fosse un accanito nemico della rendita, soprattutto quella finanziaria. Di qui il nostro stupore nello scoprire, leggendo il suo editoriale di ieri sul Giornale (“La demagogia della rendita”), di una sua improvvisa conversione sulla via, non di Damasco, ma G. Negri (strada milanese dove è ubicata la redazione del Giornale).
Nell’articolo Alvi mostra di reputare ancora necessaria la riduzione del debito pubblico, ma non spiega come. Certo, in quattro-cinquemila battute non si può dire tutto… Ma scrive pure di ritenere inutile la tassazione delle rendite nel bel mezzo di una crisi finanziarie. Quando si dice le coincidenze…
Inoltre critica - e giustamente - la demagogia fiscale della sinistra rifondazionista. Tuttavia, per avvalorare la sua tesi, si appella al fatto che un provvedimento del genere colpirebbe le famiglie dei lavoratori dipendenti, “visto che sono anzitutto [queste famiglie] a preferire i titoli di stato nei loro risparmi”. E qui, come dicevano i nostri nonni, “casca l’asino”, perché evidentemente l’aria che Alvi respira al Giornale non giova alla serenità di pensiero. Diciamo, che si è messo a “geronimeggiare” pure lui (dallo pseudonimo Geronimo, alias il democristiano Cirino Pomicino, firma storica del Giornale post-montanelliano). Il che ci dispiace.
Ma per quale ragione geronimeggia? Perché quel che dice, per usare la terminologia logico-economica di Giuseppe Palomba, è al tempo stesso né non vero né non falso. Si tratta della logica NECNON. Nel senso che l’assunzione (i risparmi in bot sono detenuti dalle famiglie dei lavoratori dipendenti), non è non vera, perché corrisponde alla realtà, ma al tempo non è non falsa, perché equivoca, dal momento che quei titoli sono detenuti da un numero irrisorio di famiglie. Perciò quel che sostiene Alvi, non è in grado di far comprendere la verità effettive delle cose.
Ci spieghiamo meglio
Basta sfogliare un aureo volumetto (Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio, La ricchezza degli italiani, Il Mulino 2006) per scoprire, che per quel che riguarda i soli titoli pubblici (Bot e Cct), le famiglie dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, ne possiedono complessivamente soltanto il 10%. Mentre, la restante parte, è nelle mani delle famiglie più abbienti, delle imprese e delle istituzioni finanziarie. Inoltre - sintetizziamo - emerge che ben il 55% dei titoli finanziari è posseduto dal 10% delle famiglie più ricche, che in media hanno un patrimonio netto superiore al milione di euro, mentre il 50% delle famiglie italiane possiede appena il 12% della ricchezza finanziaria totale.
In conclusione, al contrario di quel che sostiene Alvi, l’introduzione dell’aliquota del 20 per cento avrebbe un discreto valore redistributivo. Perché andrebbe a colpire quell’economia della rendita, goduta da un capitalismo parassita, dal lui così lucidamente combattuto.
Ma a quanto pare, in passato.