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Statalismo versus clientelismo

di Gianfranco La Grassa - 28/08/2007

 

 

Ho sostenuto più volte che il “comunismo” (quello che si pretendeva tale nel ‘900) è stato statalista (in qualche modo, dunque, lassalliano) più che marxista. Statalista sia nella sua versione hard, stalinista, con l’industrializzazione a tappe forzate e la pianificazione rigorosamente centralizzata che assegnava un ruolo del tutto subordinato al management dei grandi Kombinat, un grigio apparato burocratico esecutore di ordini, lontano mille miglia da quell’atteggiamento innovativo degli imprenditori che ha dato il là all’impetuoso sviluppo delle forze produttive nel capitalismo “occidentale”; sia nella versione soft, togliattiana, della “via italiana al socialismo”, che sembrava più adatta ad un paese ormai avviato verso i gradini medio-alti dello sviluppo industriale, in cui largo posto veniva assegnato alla piccola-media attività produttiva, subordinata però all’orientamento impresso dalla grande impresa “pubblica” dell’IRI (istituto creato dal fascismo) in funzione (presunta) antimonopolio “privato”, con cui non si intendeva tuttavia entrare in urto aperto e irriducibile, poiché si cercava di attuare una politica bifronte di scontro a volte acuto, ma anche di sotterranea composizione dello stesso, con vasti ambienti sociali cattolici che – mediante il controllo dei settori economici (industrie e praticamente tutte le grandi banche) di tipo “pubblico” – “ricamavano” un morbido conflitto (condito di continui aiuti statali) con i grandi monopoli privati, nel mentre praticavano il loro finto solidarismo mediante concreto sostegno fornito ad un fitto reticolo di attività “medio-piccole” (in specie agricolo-industriali e commerciali), base essenziale di un maggioritario consenso elettorale.

Sarebbe tutta da riscrivere la storia del comunismo novecentesco, smascherando infine la duplice finzione – cui crederono però milioni e milioni di subordinati – della “costruzione del socialismo” dall’alto o della graduale presa del potere da parte delle masse (quindi dal basso) per via elettorale e pacifica. Da quelle finzioni – perseguite però in buona fede anche da molti dirigenti  – sono derivati sia il crollo del “socialismo reale” che la “grande abiura” del piciismo italiano e la sua subitanea trasformazione in apparato politico di servizio del più arretrato capitalismo finanziario e industriale nostrano (operazione “mani pulite” e seguenti), salvando quei pezzi di democristianeria che hanno accettato una funzione subordinata di “supplemento d’anima” di stampo solidaristico-religioso, ormai marcio e corrotto, coltivato dunque senza più un briciolo di onestà. Non è qui il luogo di fare questa storia, che ha avuto – ma molti decenni fa – una sua grandezza, pur se non aveva nulla a che fare né con il socialismo e tanto meno con il comunismo, né con lo spirito “caritatevole” cristiano. Qui mi interessa soltanto rilevare che il processo ha ormai creato quelle che l’ex piciista Macaluso – già “migliorista” e riformista, della corrente del PCI detta “amendoliana”, ma personaggio che merita comunque stima e rispetto insieme a pochi altri della “vecchia guardia” (sia pure di vario orientamento) – ha ben individuato come “due oligarchie” (di derivazione piciista e diccista) ormai in panne e vicine al fallimento.

 

Oggi, negli ambienti che fecero parte del PCI (e magari sostengono adesso di non essere mai stati comunisti, alla guisa del fatuo farfallone a nome Veltroni) o anche del PSI (si pensi al “tristo” personaggio che è Bertinotti, altro vanesio alla ricerca di notorietà “istituzionale”), non esiste più lo statalismo di un tempo. Quest’ultimo, lo ribadisco, non aveva nulla a che fare con la costruzione del socialismo né con una possibile via pacifica e parlamentare allo stesso obiettivo; era invece il prodromo dell’involuzione e del totale fallimento dell’idea di Marx e poi di Lenin di una possibile rivoluzione operaia o proletaria in grado di mettere fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Tuttavia, quello statalismo ha comunque cambiato il mondo, consentendo la creazione di una forte potenza opposta al capitalismo “occidentale” (da me denominato formazione dei funzionari del capitale) e favorendo così il grande movimento di “decolonizzazione” e le intense e vaste lotte di liberazione nazionale, con il completo sconvolgimento della carta geopolitica globale. La fase attuale di “impero” statunitense, con tuttavia il manifestarsi di precisi sintomi di passaggio ad una nuova fase “imperialistica” (policentrica), è figlia dei grandi sconvolgimenti del XX secolo che è stato quello detto del “comunismo”, e che andrebbe invece definito, magari con un minimo di esagerazione, dello statalismo. Quest’ultimo è in rotta dappertutto, perfino nei tanto sopravvalutati “paesi nordici” (europei). Sembra che le sue ultime, ormai logore, vestigia sussistano in Italia; tanto è vero che gli ignoranti del centro-destra – in particolare il loro leader – sostengono che oggi in Italia predominano i comunisti.

Se Berlusconi non capisce gran che, è però necessario ricordare che questa sua incomprensione è il “duplicato” di quella di coloro che hanno compiuto la “grande abiura”. Anch’essi hanno preso per comunismo una esasperata forma di statalismo (tipo URSS); partendo da tale svarione, blaterano sulla sempre esistita differenza del PCI rispetto a tale forma, e sul fatto che l’hanno oggi completamente abbandonata, salvo alcuni residui che ancora si dedicano alla mistificazione conservando la mera denominazione di “comunisti”. Se gli eredi (pur traditori) e i fintoni del “comunismo” fanno confusione tra questo e lo statalismo, perché pretendono che l’avversario ci capisca qualcosa?

 

 In realtà, oggi non esiste più nemmeno in Italia un vero statalismo; esiste il clientelismo attraverso lo Stato, che è cosa ben diversa. Tutti gli ideologi imbroglioni del capitalismo, di destra o di sinistra che siano, pretendono che quest’organo “supremo” sia al servizio della collettività, al di sopra delle varie parti in eventuale conflitto, di cui esso si fa mediatore contemperando gli interessi di tutti. In realtà, ognuna di queste parti in conflitto (per nulla eventuale, ma sempre attuale, anche se più o meno acuto) cerca di influenzare lo Stato affinché agisca secondo le sue interessate preferenze. Le varie organizzazioni (partiti, sindacati, lobbies, ecc.), che agiscono nella sfera politica, mirano ad accaparrarsi il consenso di determinati strati e comparti sociali al fine di usare “in proprio” i vari apparati “pubblici”. Neoliberismo e neostatalismo (che tende a paludarsi, teoricamente, da  keynesismo) sono una “commedia delle parti” in conflitto per orientare quest’ultimo al proprio successo.

Tuttavia, il degrado politico è ormai tale che i gruppi dirigenti delle varie organizzazioni, che si battono fra loro nella sfera politica, nemmeno tentano di rappresentare gli interessi complessivi di dati raggruppamenti sociali – molto spesso interrelati trasversalmente tra loro – tipo quelli grande-imprenditoriali (finanziari e industriali); o il lavoro detto autonomo e quello dipendente (salariato) o le varie fasce interne sia all’uno che all’altro; o i “risparmiatori” e i “consumatori”; e via elencando. In realtà, salvo che per quel che riguarda i più potenti, ma più arretrati, grandi gruppi finanziari e industriali – che impongono, sia pure da dietro le quinte, le loro direttive – i gruppi dirigenti dei vari organismi (partiti) attivi in politica si tengono in stretto contatto solo con i loro sodali alla testa delle associazioni di rappresentanza (“sindacale”) dei vari raggruppamenti sociali. La politica non ha quindi più alcun orientamento di base; non dico ideologico, riguardante i valori comuni a vasti insiemi di questi raggruppamenti, ma nemmeno di difesa di interessi caratterizzati in senso corporativo. Al di sotto dei grandi gruppi finanziari e industriali, effettivi dominanti, esistono solo svariati gruppetti di personaggi corrotti, legati ai “rappresentati” da rapporti di “clientela”, che assomigliano molto a quelli mafiosi che pur tutti dicono di voler sconfiggere (ma non possono farlo perché sono dello stesso genere e natura).

 

Il preteso neoliberismo finge di appoggiare la libera iniziativa dei “soggetti” produttivi. Questi non hanno però nulla a che vedere con il “macellaio di Smith”, al cui “egoismo” i consumatori avrebbero dovuto affidarsi per essere riforniti della carne migliore. Il mercato è dominato dalle grandi concentrazioni economiche. Al loro interno, i gruppi più arretrati e parassitari – che hanno bisogno, come del resto da sempre nel nostro paese, di attingere alle “casse dello Stato” – hanno deciso di far rappresentare i loro interessi nella sfera “pubblica” allo schieramento detto di centrosinistra (anche questa è pratica in uso da decenni). Il neoliberismo della destra ha quindi solo lo scopo di contrastare tale scelta, cercando di sobillare – ma senza mai il coraggio di guidare uno scontro aperto – i settori più sensibili alle prevaricazioni degli apparati pubblici, settori che sono quelli del lavoro sedicente autonomo. L’agitazione antifiscale è uno dei mezzi in primo piano in questo momento, anche perché appare “giusta” nell’attuale fase di ulteriore disfacimento di tutti i (carenti da sempre) settori che dovrebbero fornire servizi adeguati: sanità, poste, ferrovie e rete di trasporti in genere, uffici dell’amministrazione pubblica (sia centrale che locale), ecc. In effetti, diventa sempre meno comprensibile perché si debbano pagare sempre più “oboli” allo Stato, quando questo non fornisce alcunché di “pregiato” e utile.

La recita delle parti in commedia è tuttavia molto più comica (e irritante) “a sinistra”. Se il giorno di Capodanno venissero registrate le diverse dichiarazioni delle sue innumerevoli componenti, si risparmierebbe poi tempo (e denaro per annunciatori, corrispondenti e giornalisti vari), trasmettendole di tanto in tanto durante l’anno. La parte “moderata e riformista” dello schieramento afferma che è ora di finirla con i ricatti delle “estreme”, che bisogna riconquistare i settori “produttivi” piccolo-imprenditoriali (e le partite IVA) con riduzioni fiscali e altro, tuttavia liberalizzando tali settori per favorire i consumatori. Le “estreme” minacciano a loro volta “la crisi” se non si rispetta il programma (quello delle “non so quante centinaia” di pagine, tirato da tutte le parti), rilanciando inoltre il “pubblico” (quindi il neostatalismo, a volte appunto mascherato da neokeynesismo) e facendo pressoché esclusivamente gli interessi “dei lavoratori” (che sembrano essere solo quelli dipendenti e salariati, e del più basso livello; tutti gli altri non lavorano). 

Poiché si tratta di opportunisti e menefreghisti, solo dediti a piccoli interessi personali, alle loro roboanti dichiarazioni non segue null’altro; “tutti insieme appassionatamente” sono abbarbicati ai loro seggi governativi e parlamentari e si “divertono” a spartirsi ogni posticino di qualche potere negli apparati della sfera “pubblica”, usando però la nobilitante espressione inglese (americana): spoil system. Quando occorre, intervengono poi l’ineffabile “Monty” (degno figlio, “spirituale”, di suo padre) e altri dirigenti di associazioni di categoria, dalla parte dei centrosinistri moderati; mentre a favore delle altre componenti di tale schieramento intervengono i dirigenti sindacali, ma con largo ventaglio di posizioni: cislini e uillini un po’ più “centristi”, cigiellini più “radicali”, metalmeccanici del tutto “estremisti”.

 

Questa ormai tediosa commedia, cui partecipa in posizione attualmente nettamente subordinata (e “di rimessa”) anche il centrodestra, è appunto ammantata dalle grandi opzioni liberiste o invece stataliste (dette keynesiane), ma si tratta invece di semplice clientelismo, di politica spicciola e miserabile, che lascia imperversare gli interessi parassitari, succhiatori di ogni linfa vitale della società, che fanno capo a quella che ho spesso denominata GFeID (grande finanza e industria decotta), guidata (non completamente ma in parte non indifferente) dal “Trio Infernale”; formato, lasciando da parte i nomi delle persone e andando a quello delle società, da Fiat, Intesa e Unicredit. Non certo unite fra loro, tutto il contrario; ma che recitano anch’esse bene la commedia delle parti, per cui gli interessi dell’intero paese sono per il momento scambiati con i (sostituiti dai) loro.

Come si possa uscire da un situazione così pericolosa e disastrata non lo so. Oggi è di moda sostenere che le grandi democrazie occidentali sono spesso nate da rivoluzioni innescate dalla lotta antifiscale. A parte l’azzardo del paragone tra l’Inghilterra del ‘600 e la Francia del ‘700 con quel “pauvre pays” che è l’Italia (e in questi ultimi anni lo è mille volte di più che in ogni altro periodo della sua non brillante storia), è bene ricordare che quelle rivolte finirono con il taglio della testa di Carlo I (1649) e di Luigi XVI (1793). Qui, Bossi propone 5-6 mosse che, a suo avviso, metteranno in difficoltà il governo rispettando la legalità. Veramente tutto da ridere. A differenza che nella poesia, qui è a sinistra che s’ode lo squillo di tromba dei cialtroni, e a destra risponde lo squillo dei buffoni. Si resta sempre in attesa di qualcosa di serio; non certo come le rivoluzioni inglese e francese – inutile sperare tanto – ma almeno con l’abbandono di questa farsa!

Per intanto, esercitiamoci nel famoso “pernacchio” eduardesco all’indirizzo di tutti i cantori del neoliberismo e del neostatalismo: il primo sta al liberismo autentico come il secondo sta allo statalismo del “comunismo” novecentesco.